Intervista a Luigi Martinale
novembre 2009
di Franco Bergoglio
Foto: Alberto Ferrero
In occasione della presentazione della rassegna
Jazz Visions
per la quale è stato chiamato al ruolo di direttore artistico, abbiamo avvicinato
Luigi Martinale,
compositore, pianista e –in quest'occasione- anche organizzatore culturale!
Martinale
partito anni fa come membro dell'ottimo quartetto Trane's Memory diretto
dal sassofonista Alfredo Ponissi, ha poi messo il suo strumento al servizio
di Flavio
Boltro,
Gianni Coscia,
Gianni Basso,
Eddy Palermo, le cantanti Amanda Carr e
Maria Pia De
Vito, Tino Tracanna,
Marco Tamburini, Tom Kirkpatrick.
Luigi è anche socio fondatore (nonché pianista
e arrangiatore) del gruppo Jazzinaria, un progetto che ha precorso i tempi di una
rilettura innovativa della musica italiana e anticipato altre operazioni similari.
L'ultimo lavoro in questa direzione è il Cd nel Dipinto Di Blu con Architorti,
Fabrizio Bosso,
Emanuele
Cisi (Splasc(H) Records -2004).
Con Stefano Risso al contrabbasso e Paolo Franciscone alla batteria
condivide oltre a jazzinaria anche il lavoro come classico trio, affiatato da ormai
dieci anni di musica insieme.
Partiamo dallo strumento. Preparazione classica e poi molto
jazz. Mi sembra che tu ti inserisca nella linea dei romantici in qualche modo…
Direi di si, anche se il termine "romantico" ha assunto una connotazione non molto
positiva tra gli addetti ai lavori. Se poi qualche cultore di musica classica trovasse
questo termine associato ad un musicista di jazz rimarrebbe assai confuso. Diciamo
forse che il mio obiettivo è la liricità, da tempo la mia ricerca va verso l'essenzialità
melodica, sostenuta da un percorso armonico che non sia banale e non artificioso
allo stesso tempo. Una buona idea compositiva deve comunicare e lasciare un segno,
quando porto una nuova composizione so già come deve "suonare", non mi piace dare
troppo indicazioni ai musicisti con cui collaboro, se l'idea è buona non ha bisogno
di spiegazioni, i jazzisti possono entrare pienamente nello spirito del brano e
suonare come più piace a loro.
E' chiaro che con queste precisazioni mi presento immediatamente come compositore
e non solo improvvisatore: penso che spesso il jazz ha spostato l'asse verso l'aspetto
improvvisativo a discapito della composizione. Da pianista poi non posso rinunciare
a sondare quotidianamente l'aspetto armonico intimamente legato allo strumento,
c'è sempre qualcosa da imparare e scoprire.
Cosa mi dici dell'esperienza di suonare Monk in
solitudine?
Monk torna ciclicamente nel mio studio, quando meno me lo aspetto una sua
composizione torna a galla e mi "provoca". I brani di Monk non sono soltanto un
veicolo per l'improvvisazione, sono vere e proprie composizioni, che poi eseguite
dal loro autore vedevano esaltate le componenti timbriche legate al tocco di Monk
stesso. Suonare i suoi brani è "scomodo", non si può fare con leggerezza. Tempo
fa ho tenuto un concerto di piano solo alla Triennale di Milano eseguendo soltanto
sue composizioni: è stato troppo facile intitolarlo "Solo Monk", dal titolo
di un suo celebre album!
Nella tua produzione spicca, a fianco di situazioni classiche
come il trio o il quartetto, anche una certa inclinazione al duo; sempre con ottimi
solisti e spesso con strumenti impegnativi, non canonici per il jazz contemporaneo
come la l'armonica cromatica di Alberto Varaldo…
Suonare in duo mi piace moltissimo, mi da una grande libertà, posso decidere le
atmosfere giocando sui pieni e sui vuoti, la mano sinistra ha un ruolo molto più
impegnativo che in trio o in quartetto, andando ad occupare tutta quella zona ritmica
e armonica che di solito si prende il contrabbasso, il lavoro è molto più impegnativo
ma molto gratificante allo stesso tempo. Sei costretto a pensare immediatamente
in modo orchestrale e questo mi da una grande energia. Gli ultimi due dischi registrati
sono proprio in duo: "Passi Leggeri" con Tino Tracanna e "Radio
Days" con Alberto Varaldo.
Nel tuo lavoro poni -già da anni- grande attenzione al
repertorio della canzone italiana, spaziando da Modugno al pop contemporaneo
di Pino Daniele, per citare due estremi di riferimento. A fianco di una sicura
passione per la melodia mi sembra anche di vedere emergere un legittimo tentativo
di allargare il campo degli standards…
La cosa strana è che non sono mai stato un grande conoscitore della canzone italiana.
