Intervista a
Simone Guiducci
di Francesco
Genco
FRANCESCO GENCO:
Vorrei prendere
spunto da "My
Secret Love", il
tuo ultimo lavoro di taglio prettamente jazzistico, impostato su affascinanti e
poetiche rielaborazioni di bellissime "song" del passato e del presente (dalla
stessa My secret Love
a Old Folks,
a Nuages
fino a
Ed io tra voi
di Charles Aznavour, e a
Quando
di Pino Daniele, suonate in
compagnia di straordinari amici-musicisti quali Ares Tavolazzi (cb),
Paolo Birro (p.), Riccardo Biancoli (b.), Javier Girotto (sop.).
Nelle tue cover lines riaffermi il tuo viscerale amore per la forma
"canzone", intesa nel senso più genuino e popolare del termine, presentandola
quasi come il tuo manifesto musicale, attraverso il quale, con coerenza e rigore
metodologico, conduci chi ascolta a capire i "pensieri dell'oggi" con la "voce
del passato", a scavare nelle radici cultural-popolari a caccia di temi
improvvisativi che non trascurino mai la melodia, le reminiscenze di suoni
passati, in particolare mediterranei.
Puoi parlarci dei tuoi inizi, delle tue influenze musicali, e di quando e
con chi hai esordito nel jazz ufficiale, partendo dal tuo innato interesse per
le melodie popolari e i suoni del folklore?
SIMONE
GUIDUCCI: Anzitutto,
devo premettere che suono perché… ho sempre cantato: intendo dire che cantavo
prima di iniziare a suonare, e solo all'età di 12 anni, per una serie di
coincidenze ed una felice intuizione natalizia di mia madre, ho cominciato ad
accompagnare la voce con la chitarra acustica. All'epoca cantavo i
cantautori italiani ed i Beatles, che costituivano un'ottima palestra per il mio
orecchio, dato che non possedevo spartiti e neppure le conoscenze teoriche per
affrontarli.
Ad orecchio ho costruito le mie prime conoscenze armoniche, soprattutto
"tirando giù" dai dischi.
Un apprendistato lungo e faticoso, ma fortemente "motivato" dalla soddisfazione
del poter riprodurre esattamente il background per le canzoni che mi piacevano.
Le armonie e gli intrecci vocali mi hanno lentamente attirato determinando il
mio percorso sulle canzoni, spingendomi verso gruppi che valorizzavano la
chitarra e le voci pur se di estrazioni differenti, quindi dai Beatles,
agli Eagles, ma anche Inti Illimani (che nel nel '75 erano molto
popolari) o Genesis.
Il jazz, beh, ho iniziato ad apprezzarlo verso i 18 anni, grazie a mio
padre che possedeva dischi di Davis, Coltrane, Monk . Lui
mi ha convinto ad alternare nuovi "suoni" alle mie passioni principali. Ho
cominciato a studiarlo qualche anno dopo, cercando di imparare le "canzoni" a
memoria. Ora lo suono (e lo studio) ancora ad "orecchio", che rimane l'unico
sistema reale per approfondire la conoscenza del "suono". La voce, con cui ho
iniziato tanto tempo fa, rimane per fortuna un buon punto di riferimento per
ogni mio approccio ai materiali musicali, sebbene le conoscenze acquisite con lo
studio dell’armonia mi risultino di grande aiuto.
Nel 1988,
dopo aver partecipato a vari seminari fra cui Siena Jazz
1986,
sono entrato in contatto con un giovane musicista mantovano, il clarinettista e
sassofonista Mauro Negri (ora suona con il quartetto di Aldo Romano e con
Enrico Rava, con i quali ha inciso diverse volte per Label Bleu). Devo a lui il
fatto di aver iniziato a suonare a livello professionale, spesso in quartetto
con Riccardo Biancoli alla batteria ed Ares Tavolazzi al
contrabbasso (talvolta sostituito da
Marco Cocconi al basso elettrico). Dopo un paio di anni di
collaborazione live, a Mauro venne l'idea di un progetto dedicato alla
valorizzazione del clarinetto. Nasceva così il quartetto Trapezomantilo,
che pochi mesi dopo a gennaio
1991,
vinceva l'allora mitico concorso JAZZ CONTEST al Capolinea di Milano e
incideva per la Dire Records un vinile che sarebbe stata la prima delle 4
realizzazioni discografiche del gruppo. Un gruppo sperimentale, dove io suonavo
prevalentemente la chitarra elettrica, Negri esclusivamente il clarinetto,
Marco Remondini sostituiva il basso suonando il violoncello, e Riccardo
Biancoli si occupava della pulsione ritmica. Un gruppo senz'altro anomalo,
ma piuttosto originale, dove la ricerca di impasti timbrici e sonorità inedite
era spinta fino alle estreme conseguenze, con l'uso di effettistica applicata un
po' a tutti gli strumenti, violoncello compreso.
