Fred Hersch,
piano solo
Auditorium Parco della Musica 21 maggio 2006 Roma
di Daniele Mastrangelo
foto Alice Valente Visco
Le mani di Fred Hersch accarezzano i tasti del pianoforte. Sono
quelle di un artigiano che da forma ad un vaso di terracotta dove ogni movimento
del singolo dito può condizionare il risultato e la forma che si intende creare.
Queste
mani, il movimento delle braccia, trasmettono l'impressione di una quiete estatica
e sono opposte nel loro equilibrio al resto del corpo che è invece magro e curvo.
Alla fine del concerto, quando il pianista si è alzato per raccogliere i numerosi
applausi sembrava che le braccia fossero appese, come un nuotatore che si allunga
prima del tuffo.
L'impressione generale che si poteva ricavare è stata quella di una grande
concentrazione e di un estremo abbandono. E' una musica tutta chiusa dentro se stessa:
nell'improvvisazione su uno standard o su una composizione originale non c'è discontinuità
e i cambi di registro espressivo sono rarissimi, per questo con la memoria, piuttosto
che porre uno accanto all'altro i differenti momenti, si dovrebbe invece partire
dall'immagine completa di un brano per poi distinguerne le diverse articolazioni.
Una volta esposto il nucleo tematico, spesso in forma semplice e lirica,
Hersch arricchiva l'armonia e distribuiva il tema fra le voci. Tassello dopo
tassello comparivano sempre nuovi abbellimenti sulla melodia, il fraseggio si articolava
con una attenzione costante rivolta al contrappunto ma nulla sembrava muoversi.
Fa pensare al mare, ora che si cerca di tornare con la memoria al concerto, al mare
che, così voleva il poeta, è sempre vasto e diverso e insieme unico.
Tutte le composizioni originali proposte (A
Lark, At The Close Of The Day,
Endless Stars,
Valentine tra le altre)
si muovevano su tempi medi o lenti, non erano liriche ma piuttosto crepuscolari,
non avevano la sensualità languida delle ballad ma un carattere introspettivo
o aforistico che ci si può immaginare pensando a certi preludi di Debussy. Anche
la forza dello swing era lontana, oggetto di un ricordo o di una evocazione (Mood
Indigo di Ellington e un brano di Fats Waller) e di fronte agli
occhi del pianista sembrava che mancasse non diciamo l'idea di pubblico ma quel
pubblico concretamente presente nella sala e che nel jazz dovrebbe partecipare non
soltanto per ricevere il messaggio musicale ma anche per contribuire a modificarlo
nel corso dell'improvvisazione. Si era molto più vicini quindi all'atmosfera di
un concerto classico. Ciò dipende in gran parte dal modo in cui Hersch interpreta
l'esibizione in solitudine ma anche da un problema più generale. Spesso si è spinti
a credere che aumentando l'organico strumentale diminuiscano i margini per l'improvvisazione,
caso estremo quello dell'orchestra dove è frequente persino una scrittura in stile
improvvisato. In realtà è vero piuttosto il contrario come accade nell'esibizione
in solo dove si recide la possibilità di una qualsiasi forma di interplay
e quando, soprattutto per uno strumento come il pianoforte, più invadente si fa
la presenza e la consapevolezza della tradizione classica.
La bellezza di questa musica fa sì che è del tutto secondario rispondere
alla domanda se sia o meno jazz così come lo intendiamo e pensiamo di conoscerlo.
Forse invece per comprenderla bisognerebbe inseguire gli esiti e le varie forme
che la vita e la malattia possono stringere nell'arte.
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Data pubblicazione: 03/07/2006
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