Padova Porsche Jazz Festival 2006
Ornette Coleman Quartet
Padova, Teatro Verdi 23 Novembre 2006
di Daniele Mastrangelo
foto Alice Valente Visco
C'è una forza difficile da contrastare con la quale si confrontano tutti
gli appassionati del jazz. Ogni volta che la sorte offre l'occasione di poter ancora
ascoltare qualche "antico maestro", la stessa eccezionalità dell'evento è
come se avvolgesse la capacità critica dell'ascolto con una rada, se vogliamo anche
sottilissima, disposizione ad accontentarsi. Rispetto alla musica, che resta sempre
troppo impalpabile, astratta, senza una figura tangibile, l'umanità che dal jazz
promana è così imponente che difficilmente riusciamo a dimenticare l'età dell'uomo
che ascoltiamo: difficilmente non consideriamo già una fortuna, persino un dono,
il fatto che possa essere ancora lì, sotto le luci della scena, cercando con naturalezza
o nello sforzo, di tenere strette le trame di una storia che viene dal cuore del
Novecento.
Sì, corriamo il rischio di accontentarci e la nostra rinuncia spesso non
è che il riflesso di quella dei musicisti. I loro suoni, un tempo tesi a rappresentare
il "nuovo" – quante generazioni ha nutrito quel "nuovo"! – ora sembrano di fronte
alla "realtà" mossi non più dalla lotta, ma da una come innocente voglia di attenersi
al piano della semplice descrizione. Sembra che il ritmo della loro vita abbia realizzato
il miracolo di accordarsi a quello della realtà. Si esprime in un canto, che onora
la bellezza di ciò che esiste per essere così com'è e nient'altro; un canto che
sarebbe assolutamente realistico se non fosse anche attraversato da una vena malinconica.
Una volta Natalia Ginzburg definì questa cifra dell'arte di chi invecchia
nei termini di una «riconciliazione col proprio imperfetto», che «canta
e fugge nel fondo come un violino».
Queste considerazioni sono ispirate certo dalla musica di
Ornette
Coleman come è accaduto di ascoltarla al volgere dell'anno scorso grazie
al suo ultimo disco e in un concerto fra i diversi che ha tenuto in Italia. Anche
un breve incontro col musicista ha arricchito queste nostre impressioni.
Certo
quel violino declinato all'imperfetto di cui parlava la Ginzburg può essere un'immagine
della sua musica e del suo animo (si potrebbe pensare pure al Violinista Verde
di Chagall per l'unità di bellezza e semplicità), ma era anche fisicamente presente
su quel tavolinetto di legno insieme al sax ed alla tromba: "utensili del mestiere"
che accompagnano da anni il musicista. Insieme all'amato abito viola sono elementi
che sembrano evocare la presenza di un saggio e certamente avvolgono la scena in
una atmosfera rituale.
Lirismo e inquietudine procedono nella sua musica insieme, l'influenza
blues la agita non già come una venatura ma è invece un solco profondo e diffonde
in molte composizioni il sentimento di una tristezza acuta. Si passa dai tempi veloci
di due brani che da anni vivono nel suo repertorio come
Tournaround e SongX,
all'atmosfera latina e appena festosa di Matador,
mentre nei tempi più lenti di Sleep Talking
e soprattutto di Once Only, così come è
accaduto nel disco Sound Grammar (uscito da pochi mesi, è la registrazione
di un concerto dell'inverno 2005) sembra di
ascoltare i momenti migliori di questa musica. Grazie ad una maggiore possibilità
di distensione del discorso musicale, quando meno attive sono le insidie tecniche
dovute all'età, in questi ultimi brani
Coleman
dispiega un lirismo unico.
Il
sassofonista ha la capacità di dar rilievo a brevissimi incisi, lasciarli leggeri
per un attimo nel silenzio e poi sollevarsi con note lunghe, acute, con un disegno
melodico fatto di una cantabilità personalissima. Sempre di nuovo colpisce la maniera
peculiare in cui gli riesce di mettere al centro la sua "voce" come se, rispetto
alla tessitura della sezione ritmica di batteria e due bassi, il suo "racconto"
proceda simmetrico ma opposto. Da un lato c'è la carica aggressiva, veloce e spesso
caotica della sua musica; dall'altro emerge la "voce" del sax che pure fa parte
di quella ma come il suono di un musicista di strada fra il trambusto dei passanti.
