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Intervista a Stefania Tallini
di Alceste Ayroldi

A.A: Parliamo di Dreams, il tuo ultimo album: quale è stato il tuo metodo di lavoro sia nella fase compositiva che in studio?
S.T: L'unico metodo di lavoro che conosco è lasciarmi andare ai suoni, all'orecchio, alla ricerca di una mia verità musicale. Io credo che ogni musicista sappia bene dentro di sé quando realmente sta cercando la musica e quando invece si accontenta di una soluzione che può anche essere piacevole, ma che forse è meno profonda. Il mio sforzo costante è stato proprio questo, sia al livello compositivo, che in studio nel suonare.

A.A: Come hai scelto i tuoi compagni di "viaggio"?
S.T:
Li ho scelti perché avevo già sperimentato il fatto che sapessero così bene interpretare la mia musica. E non c'è piacere più grande, per chi compone, che trovare musicisti che sappiano dare voce a quello che tu vuoi dire…

A.A: Rispetto agli accenni presenti in New Life, in questo lavoro hai lasciato entrare a pieno titolo i fiati: come e perché hai maturato questa scelta?
S.T: Perché ho sentito un'evoluzione dentro che mi ha portata a concentrarmi un po' meno sul mio pianismo (come era stato invece in "New Life"), per andare più a fondo nella ricerca compositiva. Non mi interessava che ci fossero dei protagonisti, ma che la sola protagonista fosse la musica, l'equilibrio degli arrangiamenti, la fluidità, la cantabilità, il senso musicale più profondo che poi era il mio stesso contenuto artistico e umano più profondo.

A.A: Quali sono i sogni di Stefania Tallini?
S.T: Il mio sogno più grande è nutrirmi sempre più totalmente di musica, di arte, di composizione, di improvvisazione e di suonare, suonare, suonare e scrivere, scrivere, scrivere…

A.A: Tu e la danza…
S.T:
Ho sempre amato la danza, ho lavorato anche con i ballerini ed è un mondo che mi affascina enormemente. Mi sconvolge vedere cosa si riesca ad esprimere attraverso la creatività e che cose incredibili il corpo umano riesce a fare attraverso questo linguaggio. La danza per me è come suonare, ma è tutta l'arte che per me è suonare, è vita, è sanità. Anche una poesia di Neruda o un quadro di Picasso è danza e musica.

A.A: Di cosa puoi dirti orgogliosa?
S.T: Di aver trovato un mio modo di esprimermi attraverso il comporre e di scoprire, oggi, che questo ha permesso anche un mio modo di suonare, molto legato al tipo di brani che scrivo. Il percorso jazzistico che ho fatto in questi anni è stato un po' fuori dagli schemi. Ho iniziato, infatti, scrivendo e suonando la mia musica e solo da pochi anni sto approfondendo il mio rapporto con gli standards. Questo all'inizio lo vivevo quasi come un complesso, perché sentivo che un certo linguaggio non mi apparteneva, una certa storia non l'avevo mai vissuta. Ma quello che nei primi anni mi sembrava un minus, oggi è invece la mia stessa identità, che ho coltivato con caparbietà e come qualcosa che mi era assolutamente necessario per realizzare il mio mondo interno. Direi che forse avevo bisogno di costruire una mia identità, prima di potermi dedicare all'identità di altri compositori. Ed oggi mi trovo ad amare, studiare ed arrangiare gli standards con un approccio diverso, con molta più consapevolezza e con la voglia di appropriarmene come se fossero qualcosa di mio.

A.A: E di cosa non sei orgogliosa?
S.T: di aver girato per tanti anni intorno al jazz, di esserne sempre un po' scappata, di non aver iniziato prima questo percorso, perché ho perso tanto tempo con cose che me ne allontanavano. Questo è il mio più grande rimpianto, perché solo ora che conosco le meraviglie di questa musica mi rendo conto di quanti anni ho perso. Certo, ho fatto altro… ma non era jazz.

A.A: L'artista che vorresti al tuo fianco…
S.T: Sarei strafelice di suonare con Marc Johnson, Lee Konitz, Shorter… e se fossero vivi sicuramente con Chet e Miles: sono i miei idoli! Li adoro! E poi mi piacerebbe fare un duo con Rita Marcotulli che per me è un vero faro, sia come pianista che come compositrice e arrangiatrice.

A.A: Quali sono le tue influenze musicali?
S.T: Per quanto riguarda i pianisti sicuramente Bill Evans, Paul Bley, Chick Corea e Martial Solal. Ma in realtà ascolto tantissimo Miles (soprattutto la sua spaziale concezione musicale, in quell'incredibile esplosione di vita che è il quintetto con Shorter); e poi muoio per Chet Baker. E' ascoltando lui che ho sentito "il sacro fuoco" del jazz e il desiderio di intraprendere questa strada bellissima. E forse, per me, è proprio lui l'influenza più profonda e più antica: per la ricerca sulla melodia e per quel particolare feeling che lo caratterizza.

