Intervista a Laura Pigozzi
settembre 2008
di Marco Buttafuoco
ANTIGONE EDIZIONI
di Maria Antonietta Schepisi
via Osasco 87/B, Torino
0113329806 3397107005
www.antigonedizioni.com
Laura Pigozzi
è persona nota, da anni, ai frequentatori di questo portale, per le sue lezioni
(molto seguite) ed i suoi interventi sul canto e sulla voce. Laura, che si occupa
di psicanalisi, ha da poco riassunto il suo articolatissimo percorso intellettuale
in un libro davvero bello e stimolante, "A nuda voce". A pensarci bene la parola
riassunto non è del tutto esatta. Laura fa il punto sulle sue esperienze ma, come
si conviene a chi è immerso in un'arte problematica e sempre in agitazione come
il jazz, pone anche nuovi problemi, indica qualche nuovo sentiero, abbozza qualche
tema inedito.
Quella che segue non è un'intervista vera e propria. Laura ed io abbiamo fissato
pochi punti da cui partire e su questi abbiamo improvvisato "una conversazione un
po' swingata": impegnativa ma giocata in completo relax. Un'interpretazione "live"
del libro che spero sia stimolo per un approccio diretto ed una lettura approfondita.
La voce è il centro e la protagonista del tuo libro, nel
quale troviamo pagine e pagine, molto suggestive ed emozionanti, ad esempio sul
rapporto vocale fra madre e bambino, fin dal periodo fetale
In effetti, il feto ascolta la voce materna e il suono
di questa voce è accompagnato dal ritmo del battito del cuore della madre e dai
gorgoglii del liquido amniotico. Penso che il desiderio umano di cantare con accompagnamento
di strumenti, di darsi un ritmo o di fare musica d'insieme nasca da questa precoce
esperienza sonora. Inoltre, la voce materna costituisce un primo elemento di legame
con il feto e, cosa non indifferente, gli fornisce una prima eco del mondo circostante:
il mondo esterno per ogni essere umano, viene ascoltato prima di essere visto. Fra
madre e neonato si crea un rapporto vocale profondo ed unico, insostituibile, fin
dall'inizio della vita. Un rapporto che è anche basato sull'improvvisazione. Il
bambino risponde alle sollecitazioni vocali materne, articolando i primi suoni improvvisando
e creando le prime lallazioni. Un'improvvisazione "melodica" basata sulla pronuncia
delle vocali che formano le prime lallazioni del bambino. La madre gli risponde
e lo sollecita con il suo proprio linguaggio musicale e unico, che può funzionare
solo in quella comunicazione. Fin dalle nostre prime relazioni umane, dunque, la
voce, e soprattutto il linguaggio, è anche canto. Poi arriverà l'uso delle consonanti,
che sono quelle che scandiscono il ritmo, separando le vocali fra loro. E in questo
passaggio, in questo distacco è fondamentale la voce paterna, quella che aiuta la
separazione dalla madre e che insegna il vivere sociale, la legge. Nel mio libro
metto anche in rilievo come l' improvvisazione attraversi tutta la nostra vita,
tutto il nostro modo di parlare. La nostra voce è sempre la stessa e sempre diversa.
Nessun suono, così come avviene in musica, è mai riprodotto da un soggetto con identiche
altezze e sfumature.
E' un approccio, il tuo, che privilegia una dimensione
corporea della voce. Che rimette il corpo in primo piano. Mi viene in mente Amiri
Baraka, quando sostiene che l' arte non africana è basata su una terribile ed
innaturale scissione fra corpo e spirito, fra religione e quotidianità, fra materia
e pensiero. Cosa ne pensi?
Conosco e apprezzo la poesia di Baraka proprio perché leggendo i suoi versi sento
una voce, fisica e reale, che grida. Nelle sue parole scritte c'è un corpo vivo,
pulsante. E qui arriviamo al punto centrale della mia indagine: la voce come suono
di uno specifico ed unico corpo, nel senso che un corpo, anche se non lo sappiamo
sempre leggere, racconta una sua storia. La voce partecipe della psiche e del corpo.