Una
grande esperienza durata fino al
1996,
anno di uscita dell'ultimo disco
RINGDISBEL
per la Splasch, dopo diversi anni
di performances nei principali festival jazz italiani, da Clusone a Vignola, da
Teano a Imola etc.
Grazie a questo gruppo mi sono fortunosamente ritrovato catapultato sulla
scena principale del jazz italiano, e nonostante le direzioni del gruppo guidato
da Negri deviassero nettamente dai miei interessi principali (la canzone, gli
standards), devo dire di avere imparato molto da quel periodo, soprattutto per
ciò che concerne l'esperienza live e per le modalità di organizzazione del
gruppo. Cose che mi sarebbero servite parecchio nella mia attività come leader
dei miei successivi progetti musicali.
GENCO:
Nel frattempo, mentre
realizzavi nei primi anni '90 queste interessanti esperienze professionali, sia
in studio che live, hai suonato con artisti del calibro di Enrico Rava,
Furio Di Castri, Paolo Fresu ,in contesti che da li' a poco ti
avrebbero portato a personalizzare in via definitiva la tua "voce" strumentale,
inserendola in timbriche e dimensioni del tutto acustiche. Che importanza ha
avuto per te il rapporto con quei grandi musicisti, prima della nascita nel '95
del tuo primo gruppo da leader denominato "Gramelot Ensemble",
interessante e personale progetto di ricerca musicale tra jazz, tradizione e
folklore?
GUIDUCCI:
Credo sia giusto fare una
distinzione fra il periodo di preparazione del disco di debutto "NEW
FLAMENCO SKETCHES" , a
cui parteciparono Rava e Di Castri, oltre a Mauro Negri e
Riccardo Biancoli, e la successiva collaborazione con Paolo Fresu,
che si inserì come solista all'interno della prima versione del Gramelot
Ensemble, per il disco "GRAMELOT"
del 1995.
Da una parte il disco con Rava e i successivi concerti con questo
straordinario solista furono come il compimento di un desiderio che da anni mi
portavo dietro. Ed in effetti più che il mio album d'esordio, quel disco fu
inconsciamente ideato per essere un disco "alla Rava"...per molti anni
avevo ascoltato i suoi dischi e le sue formazioni dal vivo, avevo studiato con
lui nei corsi di perfezionamento di Siena jazz già nel '86, in una formazione di
allievi che comprendeva, pensa un po', Mauro Beggio e Vittorio
Marinoni alla batteria, Piero Odorici al sax, Paolo Birro al
piano, Stephan Schertler al contrabbasso ed il suo discepolo Marco
Tamburini alla tromba.
Le sue lezioni di musica d'insieme mi avevano "stregato", dandomi
un'infinità di stimoli ed aprendomi una serie di prospettive inedite; adoravo i
suoi dischi "String band"
e "Secrets";
dal vivo lo avevo sentito col suo quintetto infinite volte... così venire a
conoscenza della sua stima nei confronti del mio lavoro con il Trapezomantilo
fu grande. Ma ottenere la sua adesione al mio primo progetto discografico ancora
di più.
E'
evidente che il fatto di impostare il mio disco in maniera che fosse il più
possibile aderente ai suoi lavori, fu un errore, certo dovuto alla mia
immaturità come leader. L'aver invitato il mio "musicista preferito", il
mio idolo, a suonare musiche "nel suo stile"...in pratica l'aver realizzato una
bella "imitazione" di un disco di Rava, e d'altro canto anche la necessità di
far suonare il gruppo (anche dal vivo) nello stile di Rava...mi fece poi
riflettere profondamente sui risultati di questo lavoro, e mi dette un grosso
stimolo a concentrarmi sulla ricerca di una direzione più personale e definita.
