Andrea Dulbecco,
docente di percussioni al Conservatorio G.Verdi di Milano, e' considerato fra i
più importanti esponenti del vibrafono a livello internazionale. Lo abbiamo incontrato
per Jazzitalia e durante un'interessantissima chiacchierata, ci ha illustrato i
suoi progetti, la sua esperienza parigina, le sue considerazioni sul jazz italiano
e molto altro.
Musicista poliedrico ed eclettico, Dulbecco da sempre spazia tra musica colta e
jazz con estrema disinvoltura. Come solista classico ha suonato con l'Orchestra
Angelicum di Milano, l'Orchestra del Conservatorio Superiore di Graz, la R.A.I.
di Milano, L'Orchestra Sinfonica di San Remo e l'Orchestra d'Archi Italiana. Nel
panorama jazz ha svolto e svolge un'intensa attività concertistica e ha inciso con
numerosi artisti di fama internazionale quali
Paolo Fresu,
Enrico Rava,
Dado Moroni,
Furio Dicastri, Mauro
Negri,
Giorgio Gaslini,
L. Schneider, P. Favre, David Friedman, Paul McCandless, B. Elgart,
Stefano Bagnoli,
Andre Ceccarelli, solo per citarne alcuni.
Parliamo della tua recente permanenza in Francia, sei stato
per un lungo periodo a Parigi, cosa puoi raccontarci di questa esperienza?
Ho trascorso di recente un anno a Parigi, come periodo
sabbatico nella mia attività di musicista classico e insegnante al conservatorio
di Milano. Ho voluto fare questa esperienza in questa città che da sempre è un punto
di riferimento del jazz mondiale per trovare nuovi stimoli e conoscere da vicino
un'altra realtà musicale.
Musicalmente parlando quali differenze hai trovato?
E' una città molto vivace sotto il profilo musicale; è il polo d'attrazione per
eccellenza di tutta la Francia anche per quanto riguarda il jazz e questo genera
una scena musicale che non trova paragone in nessuna città italiana. Rispetto all'Italia
ci sono più teatri, luoghi d'incontro, jazz club dove si possono fare jam session
e confrontarsi con musicisti di altissimo livello provenienti da tutto il mondo.
E' una città frizzante, stimolante, dove il livello culturale è molto alto e dove
l'offerta musicale è amplissima. Tra i musicisti c'è ancora il gusto della ricerca
e della sperimentazione e questo ti permette di suonare spesso in contesti molto
accattivanti e molto stimolanti. Ciò avviene spesso anche tra le differenti discipline
artistiche come per esempio tra il teatro e la musica o tra la musica e la danza
e questa creatività, questa continua ricerca, spesso da dei risultati davvero sorprendenti.
Suonare non è difficile a Parigi, quello che magari mi è mancato di più rispetto
all'Italia è il rapporto umano; a Parigi è molto più difficile andare oltre la soglia
della superficiale conoscenza. Entrare in confidenza e socializzare non è semplice
come da noi. Poi, ovviamente, come in Italia, anche a Parigi non mancano i problemi;
non è certamente il "Paese del ben godi", almeno, non più come un tempo. La crisi
economica è ben avvertibile esattamente come qui da noi.
Anche alla luce di questa esperienza francese come vedi
la situazione del jazz in Italia?
C'è una grande crisi e soprattutto una distanza crescente tra l'interesse da
parte delle istituzioni all'arte e la quantità di bravi musicisti che spesso non
sono unicamente bravi esecutori ma hanno anche tante idee e presentano progetti
interessanti. Non siamo solo noi a dirlo ma è una cosa ormai riconosciuta in ambito
internazionale. Il jazz per le istituzioni non esiste e vive grazie solo all'intervento
di privati o di chi ha una personale simpatia per la nostra musica. Così, spesso
nascono molti progetti che finiscono però nel nulla per mancanza di visibilità o
di sostegno.
Pensi che questo disinteresse da parte delle istituzioni
sia dovuto al fatto che il jazz ricopra ancora quel ruolo di "musica per pochi"?
Non credo il jazz sia una musica di nicchia e, sicuramente, oggi giorno questa
è una definizione che non gli si addice per niente. Il jazz è musica di grande respiro.