La musica deve il suo senso a questa tensione. Non è apparso però un musicista in
ottima forma, il peso degli anni è presente in una certa omogeneità del clima espressivo,
in alcune ripetizioni stilistiche del fraseggio. C'è stata poi rispetto alla prova
discografica la penalizzazione di dover sostituire il contrabbasso deciso di
Gregory Cohen con lo scialbo basso elettrico di Al McDowell. Soprattutto
poi non si riesce proprio a giustificare criticamente (come pure è successo nella
cronaca dei recenti concerti di
Coleman
in Italia) il senso musicale di Denardo Coleman che segue il padre oramai
da decenni. Tecnicamente impreciso, monotono, dotato di uno scarsissimo interplay,
costringe chi ascolta a ricreare la musica nell'immaginazione senza la batteria.
Meglio allora concludere le note del concerto ricordando che fra i bis l'esecuzione
di Lonely Woman è stata bella ma non
meravigliosa com'è l'originale.
Coleman al di là della scena è un signore anziano, minuto, nascosto
sotto il cappello per proteggersi non si sa se dal freddo o per timidezza, riserbo
e bisogno di nascondersi.
Guarda
spesso dal basso in alto, di sottecchi, leggermente curvo e il sorriso, raro, compare
come qualcosa di estremamente prezioso. Allora ci si ricorda di come durante il
concerto abbia sorriso al pubblico in maniera intensa, scelta, persino meditata
e certamente vera. Si è intrattenuto placido con diversi ammiratori per firmare
autografi nel corridoio dell'uscita "riservata" del Teatro Verdi, trasmettendo
una voglia di comunicare del tutto opposta alle difficoltà che si sono presentate
per intervistarlo. Qualche piccolo cenno lo merita anche questa storia.
Nei giorni precedenti il concerto, nessun tentativo di contattare il musicista
attraverso la normale prassi giornalistica era andato a segno, l'ufficio stampa
del festival sottolineava come proprio l'agente di
Coleman
avesse chiuso le porte ad ogni possibile intervista. Si doveva pensare che era il
sassofonista a non voler lasciare dichiarazioni?
Chi scrive nutre uno scetticismo di fondo verso la forma dell'intervista,
pur verificando spesso la contraddizione di appassionarsi e divertirsi ogni qual
volta una simile occasione si presenta. Lo scetticismo nasce dal dubbio se la musica
sia poi materia così disponibile alla discussione e se esista una buona volontà,
ma anche una capacità dei musicisti di illustrare a parole la loro arte. Sempre
più spesso però accade di vedere come intorno ad alcuni artisti si costruisce da
parte dei loro agenti una specie di cappa invisibile, come se il mondo esterno oltre
alla realtà del concerto, altra funzione non possedesse. Del resto – così pensavamo
– un musicista che ha fatto della libertà una pratica, sarà pure in grado di darci
autonomamente una risposta. Insomma ciò che alla fine ci ha mosso è stata soprattutto
la curiosità di capire quanto
Coleman
fosse libero in quella situazione: nel nostro immaginario il suo posto naturale
era, piuttosto che l'asettico Hotel dove alloggiava, l'Arena Romana di Padova, con
i suoi tesori di Giotto e, allora, del Mantegna squarcionesco.
Siamo
andati a cercarlo invece nell'asettico Hotel... A mezzogiorno - la sera ci sarebbe
stato il concerto - alla reception prima ci hanno detto che potevamo soltanto lasciare
un biglietto con i nostri numeri, poi hanno chiamato la donna che faceva le pulizie
nella sua camera per sapere quale fosse la "situazione" dell'ospite illustre.
Questa riferiva che
Coleman
era lì e da circa un'ora non faceva altro che andare avanti e indietro nel corridoio!