Decisi di lasciare le sonorità elettriche, l'uso dell'effettistica e dei
"colori" della chitarra, come Enrico ama definirli, al Trapezomantilo: iniziai a
ricostruire una sonorità personale sullo strumento (e sul progetto) ripartendo
da una piattaforma completamente acustica. Considero la chitarra acustica "lo
strumento" per eccellenza per il musicista che cerchi il "suo suono". Ho avuto
la fortuna di avere al mio fianco, fin da subito, due appassionati cultori di
questo approccio,il vicentino Roberto Dani alla batteria e percussioni e
il sassarese (ma trapiantato a Verona) Salvatore Majore al contrabbasso.
Con questo nucleo di base iniziai la mia ricerca della "sonorità", su di un
repertorio completamente nuovo: iniziai ad accordare in maniera "particolare"
la chitarra, ripresi a cantare, come avevo sempre fatto.
Le melodie del disco
GRAMELOT, del
1995,
sono praticamente tutte nate cantando su un background costituito dalla chitarra
accordata in maniera anomala, secondo logiche modali di stampo folkloristico,
più le percussioni e il contrabbasso. Così Paolo Fresu si inserì in
maniera assolutamente indolore su questo discorso. Il progetto aveva già preso
pienamente corpo, e per uno strumentista lirico come lui fu assai facile venire
incontro alla necessità di trasformare in linee strumentali quelle che erano
linee nate dalla mia voce. Qualcuno parlò di progetto sulla linea degli Oregon
di Ralph Towner, qualcun altro mi avvicinò a Michael Edges...ma
forse aveva solo iniziato a svilupparsi un "suono nuovo", che poi si sarebbe
sviluppato, con l'innesto della fisarmonica e del clarinetto basso, fino alle
attuali forme del GRAMELOT.
Oltre a quello di Fresu, il contributo di un altro grande musicista ha
rivestito grande importanza: fu il fisarmonicista Gianni Coscia a
incoraggiarmi a seguire questa ricerca verso un "folklore immaginario",
che si manifestava attraverso arrangiamenti ed impasti timbrici legati alla
musica di radici ma anche attraverso la ricerca sulle melodie popolari, sulle
filastrocche, sui canti.
La sua partecipazione come ospite al disco
SCIARIVARI',
nel 1997,
fu determinante per prendere piena consapevolezza del nuovo percorso folk-jazz
che stavamo facendo con il GRAMELOT.
GENCO:
Stai dunque
sottolineando una valorizzazione "profondamente" culturale, oltrechè' musicale,
di tale percorso, che ha dato "spessore" e nutrimento al "suono Gramelot", fino
a culminare nelle atmosfere suggestive. Ritmi, cadenze e melodie ascoltabili nel
CD "CANTADOR"
(cantastorie, in dialetto mantovano), uscito nel
2000,
che vede l'innesto di nuovi ottimi compagni di viaggio quali Achille Succi
(clarin.) Fausto Beccalossi (accordion) in un ensemble interamente
acustico e di altissima qualità, da cui come leader hai saputo tirar fuori una
inedita e riuscita "contaminazione" tra stili musicali diversi, grazie alla
quale le note riecheggiano suoni trascorsi, evocano profumi del Mediterraneo in
un'essenza di jazz, etnico, classico e tanghi. Da cosa il nome Gramelot?
GUIDUCCI:
Devo l'idea del termine alla mia
passione per l'opera teatrale di Dario Fo, in particolare a Mistero
Buffo, nel cui ambito Fo recita (e lo spiega spesso al pubblico) utilizzando
un linguaggio costruito mescolando forme onomatopeiche con termini realmente
provenienti dai dialetti del Nord Italia. Il tutto mescolato con abilità
straordinaria.
Impazzivo per quest'idea che nel Medio Evo gli attori di strada, dovendo
girare di città in città, di piazza in piazza, avessero avvertito la necessità
di farsi comprendere qualunque fosse il dialetto parlato dalla folla nella
piazza. Da ciò l'idea di costruire un idioma meticcio, dove trovassero spazio
anche i semplici suoni, comprensibile ovunque, nelle valli del Veneto come nei
mercati di Piacenza o Asti.
E' probabilmente un'utopia, quello di riprendere questo termine teatrale
per riferirlo al nostro gruppo, tuttavia rimango convinto che sia il termine più
vicino all'idea della nostra musica che ho nella mente.