E' musica viva e in continua evoluzione e se apriamo i nostri orizzonti, vediamo
che anche l'arte in generale è in costante e continua evoluzione. Sempre più esistono
contaminazioni tra generi e stili; non esiste staticità e questa evoluzione nelle
varie forme d'arte, renderà sempre vivo l'interesse per il jazz.
Chi hai avuto modo di conoscere e con chi hai suonato
a Parigi?
Fra gli artisti della scena francese con cui ho collaborato ci sono Dedè Ceccarelli,
Stephane Belmondo, Thomas Bramerie, il bravissimo chitarrista vietnamita
Nguyen Le e tanti altri musicisti, magari meno blasonati, ma di certo non
meno prepararti. La qualità artistica è molto alta a Parigi.
Da questa tua esperienza parigina hai realizzato uno splendido
lavoro prodotto da una tra le etichette jazz italiane più blasonate ed attive degli
ultimi tempi e non solo nel panorama discografico italiano
Sì è vero, per la Abeat Records
ho realizzato diversi CD come "Sunday
Afternoon" con M. Micheli,
S. Bagnoli,
e L. Gusella, "The
Cube" con R. Fioravanti, T. Harrell, D. Moroni, E. Zirilli,
S. Bagnoli,
"Bill
Evans
project" con B. Ferra e R. Fioravanti e da ultimo "Canzoni"
che rappresenta un po uno spaccato di questo mio periodo musicale parigino. Per
la realizzazione ho impiegato alcuni tra i musicisti francesi che avevo conosciuto
come Dedè Ceccarelli, Stephane Belmondo e Thomas Bramerie.
Come hai scelto i brani che compongono questo bellissimo
lavoro? Ho notato che hai privilegiato un repertorio di canzoni d'autore italiane
e francesi. Ci spieghi le ragioni di questa scelta?
Ho scelto un repertorio di canzoni perché mi sembrava un terreno comune fra i nostri
due Paesi. Sia l'Italia che la Francia hanno avuto ottimi interpreti e autori in
questa forma musicale e mi piaceva l'idea di creare un progetto discografico su
queste basi che unisse, cioè, queste due culture così simili e con così tanti punti
in comune. Così ho inserito brani come "Estate" di
Bruno Martino
o "Les feuilles mortes" di Kosma, ma anche "La canzone di Marinella"
di Fabrizio De Andrè o "Fiore di Maggio" di Fabio Concato oltre a brani di
Charles Aznavour. Ovviamente "Estate" e "Les feuilles mortes" sono nate come canzoni
ma sono ormai nel repertorio dei jazzisti di tutto il mondo, con centinaia di esecuzioni
e differenti arrangiamenti.
Come ti sei approcciato a questi brani?
In "Estate", ho aggiunto una breve intro alla marimba che accompagna la tromba,
suonando gli accordi del tema modificati come se fosse una corale. Mi piace, ogni
tanto, inserire nella struttura della canzone, dei momenti musicali che si rifanno
alla tradizione colta. Per quanto riguarda "Les feuilles mortes", invece, essendo
un brano celeberrimo, volevo cambiare il più possibile senza alterarne però la linea
melodica. Perciò ho riarmonizzato completamente il tema e dilatato la struttura.
Per il resto, non mi sono troppo preoccupato di ricondurre le tracce dentro schemi
jazzistici precostituiti ma mi sono solo limitato a rivisitare qualche armonizzazione.
Naturalmente l'approccio jazzistico viene fuori più chiaramente durante le improvvisazioni.
Nei brani di Aznavour non ho dovuto cambiare quasi nulla in quanto, come facevano
già molti cantanti della sua epoca, è spesso già abbastanza chiara una matrice jazzistica.
Da sempre l'aspetto melodico è un elemento distintivo
del tuo stile e in questo tuo ultimo lavoro è sicuramente messa in primo piano come
mai prima
Direi di si. È chiaro che ci possono essere sempre approcci diversi e si può
scegliere di stravolgere i brani con armonie e interpretazioni che ti cambiano completamente
i temi o le strutture, ma in questo caso, mi piaceva che la linea melodica dei brani
scelti fosse sempre presente con un flusso musicale più chiaro.
