L'esordio discografico di Cecilia Finotti, giovane cantante bolognese dalla personalità forte e spiccata, risale al 1999 con
A Flower Is A Lovesome Thing, un disco di standards che vedeva come guest
Maurizio Giammarco.
Ma nell'ultimo Nevermore (Soul Note, 2004), dove continua peraltro a brillare la presenza di jazzisti sensibili e di grande talento, altre (e difficili) strade vengono con ardore e ardimento esplorate. Cecilia è del resto un'artista che per sua natura ama quel senso del rischio di cui spesso si nutre la musica più interessante, e in questo contesto fatto di brani composti interamente da lei (eccezion fatta per una coraggiosa versione slow funk di Stormy Weather) la sua voce è ancor più libera di sondare stati d'animo inquieti e spiazzanti, inabissarsi e guizzare in alto, soprenderci intonando intervalli inattesi e lasciarci con melodie tutt'altro che facilmente orecchiabili ma – proprio per questo – dentro le cui pieghe torniamo volentieri ad esplorare e a rifletterci, per esplorarci e riflettere.
Cecilia Finotti ha iniziato a coltivare la musica classica in giovane età studiando pianoforte. Poi si è avvicinata al jazz, anche grazie al padre, musicista per diletto, contrabbassista e vibrafonista della storica
Doctor Dixie Jazz Band.
Alter ego musicale della Finotti in quest'album è il chitarrista Mauro Campobasso, che è anche il principale responsabile dei trattamenti elettronici, mentre al pianoforte e tastiere si ascolta il compianto Alfredo Impullitti, qui in una delle sue ultime incisioni prima della prematura scomparsa. È dalla quotidiana interazione fra i tre (Mauro racconta che quasi ogni giorno Alfredo, per mesi, ha riascoltato con loro le tracce già incise, trovando ogni volta qualcosa da aggiungere o cambiare, e dunque l'intero lavoro è frutto di un lungo work in progress appassionato quanto complesso da ricostruire) che questo lavoro ha preso forma, impreziosito dagli apporti di Fabrizio Bosso alla tromba, dei sassofonisti Mauro Manzoni e Achille Succi, e della ritmica composta da Luca Bulgarelli (contrabbasso) e Alessandro Svampa (batteria e percussioni).
In Nevermore ogni canzone si aggancia alla successiva aprendo una porta su diverse dimensioni emotive, come diversi sono i territori stilistici su cui le atmosfere del disco si muovono (affiorano echi dei francesi
Air, autori della colonna sonora de "Il Giardino delle Vergini Suicide" di Sofia Coppola), come se si passasse da una stanza all'altra dello stesso palazzo. Dimensioni emotive contraddittorie, attraverso le quali Cecilia ci guida come un'Alice (un po' dark e sinistra) attraverso lo specchio, per poi giungere, al termine di questo percorso, ad un mondo dove gli opposti si annullano e l'armonia interiore torna a farsi possibile.
Introdurrò di seguito ogni singola traccia citando alcune frasi tratte dai testi (qui Cecilia canta e scrive in inglese, sebbene in questo momento stia lavorando col produttore Marco Sabiu al suo primo progetto in italiano) liberamente tradotte.
«C'è una luce / che brilla dove ogni speranza pare disperata / Cuore di deserto / non portarmi altre notti spaventose / Questo mondo è illuminato da un piccolo fuoco…»
Un arpeggio di chitarra su due accordi, su un tappeto percussivo ipnotico, apre l'arabeggiante Desert Heart, prima traccia del disco (ma nel booklet si trova un testo "zero", che non risponde ad alcuna traccia, e non ha altra funzione se non quella di introdurre quello della fiducia smarrita – perché tradita da qualcuno, ma alla fine ritrovata in se stessi – come tema trainante di questa passeggiata tra cuori di deserto e arie di tempesta, sogni oscuri e spaesamento, fino alla finale Happiness dove i frammenti si ricompongono). Qui la voce richiama moltissimo il timbro di Tori Amos, mentre sugli acuti brilla un vibrato jonimitchelliano.
I rapidi glissandi ascendenti e certi sbalzi nelle dinamiche hanno un che della misconosciuta musa (ma in Canada è una leggenda)
Mary Margaret O'Hara, cui va il merito di averci regalato un album – uno solo, quello da lei pubblicato a suo nome ormai sedici anni orsono, ovvero
Miss America – nel quale smonta e rimonta, con schegge di genialità, tutto lo scibile della musica americana, e che fuori da quell'unico disco (un disco rock) si è cimentata anche con Loesser e Weill.
Il sax soprano di Mauro Manzoni si fa strada fino alla ripetitiva coda a sfumare, in cui la voce si moltiplica e la ritmica si fa vagamente r'n'b.
