In questo articolo intendo parlare di quella che è la struttura sulla quale è costruito il nostro sistema musicale:
la scala diatonica.
Quando dico "nostro" intendo dire "di noi occidentali", vedremo più avanti il perché di questa precisazione.
L'importanza che la scala diatonica ha nel nostro modo di ascoltare e/o fare musica è grande perché da essa noi assorbiamo, fin dalla prima infanzia, un concetto di organizzazione dei suoni, una idea di relazione armonico-melodica tra i suoni che sarà alla base del nostro metro di giudizio nell'ascolto e
delle nostre scelte creative nell'esecuzione.
Il fine di questo articolo non è tanto quello di scrivere un trattato di teoria (ce ne sono già e fatti da persone certamente più competenti di me) ma quello di dare un'idea dell'importanza della scala maggiore, nel tentativo di fornire una motivazione in più per affrontarne lo studio con serietà.
Una scala è, per definizione, una sequenza prestabilita di suoni che divide l'intervallo di ottava in parti più o meno uguali.
E' molto importante capire che qualsiasi scala, (e ne esistono decine e decine), rappresenta una
interpretazione in chiave culturale (quindi soggettiva) di un fatto fisico (quindi oggettivo) quale è l'intervallo tra due suoni aventi stesso significato ma dei quali l'uno è il doppio dell'altro in frequenza, appunto quello che noi occidentali chiamiamo
"intervallo di ottava".
DO 1 vibra a 64 Hz, ovvero 64 vibrazioni al secondo, D0 2 a
128, DO 3 a 256 e così via raddoppiando la frequenza (per ulteriori approfondimenti sul suono potete rileggere il mio primo articolo
"Cenni di fisica acustica").
Perché "soluzione in chiave culturale"?: perché ogni popolo ha diviso questo intervallo in modo diverso, secondo la propria evoluzione culturale, musicale, la propria percezione del susseguirsi dei suoni.
Ecco che le popolazioni indiane adottano una scala contenente i quarti di
tono, gli africani usano (generalizzando per chiarezza espositiva) la scala pentatonica, quindi 5 suoni, molte culture locali
dell'est europeo usano scale particolari che sono state spesso oggetto di interesse da parte di compositori "colti", Bartok tra tutti.
E noi?
Noi europei abbiamo maturato, nei secoli che ci dividono dalla nascita della musica (unanimemente ricondotta al periodo greco classico) un sistema musicale basato essenzialmente su due scale:
la scala diatonica e la scala cromatica.
La prima è la più antica (anche se la sua fisionomia è cambiata nel tempo) e, nella forma a noi conosciuta, vuole l'intervallo di ottava diviso in una sequenza di sette suoni aventi nomi diversi, con al suo interno distanze per un totale di 5 toni e 2 semitoni, combinati in vari modi a formare quindi scale di significato
diverso.
Scala maggiore di DO
La scala cromatica è la sequenza dei 12 suoni che dividono l'ottava, ad intervalli di semitono.
Il semitono quindi è la più piccola unità di misura ed è uguale a 1/12 di ottava (tralasciamo i quarti di tono per non complicarci troppo la vita).
Da un prima occhiata appare subito evidente una cosa: nella scala cromatica le note alterate, proprio in quanto tali, non hanno nomi propri ma derivano il proprio nome da note contigue, aumentate o ridotte di intonazione con diesis o bemolle.
In questo aspetto, che certamente può sembrare una ovvietà, è già insita la storia della scala.
E' evidente infatti come, originariamente, essa fosse composta da suoni "naturali", in sostanza i tasti bianchi dell'attuale pianoforte (scala fondamentale).
In seguito, con l'evoluzione del gusto, la nascita di nuovi strumenti, il progredire della tecnica esecutiva ma, soprattutto, per esigenze vocali, si è presentata l'esigenza di trasporre le composizioni e, per rispettare le relazioni interne ad ogni scala (o modo, nell'antichità), è stato necessario alterare alcune note.
Questo per diversi secoli ha portato ad una situazione paradossale per noi musicisti del XX secolo: le note alterate mantenevano una stretta relazione con la nota dalla quale derivavano per cui un
Do# era cosa diversa dal Reb, così come un Re# era diverso da un Mib
e così via.
Questa situazione è andata avanti fino al XVII secolo, quando fu definita la possibilità di suddividere in intervalli uguali l'intervallo di ottava (temperamento equabile) da
A. Werckmeister; teorizzazione che trovò poi definitiva ed autorevole consacrazione pratica nel secolo successivo ne
"Il Clavicembalo ben
temperato" di J.S. Bach.