GENCO:
Ci puoi descrivere, in seguito,
i vari passaggi e tecniche che permettono alle tue composizioni di nascere e
svilupparsi poi in gruppo, senza cadere nella trappola delle contaminazioni
posticce e forzate?
GUIDUCCI:
Considero assolutamente poco
interessante la contaminazione quando rimane a livello "turistico", cioè di
sovrapposizione e collegamento forzato di strutture "arraffate da questo o quel
folklore". Considero addirittura grottesca l'idea che contaminazione si faccia
prendendo un percussionista algerino e facendolo suonare con un violinista
siberiano, integrando il gruppo con un D.J. newyorkese, un chitarrista flamenco
ed un vocalist della Patagonia.
Il dialogo fra le musiche può essere fruttuoso solo se si conoscono in
profondità i linguaggi che si mettono in comunicazione, consciamente o
inconsciamente. Se io progettassi di contaminare il flamenco con il jazz, non
sarei assolutamente in grado di uscire da superficiali clichè, data la mia
superficiale conoscenza della complessità del linguaggio flamenco (che pure amo
e apprezzo da ascoltatore).
Il linguaggio proveniente dalle proprie radici (quello che si domina in
profondità) è, secondo me, l'unico che si può far dialogare in maniera fertile
con il jazz che è, non va dimenticato, musica contaminata per definizione e
nascita. Per questo scavare nelle proprie radici è importante: certo non per
farne dell'autocelebrazione etnica e chiudersi all'interno, ma piuttosto poter
dialogare con l'esterno senza appiattirsi.
GENCO:
In queste composizioni si nota
che ti trovi a tuo agio anche nelle divisioni più articolate di "Cantador" ad
es. in Danza
mantovana (5/4),
Cantador
(6/8),
Al Saltafos
(6/8), brani in cui traspaiono linguaggi jazzistici utilmente assimilati - e
sapientemente rielaborati - da chitarristi quali Towner, McLaughlin,
Gismonti, e forse anche Metheny, volendo per forza...come dire,
scovare influenze, senza nulla togliere alla riconoscibilità della tua voce, e
alla originalità della tua scrittura.
GUIDUCCI:
Beh, hai citato alcuni musicisti
fra i miei preferiti ed essere anche solo avvicinato a questi personaggi mi
sembra eccessivo. Certo che Gismonti è tutt'ora un personaggio di
riferimento per me. Degli altri ho ascoltato parecchio...Per quel che riguarda i
tempi dispari, scomposizioni ritmiche etc., sono stato molto impressionato e
stimolato da un seminario sul ritmo tenuto da Dave Holland a Trento una
decina di anni fa. In quel campo c'è da imparare per una vita...lui stesso
continua a studiare e sperimentare.
GENCO:
Puoi riferirci più in dettaglio
dei tuoi metodi di accordatura aperta e/o convenzionale e dei vari "modi" da te
usati, nonche' del loro inserimento sia nella composizione/improvvisazione
(belle acrobazie virtuosistiche con accordi o a "single note" ogni tanto ne
fai...), sia nelle tue sonorità sospese, eteree, dal sapore antico?
GUIDUCCI:
L'accordatura della chitarra, nel
momento della composizione/improvvisazione vocale è quasi sempre un'accordatura
aperta, quindi non la convenzionale mi-la-re-sol-si-mi, ma preimpostata su
modalità, cioè modi, in particolare sul modo lidio (scala maggiore con quarta
aumentata), che mi stimola molto.
In
seguito, talvolta riaccordo la chitarra in accordatura convenzionale,
trascrivendo per i vari strumenti. In qualche brano, dove non faccio assoli,
lascio la chitarra accordata open, ad esempio sul CD
Cantador
in "Il
fiume di pastasciutta"
o "Soeh".
L'accordatura in entrambi i brani è (dalla corda "grossa" alla "piccola")
re-la-re-mi-la-re; l'effetto è un accordo di re sospeso con la quinta e la
nona.
Aggiungendo altre note sulla tastiera si ottengono facilmente sonorità
tipiche di strumenti popolari a corda ...la sonorità "antica" nasce un po' da
qui. Poi trascrivendo per fisarmonica, clarinetto etc. il tutto lievita,
arricchendosi ulteriormente grazie ai contributi "pesanti" dei musicisti che
condividono con me il progetto e dai quali ormai il suono del Gramelot non può
assolutamente prescindere.