Il mio percorso però è venuto spesso in contatto con questo repertorio che mi ha
dato modo di approfondire il lavoro di arrangiamento, fonte di grande soddisfazione
e divertimento: con il Jazzinaria Quartet abbiamo realizzato ben tre dischi
legati a questo repertorio (toccando l'apoteosi con l'ultimo CD della serie: "Dipinto
di Blu", dove, oltre ai fidi Laura Cavallero, Stefano Risso e
Paolo Franciscone, ho scritto per la tromba di
Fabrizio Bosso,
il sax di
Emanuele Cisi e il quintetto d'archi Architorti), senza mai
cadere in tentazioni nostalgiche né filologiche, che mi sembrano la morte della
ricerca artistica. Non sono di certo l'unico che ha affrontato la canzone italiana,
penso che l'esigenza sia sì quella di allargare il campo degli standards, ma anche
dimostrare che spesso non è importante cosa si suona ma soprattutto come si affronta
un brano logorato dal tempo e dai pregiudizi. Uno dei brani che più riflette questo
mio modo di vedere è la versione di "Grazie Dei Fior" che proponiamo con
il Jazzinaria Quartet, Nilla Pizzi non è proprio il punto di riferimento dei musicisti
jazz...
Interessante il tuo ragionamento sui pregiudizi. Ma veniamo
alla geografia. Hai avuto successo in estremo oriente, incidendo anche in esclusiva
per il loro mercato, come nel caso del recente "Le Sue Ali" in compagnia di Drew
Gress e Paolo Franciscone. Come spieghi questa mecca del jazz italiano
in Giappone?
In effetti ho inciso tre dischi per etichette giapponesi: "Simple Memory"
e "Caruso" per la GatsPro e il recente "Le Sue Ali" per la Albòre
Jazz, etichetta dell'illuminato produttore Satoshi Toyoda, profondo conoscitore
del jazz italiano. Il mercato giapponese è molto interessato alla cultura italiana
e in particolare al jazz italiano, di cui si apprezzano le caratteristiche melodiche.
Sembrerà strano, ma alle loro orecchie siamo "esotici"! Il mercato discografico
italiano è al collasso, mentre in Giappone, nonostante la profonda crisi economica
e il download abbiano falcidiato le vendite, c'è ancora qualcuno disposto a rischiare
sulla propria pelle producendo dischi di jazz.
Cambio deciso di argomento. Da quest'anno ti occupi della
direzione artistica di una rassegna, che si sta svolgendo proprio in questi mesi
e che continuerà nei prossimi mesi, Jazz Visions. Salto della barricata: da artista
a organizzatore…
Sì, il salto è stato notevole! Mauro Comba, presidente dell'Associazione
Cenacolo "Michele Ginotta", mi ha dato questo incarico e io mi sono buttato con
tutte le mie energie. L'impegno è stato e sarà molto impegnativo (è appena partita
la promozione dei primi quattro concerti, la rassegna si estenderà poi fino all'estate),
ma siamo molto soddisfatti per ciò che stiamo realizzando, superando difficoltà
di non poco conto, portando il jazz in un territorio sui confini delle province
di Cuneo e Torino, dove è ancora visto con un certo sospetto. Abbiamo creato una
rete di ben sei paesi con relative amministrazioni comunali e col sostegno di aziende
private: il calendario prevede eventi a cadenza mensile, quasi sempre ad ingresso
gratuito, con l'obiettivo di creare una ricaduta sul territorio, affezionare il
pubblico e creare una continuità di programmazione.
Per essere al primo anno il cartellone di Jazz Visions
offre una nutrita successione di appuntamenti di qualità elevata…
La qualità paga sempre, speriamo prima che poi! Avremo musicisti tra i più apprezzati
anche nel circuito internazionale: Gil Goldstein,
Pietro Tonolo,
Riccardo Del Frà,
Riccardo Zegna,
i danesi Alex Riel e Jesper Lundgaard,
Dado Moroni,
Pat La Barbera...
Jazz Visions propone anche una interessante integrazione
tra musica e arti visive: come vi è venuta questa idea?
L'obiettivo è dare allo spettatore una serie di stimoli che coinvolgano più livelli
di percezione. I linguaggi della contemporaneità, in una fitta rete di interazioni
sensoriali, sono al centro della rassegna. Forme d'arte che hanno avuto il pieno
sviluppo nel secolo appena trascorso: il jazz in primo luogo, nato oltreoceano ma
ormai lingua universale; la fotografia, con la sua capacità di fermare non solo
gesti e volti ma anche la suggestione di un flusso sonoro; l'arte contemporanea,
nelle sue più svariate forme espressive che vanno dalla scultura, al video, alla
pittura. I concerti saranno preceduti, accompagnati e seguiti da mostre fotografiche
itineranti di un pool di fotografi che riprenderanno, dal vivo, tutti i concerti.
Ogni mostra installata nel luogo in cui avviene un concerto sarà memoria dell'evento
precedente. E questo per concorrere a creare una continuità emozionale nello spazio-tempo
del circuito della rassegna.
link alla rassegna:
www.jazzvisions.it
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Data pubblicazione: 21/11/2009
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