Certo cosa assai diversa dal passeggiare nel verde intorno ai Musei Civici…All'improvviso
e con gentilezza, decidono dalla reception di chiamarlo e così, in un attimo, avevamo
il musicista al telefono. La voce rauca, trattenuta ma non dura, anzi dolce, trasmetteva
curiosità per l'incontro che gli proponevamo. In quel momento si sentiva affaticato
poichè stava preparando mentalmente il concerto. Comunque ci avrebbe incontrato
volentieri dove avessimo voluto. Siamo quindi riusciti con poche battute, a fissare
un appuntamento dopo il concerto.
Quando
il nostro momento è arrivato, naturalmente l'agente di
Coleman
non poteva non essere in agguato. Siamo stati tenuti lontani dal camerino per le
interviste ed è stata una fortuna che
Coleman
stesso, all'uscita, ci abbia riconosciuto. Intanto l'agente ci ha in sostanza fatto
capire che bisognava spicciarsi, mettendosi poi a mani incrociate a sorvegliarci
da un po' di distanza. Eravamo rammaricati, speravamo di avere più tempo ed una
situazione tranquilla e comoda soprattutto per il musicista; il musicista però,
assai affabile, si è tranquillamente poggiato su un tavolo, era abbastanza stanco
per il concerto ma comunque disposto a mantenere la promessa.
Volevamo anzitutto che
Coleman
ci dicesse qualcosa sul significato che la parola "free" ha nella musica
d'oggi e come sentisse lui questo concetto. Al sassofonista però premeva svolgere
osservazioni più ampie: «io credo che la parola "free" – così diceva
– si intoni piuttosto alla condizione umana in generale. Ognuno, se ragioniamo
in astratto, quando nasce è libero e dovrebbe avere dinanzi a se infinite possibilità.
Poi in realtà fra questa libertà astratta e l'esistenza c'è la qualità della vita.
La vita è libera quando c'è salute e amore. Questi sono i due aspetti dell'esistenza
che più hanno a che vedere con la libertà. Io personalmente cerco di trascorrere
la mia vita mantenendo viva la fiamma dell'amore e della libertà». Allora gli
abbiamo ricordato come per noi la sua musica rappresenta un' educazione a questi
valori, aggiungendo però che durante il concerto avevamo riconosciuto in lui una
vena profondamente melanconica (melancholy). «Tristezza (sadness), sono
d'accordo – continuava – nella mia musica c'è tristezza. Ha a che vedere
con la mia professione di musicista, col viaggiare in tanti posti e quindi avere
l'opportunità di osservare molta gente differente che però vive in condizioni di
miseria. Questo, semplicemente, mi rende triste. Mi intristisce continuamente sapere
che ci sono persone che pagano per vivere, anche solo per respirare. Quante sono
le persone che possono permettersi di vivere senza lamentarsi? Quante sono costrette
a farlo? Io non ho nessuna ricetta pronta per risolvere questi problemi, nessun
grande rimedio, so però che l'onestà aiuta. Per me è importante aiutare qualcuno
a credere nei propri desideri e a rischiare di diventare ciò in cui crede. Occorre
rischiare e questo significa cercare di perfezionarsi continuamente secondo l'ideale
che si è scelto ed essere pronti ad aiutare chi ti chiede aiuto oppresso dal bisogno».
Purtroppo il tempo dell'incontro è durato un attimo, prontissimo l'agente del musicista
è intervenuto. Abbiamo avuto appena il tempo di lasciargli come piccolo dono dei
cioccolatini viola del colore della sua giacca...
15/05/2011 | Giovanni Falzone in "Around Ornette": "Non vi è in tutta la serata, un momento di calo di attenzione o di quella tensione musicale che tiene sulla corda. Un crescendo di suoni ed emozioni, orchestrati da Falzone, direttore, musicista e compositore fenomenale, a tratti talmente rapito dalla musica da diventare lui stesso musica, danza, grido, suono, movimento. Inutile dire che l'interplay tra i musicisti è spettacolare, coinvolti come sono dalla follia e dal genio espressivo e musicale del loro direttore." (Eva Simontacchi) |
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Data pubblicazione: 18/02/2007
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