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Pietro Condorelli
Quasimodo

1. No Blues (Ultras)
2. Evening Prayer
3. Tribute To An Unknown Hero
4. Epcode
5. Butterfly
6. The"B" song
7. Istruzioni per l'ufo
8. Quasimodo
9. Fat Again


Tutte le composizioni sono di Pietro Condorelli eccetto Quasimodo (Charlie Parker) e Butterfly (Filippo Dallio)

Pietro Condorelli: chitarra
Fabrizio Bosso: tromba
Francesco Nastro: piano
Pietro Iodice: batteria
Pietro Ciancaglini: contrabbasso

Recorded & mixed Naples 15 16 17 April 2000 al "PARCO"
sound engineer Carlo Gentiletti

Sebbene sia assolutamente naturale ammirare e considerare la purezza dello stile, ritengo opportuno osservare quanto tale considerazione degli stili tenda a separare gli individui in nome di ciò che alla stregua di un testo sacro non può essere cambiato o modificato.
Nel raggiungere le "cose", l'importanza ed il significato di esse dipendono dal modo in cui tu le hai raggiunte, dal percorso che ti ha condotto ad esse.
Se la tua problematica non risiede nel rimanere più o meno fedele ad uno stile ma bensì a cercare di esprimerti, probabilmente non crederai alla cristallizazione di uno stile ma ad un processo costante di cambiamento che rappresenta la tua naturale crescita.

Ho registrato questa musica con Bosso, Nastro, Ciancaglini e Iodice perchè sono dei musicisti con i quali la comunicazione sul piano musicale ed umano è sempre stata immediata, ringrazio questi straordinari musicisti per aver dato un decisivo contributo alla realizzazione delle mie idee.

Evening Prayer è dedicato alla memoria di
Giulio Capiozzo
Tribute To An Unknown Hero è dedicato al genio di
Colin McKenzies
I brani 4, 7 e 9 sono frammenti di una ideale colonna sonora per
Stanley Kubrick

Special thanks: Bourbon Street Unlimited Guitar School
Pietro Condorelli



Liner Notes a cura di Luca Conti

Con la pubblicazione di Quasimodo, il suo terzo album da leader, Pietro Condorelli alza decisamente il tiro delle sue ambizioni e, alla guida di un gruppo più ampio del solito, propone una musica decisamente complessa, che suona spontanea ma allo stesso tempo accuratamente pensata; proiettata verso sentieri di ricerca, ma contemporaneamente orgogliosa di attingere alla grande tradizione jazzistica, della quale non teme di esibire i tratti più sostanziosi.

Un quintetto tromba-chitarra-piano-contrabbasso batteria, innanzi tutto, non è formazione comunissima nel jazz moderno. Il primo esempio che viene alla mente - che forse può anche aver influito nella scelta di Condorelli - è Interplay, il celebre disco di Bill Evans inciso nel 1962 per la Riverside con Freddie Hubbard, Jim Hall, Percy Heath e Philly Joe Jones, lavoro che indiscutibilmente si pone come punto di riferimento imprescindibile per le analoghe formazioni strumentali.

E non può essere altrimenti: un simile organico presenta indubbie difficoltà di organizzazione sonora, che si imperniano sostanzialmente sulla giusta definizione del ruolo della chitarra che, se usata come strumento ritmico, può provocare incontrollabili scontri armonici con il pianoforte. La soluzione trovata all'epoca da Evans - geniale nella sua assoluta semplicità - prevedeva quindi l'impiego della chitarra come uno strumento a fiato, conferendo a Jim Hall un ruolo assolutamente paritetico a quello di Freddie Hubbard.

Hall si comporta esattamente, quindi, come un sassofonista e non viene mai utilizzato come membro della sezione ritmica, à la Freddie Green; anzi, è tale il suo status che, ad esempio in I'll Never Smile Again o nel brano che dà il titolo al disco, è lui in posizione dominante, addirittura anteposto come solista al leader della seduta Bill Evans. Ma tutto l'album Interplay è un misconosciuto capolavoro di arrangiamento per piccolo gruppo, e gran parte di questo insegnamento è perfettamente individuabile nel disco di Condorelli, che troviamo visibilmente galvanizzato nel voler raccogliere, a distanza di quasi quarant'anni, la sfida lanciata da Evans.

