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"Pianisti di altri mondi – dal jazz alle sonorità contemporanee"
Vijay Iyer, piano solo
Milano, Teatro Franco Parenti - 19 gennaio 2020
di Aldo Gianolio
foro di Elena Carminati

Vijay Iyer - Teatro Frnco ParentiVijay Iyer - Teatro Frnco ParentiVijay Iyer - Teatro Frnco ParentiVijay Iyer - Teatro Frnco Parenti
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Cento e più anni di pianismo afro-americano sembrano oggi essere confluiti, filtrati, nella sofisticata arte di un pianista indo-americano, Vijay Iyer, che li distilla ridefinendone, in modo del tutto personale, le coordinate e i connotati. Lo ha (di)mostrato inaugurando il 19 gennaio, al piano solo, la serie di otto concerti organizzati dal direttore artistico Gianni Morelenbaum Gualberto per "Pianisti di altri mondi - Dal jazz alle sonorità contemporanee", in cartellone al Teatro Parenti di Milano, in collaborazione con la Società del Quartetto. (Programma)

Non è uso ascoltare Iyer in completa solitudine (ricordiamo, in disco, il suo splendido "Solo" del 2010 per l'Act), ultimamente infatti ha preferito il trio o i gruppi più allargati. Quindi è stata una ghiotta occasione che il folto pubblico, riempendo il teatro, non si è lasciata scappare.

Iyer (newyorkese di origini tamil, classe 1971) ha presentato una serie di brani, quasi tutti di sua composizione, appropriatamente improvvisati e svolti in elucubrate variazioni, a volte uniti in medley, come nel primo lungo "spezzone" costituito da UnEasy, Work, Libra e For Amiri Baraka, eseguiti senza soluzione di continuità: l'unico noto che si sarebbe potuto facilmente riconoscere, Work di Thelonious Monk, è stato ben occultato dalle irte parafrasi geometrico-matematiche del pianista. Sono seguiti Spellbound & Sacrosanct, Cowrie Shells And the Shimmering Sea, Autoscopy, Abundance e Night And Day (di Cole Porter) che ha chiuso il concerto. Come bis Children Of Flint.



Il pianismo di Iyer si è dimostrato eminentemente "contemporaneo", ma evitando sia il romanticismo dei succedanei di Bill Evans (Keith Jarrett e Brad Mehldau), sia il tumulto del free e dell'informale (Cecil Taylor), una direzione presa anche da altri grandi pianisti delle recenti generazioni (Uri Caine, Jason Moran, Matthew Shipp, Craig Taborn); però in Iyer, ispirato più a Thelonious Monk e Andrew Hill che a Bud Powell, più a Lennie Tristano e Paul Bley che a Bill Evans, e semmai solo alla gentle side di Cecil Taylor (quella di "Fly", edito dalla MPS, per intenderci), il distillato è più puro e l'aroma più caratterizzato, anche per via di altri sapori derivati da ingredienti propri della musica indiana tamil, balinese e africana, tutte sollecitazioni riprese attraverso una sensibilità al passo coi tempi e colta. Predominante diventa proprio l'assunto stilistico-esecutivo appartenente alla musica dotta occidentale del XX secolo, nella fattispecie ricordando certe soluzioni (non i cluster, da cui Iyer rifugge) di Five Encores To Dynamics Motion di Henry Cowell, traducendosi in asetticità del tocco, uso ponderato e icastico delle linee melodiche (a volte ribattute in iterazioni, altre complicate in intrecci precisi e netti) e apparente annullamento dello swing, non solo quello che si intende canonicamente nel jazz classico per swing (Errol Garner, Oscar Peterson), ma anche quello "modificato" del free jazz e dell'informale (Cecil Taylor, Muhal Richard Abrams). Apparente annullamento perché, in definitiva, non si tratta altro che di una sua ulteriore mutazione (in assidua deminutione) che avvicina l'esecuzione iyeriana ai parametri formali del pianismo dotto occidentale istituendo uno swing sui generis, nascosto come nasconde i brani di Monk, attraverso il pulse costante, l'intreccio poliritmico e col ritorno alla cadenza metronomica "classica" abbandonata col free quando se n'era assunta una aperta e libera.
 
L'innervante inesausta fantasia di Iyer si manifesta attraverso intrecci di incalzanti figurazioni che viaggiano su ondulati territori politonali, attraverso varie temperate complessità e densità armoniche, attraverso serrati lucidi melodismi, attraverso un suono preciso, scuro e pulito.

I confini fra tema e improvvisazione sono demoliti, non si sa dove l'uno cominci e l'altra finisca, e viceversa, l'alea è bandita e impera la logica, addirittura una logica matematica, piena di rimandi. Affrancando il particolare dalla totalità costrittiva e facendo risultare ogni nota, frase e sviluppo privi di un unico centro, Vijay Iyer crea un affresco cupo e inquieto, spogliato da qualsiasi orpello di retorica.







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Data pubblicazione: 25/01/2020

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