Nasce nelle profondità del corpo. Lo fa vibrare letteralmente. Nella voce la scissione
fra queste due dimensioni mostra tutta la sua inadeguatezza.
A nuda voce si sofferma però anche sul canto lirico,
un'arte nella quale le capacità vocali e l'emotività si dispiegano al grado massimo…
In effetti, parlo della "diva", dell'eroina del melodramma, che è uno dei paradigmi
più tipici della disincarnazione. Il grido dell'eroina, della diva deborda nell'indicibile.
E' per questo che le protagoniste dell'opera muoiono quasi sempre: non solo perché
lo chiede la morale misogina dell'epoca in cui furono composte, ma perché la Diva
con il suo grido ha toccato l'indicibile, con un suono che accomuna l'angelo e il
diavolo. Ma questo invariabile finale mortifero testimonia soprattutto l'esistenza
di una paura maschile attorno al godimento femminile che esprime la cantante con
il suo vertiginoso acuto. L'uomo potrebbe al contrario, in quel momento, partecipare
di quel fenomeno misterioso che è il godimento di una donna (forse per questo tanti
cantanti maschi chiedono, sempre più spesso, di cantare nel registro acuto femminile?).
Il godimento femminile è spesso ancora non conosciuto anche perché rimosso dalla
nostra cultura, non nominato, non ancora completamente accettato. Questo, al di
là delle connessioni con il canto lirico, è uno dei punti centrali del mio libro:
la relazione tra il canto e il godimento femminile. Si tratta di un'intuizione nuova
che parte dalla mia esperienza come cantante e come insegnante di canto. Le percezioni
interne sia del sistema addome-diaframma-polmoni, che delle cavità di risonanza
del torace, della gola e della testa aumentano con lo studio del canto. Il percorso
del respiro nel corpo genera un flusso interno che, nel ritmo di apertura costale
e svuotamento del soffio, produce una sensazione di erogeneità ed implica la mobilità
degli addominali, anche bassi, interessando così anche la zona sovrapubica (per
le donne, questo comporta anche una certa azione sulle pareti uterine). Il respiro
passa poi attraverso le corde vocali e si trasforma in vibrazione sonora, aumentando
la sensibilità al massaggio interno che tali onde provocano. La descrizione interna
di questo fenomeno del respiro e del canto ha non poche assonanze con gli orgasmi
femminili descritti minuziosamente dalla psicanalista francese Françoise Dolto
e di cui si discute nel libro.
C'è un capitolo del tuo libro nel quale si parla del
"timbro blu". Una tua scoperta, direi
E', infatti, una piccola invenzione della quale orgogliosa, anche perché sta
cominciando a diffondersi come modo di dire anche fra i musicisti. Il timbro
blu è quella voce (anche di uno strumento) che ci ammalia, che ci cattura intimamente
senza un motivo spiegabile. Kandinskij si innamorò di quella che diverrà
poi sua moglie, dopo averla sentita al telefono. Dipinse un acquarello per quella
voce sconosciuta, immediatamente, ancora prima di incontrare la donna. Il timbro
blu è l'analogo, nella vocalità, di ciò che la nota blu è nella musica
strumentale: una sera a casa di Gorge Sand, uno Chopin particolarmente ispirato
suonò quella che il pittore Delacroix definì la nota blu: suono che
in un'esecuzione musicale è, allo stesso tempo, atteso e totalmente imprevisto.
Destabilizzante. Il blu è d'altronde un colore "psichico". La parola, in inglese,
oltre al colore, designa tristezza, malinconia. Il timbro blu e' un suono
magari imperfetto, forse nemmeno necessariamente bello, non è classificabile. Si
impone però e può far deragliare la vita dai binari quotidiani. Per me il timbro
blu è quello di Billie Holiday in "Lady in Satin". Una voce giunta alla sua
fine e che riassume tutto il dolore di una vita. Mi è entrata dentro quella voce.