GENCO:
Restando sul terreno
strumentale, e ricordando che per te la chitarra acustica, lo hai detto prima, è
lo "strumento" per eccellenza per il musicista (chitarrista) che cerca il "suo
suono", hai sempre usato chitarre acustiche con corde steel, oppure talvolta hai
preferito lo strumento con corde in nylon?
GUIDUCCI:
io uso ormai da parecchi anni solo
chitarre acustiche con corde steel, non uso corde in nylon
GENCO:
Puoi parlarci delle principali
caratteristiche di liuteria ed elettronica che ti hanno "catturato" nella scelta
della tua "mitica"
Godin MultiAc-Duet, rispetto a chitarre di altri marchi altrettanto
prestigiosi, e dirci quali altre chitarre classiche o acustiche hai usato in
precedenza?
GUIDUCCI:
preferisco la Godin, pur
possedendo una splendida acustica costruita da
George Lowden
(liutaio irlandese), e pur avendo avuto una bellissima
Taylor 510,
perchè il modello MultiAc Duet (steel) regalatami da Godin, che mi ha
inserito fra i "godin-players", ha un microfono interno a condensatore che si
può miscelare al suono del piezoelettrico al ponte.
Io preferisco la dinamica del microfono vero dentro la cassa, che
restituisce il tocco in maniera assolutamente realistica. E' una chitarra
elettro-acustica che permette di suonare al fianco di altri strumenti, batteria
compresa, senza problemi di larsen...il problema dei chitarristi acustici sul
palco.
Finchè suoni con due chitarre, o in solo, non ci sono problemi, basta un
buon microfono davanti allo strumento. quando ti avvicini ad una fisarmonica, un
clarinetto, una batteria, diventa problematico con le normali acustiche...la
Godin risolve il problema in maniera egregia ed ha un grande suono.
Ho avuto e possiedo tuttora diverse
Gibson, sopratutto una
175 Charlie Christian del
1979,
che è un grande strumento, anche se dal suono inesorabilmente legato ad un epoca
ben definita. Uno strumento assai poco versatile, ma di gran classe. Ho poi una
Les Paul Custom, una Nighthawk, ma devo dire che ormai dal vivo
uso prevalentemente chitarre acustiche.
GENCO:
Soffermiamoci ora sul
tuo recente lavoro "Django's
Jungle",
registrato al Teatro sociale di Castiglione delle Stiviere (Mn) nel Marzo del
2001. Puoi parlarci dei principali aspetti tecnico-musicali che ti hanno
coinvolto in questo nuovo e non facile progetto, dell'interplay col nuovo
ensemble creatosi con l'aggiunta di validi ospiti stranieri, e di come hai
affrontato e risolto nella scelta ed esecuzione dei brani di Reinhardt (tra
l'altro fra i meno noti) l'inevitabile problematica legata al peso di una icona
musicale (nonchè chitarristica) ed umana tra le più forti del jazz di tutti i
tempi?
GUIDUCCI:
Il progetto su Django è partito
con l'idea forte di suonare la sua Musica, ponendo sul piedistallo non tanto la
sua prodigiosa tecnica chitarristica, tentazione in cui sono già caduti fior di
chitarristi (con risultati, com'era prevedibile, disastrosi, per l'impossibilità
di un qualsiasi reale confronto che non suoni mera riproposizione filologica),
bensì il suo geniale talento compositivo: elemento, questo, fino ad ora oscurato
dagli aspetti quasi "mitologici" della vita e della carriera del chitarrista
gitano. Al di là del mito dell'artista geniale e selvaggio in grado di stupire
il pubblico nonostante la grave menomazione della mano sinistra, bisogna dire
che la le composizioni di Reinhardt sono, a mio parere, talmente avanti negli
anni da suonare ancora oggi all'avanguardia, e quindi fonte di infiniti stimoli.
Bisogna forse ipotizzare: inconsapevole delle leggi e delle regole della
musica del suo tempo, e quindi, irrimediabilmente...avanti di trent'anni,
moderno, infine attualissimo. In ogni caso, erano dieci anni che studiavo "filologicamente"
la musica di Django, prima di propormi di darne una prospettiva anche solo
minimamente innovativa.
Certo
l'assemblaggio dei musicisti che hanno collaborato, da Florin Niculescu
al violino a Chris Speed al clarinetto, per arrivare a Gianni Coscia
alla fisarmonica e Kyle Gregory alla tromba, ha aiutato ad uscire dal
sound dell' "Hot Club de Jazz".