«Segnali scintillanti, vedo chiaramente il sentiero / Ma è inutile, nessuno accoglierà il mio gioco / Un altro viaggio solitario, verso il mio luogo segreto…»
In Silent Wind (It's Useless) la voce di Cecilia echeggia la Kate Bush di
The Kick Inside. La canzone potrebbe invece, nell'andamento ritmico, ricordare una produzione metheniana. Ancora Manzoni, tra tenore, flauti e backing vocals. Il brano sfuma tra percussioni, pads e lo scrosciare della pioggia.
Sempre protagonista il sax di Manzoni (qui sovrainciso a creare un dialogo) apre la misteriosa e rumbeggiante Invisible Enemy, dove sul finale torna il dialogo di sax, conciliato e solenne, in sintonia con le ultime frasi: «Eppure un consapevolezza / grida un piccolo desiderio rimasto inascoltato: / piccolo cuore, non perdere te stesso» (il tema della frammentazione del self torna persino in Stormy Weather, scelta non a caso).
Quarto brano, quarta stanza immaginaria: Tell Me Now è introdotta da una inquietante filastrocca («Lettere che cadono dal cielo / Quali scegliere? / Quali scartare? / Se ti porto cestini vuoti / Starò ad aspettare parole sbiadite?») che ricorda le gemelle di
Shining di Kubrick (e in sottofondo si sente il ticchettìo di una macchina da scrivere, che un po' rievoca Nicholson preso a dattilografare ossessivamente "il mattino ha l'oro in bocca"!). «Dimmi adesso, spiegami la ragione di questa cecità, / perché non sai vedere cose tanto ovvie, perché non cerchi di arrivare a significati più profondi, / di leggere tra le righe, di alzare gli occhi quando baciato da un miracolo…»
Ma l'inquietudine è dissipata dalla tromba di Fabrizio Bosso, che su questa ritmica slow funk si ritaglia due spazi di solo, dapprima con sordina sull'intro, su ritmica di chitarra, basso e batteria, poi, dopo un break di quest'ultima, facendo breccia come un raggio luminoso ed energico a rischiarare per un attimo il mood nuvoloso del brano, tra due interi chorus cantati.
Dopo il brevissimo intermezzo di No More Trust, dove il ticchettìo di un orologio pare catalizzare una presa di coscienza e sembra sussurrare che è giunta l'ora di uscire dalle stanze dell'emotività ferita per evocare il coraggio di ricostruire sulle rovine, ecco la title-track Nevermore. Inizio di chitarra acustica e pads, per aprirsi in una parte centrale funky (ancora
Manzoni, stavolta al soprano, etereo e reverberato, che torna in coda al brano, e piccoli interventi ritmici di Achille Succi al clarino basso) e tornare nel finale alle sonorità intimistiche dell'intro.
In Scaredy Cat Coward You Are, canzone quasi gemella di
Invisible Enemy (nell'andamento ritmico e nei colori) torna Fabrizio Bosso, all'inizio con brevi e lirici fill e poi con un altro rimarchevole solo, dopo quello alla chitarra di Mauro Campobasso, sobrio, di gusto e perfettamente in sintonia con l'atmosfera chillout del brano, mentre la voce invoca una «fiamma dell'anima» per essere protetta e riscaldata: «Dumbly I cry / dumbly you lie / Tears on your waterproof heart…».
«Ali spezzate, angeli costernati… / ma i miei occhi volano lontano, come i miei pensieri / lascio qui la mia vecchia pelle che conosci bene, ricorda che l'oscurità conosce l'alba che verrà…/ Lacrime nere cadono senza fine come il mio dolore»
In Fall of Tears il bravo Luca Bulgarelli si ritaglia un lungo solo. Ancora protagonista la chitarra di Campobasso, delicata e colloquiale.
Dopo un inizio offuscato dal fruscìo ad imitare il suono di un grammofono, esplode una spiazzante
Stormy Weather, funky e inebriata dal contralto di Achille Succi, protagonista e cuore pulsante, coadiuvato da una band in sintonia d'intenzioni (e coinvolta in qualche piacevole obbligato soulful). L'interpretazione di Cecilia è sulla stessa linea d'onda, e i suoi glissandi energici e ammiccanti sembrano quasi ironizzare sull'aspetto lamentoso del testo, come a dire: da quando te ne sei andato piove tutto il tempo… ma magari è una pioggia rigeneratrice!
Si conclude con Happiness (solo chitarra, voce e tastiere), una sorta di canzone "liberatrice" («an old cold chain, a moan, a wail going away…»), questo viaggio attraverso disincanto e sussulti vitali. Con una litania delle sue favorite things si congeda la voce cangiante e madreperlacea di Cecilia. Che speriamo di cuore di ascoltare quanto prima in concerto.
Il cd termina con una reprise della coda di Desert Heart (con un'indianeggiante chiusura-fantasma…). Perché certi percorsi non si chiudono mai davvero del tutto, se non – circolarmente – per ripetersi (Joni Mitchell docet) come un periplo.
Michela Lombardi
per Jazzitalia