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Considerati tutti i discorsi sulle innovazioni, sulle sperimentazioni,
sulle improvvisazioni sfrenate e radicali, prendiamo atto con piacere che il disco
che vogliamo segnalare è indelebilmente segnato dalle note del passato, sincero,
levigato e quanto mai conforme all'espressività tipica del genere, con un assortimento
di brani standard ed originali.
Clifford Jordan è uno degli ultimi hard boppers che hanno fatto la leggenda
del jazz, fino al 1993, anno della sua scomparsa.
Il tenorista chiamò vicino a sé per questo progetto quelli che riteneva i migliori
musicisti all'epoca in circolazione: Barry Harris al piano, Walter Booker
al contrabbasso e Vernel Fournier alla batteria. Un disco senza tempo, inciso
nel 1984, ma avremmo potuto dire nel 1950 come
nel 2010, tanto è vivida e immortale la musica del quartetto. L'album, in modo inspiegabile,
è passato nella quasi indifferenza della critica; pertanto vogliamo far sì che a
tale danno venga posto almeno un minimo riparo.
Molto si discute ancora se il bepop e l'hardbop abbiano esaurito la loro
carica inventiva ed emozionale: è innegabile che molto (forse tutto) ciò che oggi
si suona nel jazz provenga da lì. Spesso si ascolta un sax tenore avendo la sensazione
che su di lui aleggi l'anima di
John Coltrane:
bene, è forse un problema? Questo cd, qualora ce ne fosse bisogno, dimostra come
la questione sia vana.
Non è certo comune aver modo di ascoltare quartetti di simile caratura,
pertanto ogni dubbio o incertezza sul perché riflettere su questo cd viene di sicuro
meno.
Il sassofonista appare qui in tutta la morbidezza della sua voce strumentale,
nelle sonorità rotonde che propone con grande sottigliezza, prefigurando soluzioni
formali impeccabili sia tra le andature tipiche del fraseggio di Monk ("Evidence"),
sia nella rilettura di modelli inconfondibili ed emotivamente trascinanti, come
in "Nostalgia / Casbah"
di Fats Navarro e Tadd Dameron.
Accade spesso di trovare formazioni composte da grandi musicisti ed ascoltare
il solito ed inconcludente risultato, non è così per "Repetition"
che anzi racchiude in sé sonorità, interplay, eleganza senza avventure, gestendo
con innegabile perizia anche i più tenui e decrescenti meccanismi di mood e sviluppo,
tanto il quartetto mette in luce abilità che mettono al riparo l'ascoltatore da
ogni possibile collisione col pentagramma.
Come premesso, nulla di assolutamente originale, un jazz eseguito con
perizia (e come avrebbe potuto essere altrimenti?), spontaneo nel robusto groove
e nel misurato senso del bop. E' evidente che nulla avrebbero dovuto dimostrare
i quattro, considerando l'incisione una sorta di conversazione intimamente distensiva
eseguita a "voce alta", con una coesione ed un accordo che rasenta la perfezione.
Un lavoro che merita riflessione, che va apprezzato in assoluto rilassamento, cancellando
dalla mente concetti e pregiudizi ricercati: l'ascolto per il solo piacere uditivo.
Franco Giustino e Fabrizio Ciccarelli
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Data pubblicazione: 17/09/2006
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