GENCO:
Ritieni giusta l'osservazione di
un critico, apparsa tempo fa su Musica Jazz, in base alla quale nel tuo
personale omaggio ispirato alla musica di Django ti saresti attenuto più ad
atmosfere cameristico-crepuscolari che swing? Da parte mia, ascoltando ad es.
Impromptu
(assolo di tromba) oppure
Flèche d'Or
(assolo di clarinetto e
violino) direi che i suoni e le pulsioni ritmiche viaggiano proprio nel senso
dello swing. Cosa puoi precisare al riguardo?
GUIDUCCI:
Mah...a me sembra che Niculescu,
ma anche Gregory e Speed, swinghino, e parecchio! Certo che,
ripeto, non era nostra intenzione suonare Django swingando nel senso del gipsy
jazz tradizionale. Il recensore aveva comunque apprezzato questa visione
intimistica della musica di Django, testimoniata dalla prevalenza di brani lenti
e medium nel disco. Certo che su
Impromptu
(primo brano del cd) Niculescu
prende un assolo parecchio swingante...
GENCO:
Quali sono i tuoi prossimi progetti legati al Gramelot? C'è qualche nuovo
disco in arrivo?
GUIDUCCI:
Anzitutto è appena uscito (aprile
2002)
un nuovo lavoro intitolato MY SECRET
LOVE, per l'etichetta ABEAT,
dove suono un repertorio ancora di canzoni, ma tratte dalla tradizione: alcuni
standards, fra cui OLD
FOLKS e appunto
MY SECRET LOVE,
ma anche altre melodie stimolanti
(QUANDO
di Pino Daniele,
ED IO FRA DI VOI
di Charles
Aznavour fra le altre). Per l'occasione ho riunito alcuni vecchi amici come
ARES TAVOLAZZI al contrabbasso, PAOLO BIRRO al pianoforte,
RICCARDO BIANCOLI alla batteria e, in alcuni pezzi, JAVIER GIROTTO al
sax soprano.
Questo lavoro è
stato fortemente motivato dalla perdita di una persona, mio padre, con il quale
ho condiviso l'ascolto di questi brani, e che peraltro mi ha molto aiutato a
seguire la mia strada in musica.
Ha quindi per me un valore completamente differente rispetto alle mie
direzioni più consolidate, il Gramelot per intenderci; tuttavia sono molto
affezionato a questa registrazione, effettuata in un momento assolutamente
particolare della mia vita.
Dopo di ciò, per l'autunno è in arrivo il nuovo disco del GRAMELOT:
una tappa importante della storia del quintetto, dato che abbiamo avuto
occasione di collaborare (e registrare) con alcune delle menti creative della
scena jazz contamporanea, quali il violoncellista ERIK FRIEDLANDER, il
trombettista RALPH ALESSI, ancora il clarinettista CHRIS SPEED, la
magica MARIA PIA DE VITO alla voce e il sopranista rumeno NICOLAS
SIMION. Alcuni di loro, dopo aver ascoltato il precedente disco
CANTADOR
hanno accettato di scrivere musica
appositamente per il GRAMELOT.
E' stata una esperienza particolarmente stimolante per il gruppo, ed
un'occasione di crescita ulteriore. Sono molto soddisfatto di questo lavoro.
GENCO:
svolgi attività didattica?
GUIDUCCI:
Svolgo attività didattica, a
Mantova, da parecchio tempo, con mia grande soddisfazione. Come diceva Jim
Hall ad un seminario a Ravenna un quindicina di anni fa, bisogna
approfittare degli allievi, ed imparare da loro il più possibile...certo che
detto da lui fa un po' sorridere...
GENCO:
Puoi riferirci, se ti va,
qualche nome di chitarrista italiano che ti ha particolarmente interessato, o
con il quale hai avuto la possibilità, o ti piacerebbe, di collaborare?
GUIDUCCI:
Conosco e stimo Bebo Ferra,
con cui condivido l'amore per lo strumento acustico e mi piace parecchio
Fabio Zeppetella. Considero poi un grandissimo il quasi compaesano (bresciano)
Sandro Gibellini, con cui ho avuto occasione di suonare talvolta in duo.
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Data pubblicazione: 07/07/2002
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