A.A: Quale formazione prediligi?
S.T: sicuramente il trio... amo molto sentire il suono del basso e della batteria, perché sento che mi danno tutta la forza, la fantasia e la vitalità necessarie per esprimermi con la massima libertà. Ma anche il piano solo è una dimensione molto stimolante, perché totalmente libera: ti costringe a non aver difese di nessun tipo ed è per questo anche la più difficile… tra l'altro credo che la solitudine del piano solo, se vissuta con un senso di vuoto, può farti suonare malissimo. Il quartetto o il quintetto mi sono, invece, molto congeniali come compositrice e arrangiatrice: è bellissimo sentir "cantare" i miei pezzi dai fiati, (devo dire che alcuni temi suonati dal piano, proprio non funzionano) o sentir realizzati quei giochi musicali che ho scritto arrangiando un brano.

A.A: Quale collaborazione ti ha lasciato un segno?
S.T: Quella con Bruno Tommaso, la mia prima esperienza jazzistica professionale. Mi ha lasciato il segno per il suo approccio alla musica ed alla composizione: la sua libertà è totale, la sua vitalità musicale è travolgente e divertente. Ma una volta ho avuto anche modo di suonare "I fall in love to easily" con Marc Johnson, in una situazione non ufficiale… credo sia stata una delle emozioni musicali più forti della mia vita! Mi sono bastate le prime tre note del suo basso per morire di bellezza!

A.A: Tu svolgi anche attività didattica:come ti sembra il rapporto tra i giovani e il jazz?
S.T: Mi sembra che oggi ci sia un interesse molto più vivo da parte loro: ne sentono tutta la libertà, la freschezza, l'immediatezza. E' bello vedere come si innamorano di questa musica e come poi ci si dedicano. In fondo, oggi, questo è completamente controcorrente, perciò ha ancora più valore.

A.A: Se non avessi fatto la musicista che attività avresti svolto?
S.T: Sicuramente avrei fatto la ballerina o pattinaggio artistico su ghiaccio. Sono due cose che amo moltissimo. Al pattinaggio ho dovuto rinunciare quando ho capito che non era il caso di rischiare le mani, visto che mi servivano. La danza non l'ho mai iniziata perché ho iniziato prima a suonare il pianoforte (a 4 anni e mezzo). Ma forse avrei fatto anche la pittrice. Insomma, certamente qualcosa di artistico.

A.A: Se ti dovessero chiedere di suonare musica dance o pop lo faresti?
S.T: No. Tranne nel caso in cui si trattasse di musicisti che non cercano l'effetto commerciale. Ma siccome questa è una contraddizione in termini - visto che il pop e la dance lo sono – allora confermerei il mio no. Solo con Sting suonerei, lui è un grande!

A.A: Secondo te l'improvvisazione senza schemi libera la mente o la offusca?
S.T: secondo me è il contrario: è proprio la mente libera che permette una improvvisazione senza schemi. Non offusca niente, al contrario è uno dei modi più belli per abbandonarsi totalmente ai suoni…è come nel sonno, quando ci si lascia andare alle immagini oniriche senza chiedersi cosa sono.

A.A: La musica è Poesia o la Poesia è Musica?
S.T: credo che siano vere tutt'e due le cose. Ripeto, per me è musica qualsiasi forma artistica. Credo che ogni esperienza creativa vera venga da un dentro profondissimo, che ha in sé il senso umano dell'essere uomo o donna… e questo è musica, questo è poesia, questo è arte ed è l'identità forse più sana che si possa avere, perché è quella più irrazionale.

A.A: Da più parti si sente dire che, ora come ora, il jazz è una moda: lo pensi anche tu?
S.T: non credo che lo sia mai stato e che lo sarà mai. Il jazz, per sua stessa natura non può essere una moda, perché è sempre stato contro ogni tendenza di massa. Forse è la musica più pura che c'è, la più pulita, la più vera. E semplicemente oggi finalmente ci si accorge di quanto è bella. Poi c'è però anche un aspetto che è quello di togliere verità e vitalità al jazz, quando "si recita" questa musica, quando la si fa in un certo modo per compiacere il pubblico. Questo sì, può essere "di moda", ma lo trovo molto poco "jazz"…

A.A: Il/la più grande del passato, del presente, del futuro…
S.T:
Miles e Shorter.

A.A: Se tu fossi direttrice artistica di un festival chi inviteresti?
S.T:
Martial Solal e tra gli italiani Stefano Battaglia. E Shorter, sempre.

A.A: C'è qualcuno che vorresti ringraziare?
S.T: Vorrei ringraziare tutti quei musicisti, anzi, tutti quegli artisti il cui unico scopo della loro ricerca sia la bellezza e la verità di quello che fanno. Questo è il più grande insegnamento che ho avuto e che ho tutt'ora dagli artisti veri.

A.A: Cosa c'è scritto nell'agenda degli impegni futuri di Stefania Tallini?
S.T: ho un po' di concerti estivi in varie formazioni e poi sto cominciando a pensare ai miei prossimi dischi: il primo in trio per il mio produttore tedesco ed il secondo forse ancora in quintetto per l'etichetta italiana.

A.A: E quali impegni vorresti appuntare?
S.T: Vorrei appuntare un progetto con un organico più allargato e misto… non so, vedremo. Per ora vivo il presente.







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Data pubblicazione: 25/08/2005

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