Missione, ci sembra, largamente riuscita. Quasimodo è un Interplay per il nuovo millennio, un lavoro nel quale Condorelli dimostra come sia possibile aggiornare, alla luce di quanto è accaduto nel jazz dal 1962 al 2000, le intuizioni di una creatività - quella evansiana - ben lungi dall'aver esaurito la sua influenza. Il suono, per esempio: la sonorità della chitarra di Condorelli è piena, pastosa, ricca di armonici, asciutta quando il brano lo richiede ma mai anoressica per mancanza di energia vitale.

L'abilità tecnica, che al chitarrista non fa evidentemente difetto, non è mai impiegata come una scorciatoia ma sempre con assoluta logica e subordinazione alle necessità della forma complessiva e del mood del brano. Condorelli dimostra di aver bene compreso le difficoltà dell'organico strumentale con cui ha, questa volta, scelto di cimentarsi, e ne esce vittorioso grazie alla capacità di saper variare le atmosfere, accostare i colori, scoprire fresche ed efficaci soluzioni di arrangiamento che rendono Quasimodo un lavoro saggiamente meditato: una progettualità che, comunque, non va mai a scapito dell'immediatezza e della comunicatività.

C'è inoltre, caratteristica non particolarmente comune nella nostra epoca di replicanti, la grande capacità dimostrata dai membri del quintetto di sapersi ascoltare tra di loro, e quella, ancora più difficile, di sapere quando non suonare; dote, quest'ultima, di cui ci sembra ben fornito Francesco Nastro che, proprio per la sua delicatissima posizione all'interno del gruppo, di perno, di cerniera, di collegamento tra la front line e la ritmica, ha più degli altri l'esigenza, l'obbligo diremmo, di sapersi gestire da solo.

Contrabbasso e batteria, nelle capaci mani di Pietro Ciancaglini e Pietro Iodice, costituiscono qui una combinazione di particolare efficacia, della quale ci troviamo ad apprezzare particolarmente l'elasticità e la duttilità. Ciancaglini ha dalla sua un'intonazione perfetta, e la sua evidente ricerca della nota appropriata, "più giusta", non va mai a scapito della chiarezza delle sue linee di basso, sempre assolutamente definite ed estremamente cantabili (ascoltate, ad esempio, come sostiene gli assoli di Condorelli e Bosso in Butterfly).

Iodice vanta una precisione assoluta, e una nitidezza di punteggiatura - in particolare sul piatto - che possono far ricordare batteristi di epoche diverse, ma ugualmente significativi, come Shelly Manne e Jack DeJohnette. A vantaggio di Iodice - ma è tratto distintivo di tutti e cinque - la volontà e la capacità di sfruttare al massimo le dinamiche: questo è un gruppo che sa usare i colori, e sa anche evitare quell'effetto di saturazione dei piani sonori che troppo spesso affligge il jazz attuale.

Fabrizio Bosso è, allo stesso tempo, l'asso nella manica del quintetto e la sua mina vagante: strumentista di grandi doti mimetiche, dimostra di essersi ormai incamminato verso la definizione di uno stile personale, nel quale l'influenza di Lee Morgan, e più in generale dei grandi della tromba bop e post bop, convive senza problemi con quella - non comunissima, e perciò benvenuta - del primo Miles Davis elettrico (e ascoltate No Blues (Ultras) per rendervene conto).

Quel che più conta, ad ogni modo, è che il quintetto di Pietro Condorelli ha tutte le carte in regola per proporsi, speriamo, come gruppo stabile ed operativo. Quasimodo non è il prodotto di una jam session o di una seduta occasionale (e absit iniuria verbis, beninteso; tutti sappiamo quanta grande musica sia il prodotto dell'impulso del momento); ma proprio nella sua voluta e insistita accuratezza, nella sua quasi maniacale attenzione ai dettagli Condorelli dimostra di avere salde capacità di leader e di organizzatore sonoro, lasciando peraltro intravedere ampi margini di ulteriore progresso.

Sta quindi alla critica e al mercato rivolgere a questo disco tutta l'attenzione che merita, così che quello che, con tutta evidenza, ha tutte le caratteristiche per essere considerato un gruppo di respiro internazionale possa continuare a proporre opere di un tale livello.


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Data ultima modifica: 19/12/2005

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