La voce ed il suo potere, nella letteratura e nella stessa psicanalisi, disciplina
peraltro fondata proprio sulla voce stessa, sono sempre stati trascurati. Eppure
uno scarto vocale, un inceppamento, un breve salire di tono, raccontano di una persona,
spesso con molta più precisione e pertinenza delle parole. Così come un accordo
sostituito o uno scarto armonico influiscono sulla storia di un pezzo. Nel jazz
un errore di esecuzione può aprire nuove strade. Lo stesso è nell'analisi.
Facciamo un accenno al bellissimo capitolo sulla voce
delle Sirene.
Sono stata sempre affascinata dal mito che Omero racconta nell'Odissea e dai
tre differenti termini greci che egli utilizza per designare la voce delle Sirene.
Vedo nel canto delle Sirene un canto sapienziale, di ordine femminile, che non disdegna
la dimensione del godimento, di quel godimento femminile di cui parlavamo prima.
Quindi percepito spesso anche come pericoloso. Perché il godimento, a differenza
del piacere, che tende alla quiete, ed alla soddisfazione, può aprire abissi, può
segnare strade di distruzione. Può partecipare della morte. La droga, ad esempio,
è un godimento. Noi viviamo in un'epoca in cui il godimento non ha limite ed assume
quindi una dimensione mortifera. La questione è il limite. Il godimento proposto
dalle Sirene deve necessariamente passare attraverso la fase della castrazione (simbolizzata
dalle corde che tengono legato Ulisse), del limite, per poter essere ascoltato.
Voglio dire che nessuna conoscenza, nessun possesso può essere totale. Se lo diventa
può uccidere il desiderio, che è vita.
Questo mi riporta alla mente tanti eroi negativi del jazz:
persone che forse sentirono questo canto e andarono, forse consapevolmente, verso
il naufragio. Penso a Bird, Trane, Lester Young,
Chet Baker. Si possono
leggere anche queste vicende jazz in questa chiave?
Sì, certo, una ricerca assoluta, dell'assoluto, con un rischio di idealizzazione
pericolosissima: le ultime pagine del libro sono dedicate a questo. Ma non c'è solo
questo nel jazz. Nel jazz c'è anche una forte dialettica tra tradizione/innovazione.
Sui padri del jazz si potrebbe forse dire che un " buon" padre, colui che, musicalmente
parlando, sta nella sua funzione, è qualcuno cioè la cui scrittura compositiva traccia
dei confini strutturali ma non irrigidisce, anzi lascia spazio. Che chiama, evoca
un'invenzione nuova, un'improvvisazione che la (e che lo) trascenda. Ellington,
ad esempio, ha fornito uno stile di pensiero ai musicisti free, una pietra angolare
su ciò che è bello nel jazz: un porto a cui non tornare necessariamente ma che tuttavia
rappresenta qualcosa di solido, un riferimento certo. Ha potuto essere un buon padre
perché anch'egli è stato un innovatore che dalla sua invenzione ha creato una struttura
di discorso (forse non è un caso che Ellington non ebbe, pare, una famiglia particolarmente
sintomatica). E' questo lo stile di trasmissione che può funzionare tra padre e
figlio: si innova ma si lascia qualcosa a quelli che vengono dopo, qualcosa da cui
partire e che è sempre nuovo anche se consolidato. Ogni innovazione ha bisogno,
per durare, di un consolidamento stilistico. E' un ottimo esempio di una bella "trasmissione"
tra padre e figlio. Trasmissione che permette l'invenzione, la trascendenza del
padre, il suo in qualche modo possibile superamento. E qui sta la funzione della
voce del padre.
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Data pubblicazione: 18/01/2009
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