Parliamo ora dei tuoi progetti attuali: come detto in
precedenza sei da sempre molto attivo sia sul fronte jazz che su quello classico
Al momento sono impegnato con diversi progetti ad iniziare dal "Duo Aisha" che
mi vede affianco a Luca Gusella alla marimba. E' una formazione a cui sono
molto affezionato. Per questo duo ho scritto diversi arrangiamenti che vedono la
presenza anche di un coro da camera di sedici voci. Trovo che l'ensemble di voci
umane sia davvero affascinante e sono interessato all'interazione tra la polifonia
vocale ed i nostri due strumenti percussivi. E' prevista, nel prossimo futuro, una
nuova pubblicazione per questo progetto, (il primo CD "Quiet songs" era stato
pubblicato da una casa americana che si chiama Obliqsound), ma al momento è ancora
prematuro parlarne. Atri progetti nell'ambito jazz in cui sono coinvolto sono: il
trio con Marco Micheli e
Stefano Bagnoli,
dove suoniamo quasi esclusivamente mie composizioni; gli "Waiting for Benny", un'interessante
formazione con Negri, Birro e Bagnoli, inoltre, sono spesso
coinvolto in varie collaborazioni con artisti italiani tra cuiBebo Ferra,
Paolino
Dalla Porta,
Furio Di Castri,
Dado Moroni,
Achille Succi,
Riccardo Fioravanti.
Nel campo della musica contemporanea, invece, collaboro principalmente con un ensemble
che si chiama Sentieri Selvaggi e con Mauro Grossi e Ramberto Ciammarughi
che sono due bravissimi pianisti oltre che eccellenti arrangiatori e compositori.
Nel jazz quale è l'organico musicale in cui riesci ad esprimerti
al meglio?
Mi trovo molto a mio agio nelle piccole formazioni come i duo con chitarra o marimba
o il classico trio.
Dove cerchi l'ispirazione per le tue composizioni?
Ho studiato composizione al conservatorio quindi il mio approccio alla scrittura
musicale è molto classico; parto sempre da un'idea musicale, da una melodia, dopo
di che sviluppo questa traccia creando un percorso conseguente
Nel vasto panorama jazz, quali sono i musicisti che apprezzi
maggiormente?
Ce ne sono tantissimi ed è difficile per me stilarne una classifica ma, ovviamente,
metterei in testa Gary Burton e Milt Jackson, artisti che prestano
una cura particolare all'aspetto melodico; poi stimo tantissimo Ralph Towner,
Keith
Jarrett, Chick Corea, J.Giuffrè,
Steve Swallow
e David Friedman che considero un "grandissimo" che non gode della fama che
meriterebbe.
Una curiosità, il tuo primo strumento è stato la batteria,
come ti sei avvicinato al vibrafono?
Hai ragione, il mio primo strumento è stata la batteria che ho cominciato a suonare
molto giovane. In seguito, ho incominciato a suonare il vibrafono solo dopo il mio
ingresso nella classe di strumenti a percussione del Conservatorio di Milano. La
decisione però di specializzarmi in vibrafono l'ho presa dopo qualche tempo e più
specificatamente dopo aver conosciuto David Friedman, grandissimo vibrafonista
americano residente a Berlino, con il quale mi sono specializzato. Tuttavia, la
mia scelta è stata certamente favorita soprattutto dalla mia grande passione verso
il jazz che fin da piccolo ascoltavo tantissimo grazie a mio padre, ex musicista,
che mi ha introdotto a questa meravigliosa forma d'arte.
Da ultimo, Andrea, quale consiglio ti sentiresti di dare
a chi volesse intraprendere la tua attività?
Gli direi senza dubbio di crearsi una solida personalità musicale. Oggi giorno avere
solo tecnica non basta. Nel panorama musicale attuale ci sono tantissimi artisti
che posseggono una tecnica fantastica e grandi doti virtuosistiche, ma, quello che
davvero conta, è avere un proprio linguaggio riconoscibile e soprattutto suonare
con anima e cuore.