Finita questa sintetica ma necessaria intro storica cominciamo a parlare di cose concrete.
Abbiamo detto che la scala diatonica esiste in varie forme a seconda della disposizione al suo interno degli intervalli di tono e semitono.
Tra queste quella più importante, se non altro didatticamente, è la scala
maggiore.
Nella scala maggiore (ma anche in tutte le scale diatoniche, in modo più o meno evidente) le sette note non hanno la stessa importanza, bensì vi sono delle gerarchie che fanno
sì che alcune note abbiano un ruolo più significativo rispetto ad altre.
Questo è dato dal significato musicale che, nel tempo abbiamo attribuito ad
ognuno dei gradi della scala stessa.
Allo stesso modo, e coerentemente con questo fatto, ognuno dei gradi prende un nome ben preciso che
dà già un'idea del suo ruolo.
Anche qui, ad una prima occhiata, appare subito evidente come i gradi 1,
3, 5, 7, abbiano dei nomi "veri", gli altri gradi invece si chiamano "sopra….."o "sotto…..".
Non è un caso: i gradi 1, 3, 5, 7 infatti sono quelli che hanno funzioni e tensioni ben definite
e sono, tra l'altro, i gradi costituenti della tetrade dell'accordo di base.
La tonica è quella che dà il nome alla scala, il tono; la modale è quella che ne definisce
il modo, ovvero maggiore, se distante dalla tonica 2 toni (Do - Mi, intervallo di terza
maggiore) o minore se distante dalla tonica 1 tono e mezzo (DO - Mib, intervallo di terza minore); la
dominante è la nota centrale della scala e funziona da perno per gli altri gradi, riportando tutti alla tonica; la
sensibile è una nota di grande tensione e tende a salire all'ottava in maniera spasmodica.
Ma vediamo come funzionano alcune relazioni interne alla scala, le più importanti:
Il concetto è che tutti i gradi che non siano di tonica
creano una tensione che tende a risolversi sulla tonica, formando così quelle che vengono definite
"cadenze".
La tonica funziona da centro di gravità, un accordo costruito sulla tonica non
dà la sensazione di doversi muovere, non prelude ad altri spostamenti, tutti gli altri invece portano, direttamente o indirettamente alla tonica.
Così come una melodia, od una frase di un solo, che termini sulla tonica
dà lo stesso senso di compiutezza; forse anche troppa, tanto che spesso si cerca di evitare epilogo così scontato navigando verso approdi più instabili.
Qualsiasi grado può risolvere sulla tonica; una cadenza III° - I° è perfettamente lecita se giustificata dal risultato ottenuto (ed in questo è già insita l'idea di modalismo, come vedremo più avanti), ma le cadenze dello schema soprastante sono quelle più caratteristiche del nostro sistema musicale.
Vediamole:
- il V° tende a muovere sul I° , ovvero la cosiddetta cadenza perfetta (nel jazz II°
- V° - I°, ricordate?)
- il IV° tende a muovere sul I°, (cadenza plagale, nel blues battute 10 e 11 del chorus) o sul V° e poi sul I°.
- il movimento del VII° sul l'ottava (I°) è più melodico che armonico ed ha, come già detto, un grande effetto di definizione della tonalità, riaffermandola in modo inequivocabile.
A questo punto, in tutta questa orgia di gradi, grafici e frecce svolazzanti, spero che almeno una cosa si sia capita:
perché il nostro sistema musicale si chiama "TONALE"!!!
Perché è incentrato tutto sui rapporti che i singoli gradi della scala hanno con la tonica, sulle tensioni e risoluzioni interne ed esterne alla scala diatonica.
La musica tonale quindi ha dei rapporti di forza al suo interno che ne caratterizzano fortemente lo svolgimento, con tanto di regole, intervalli e progressioni che, a volte, specialmente in ambiente accademico, sono codificate in modo preciso.
Non dimentichiamoci però che stiamo parlando di qualcosa di strettamente legato al gusto ed alla cultura di un popolo per cui queste regole, nel corso dei secoli, sono cambiate spesso, sono state forzate in avanti da musicisti precursori di nuove soluzioni o da influenze stilistiche esterne (musica popolare, scale e sistemi provenienti da altre culture) per cui passaggi o intervalli una volta "vietati" sono diventati col tempo prassi comune.
Questo continuo processo di aggiornamento e ricerca di nuovi equilibri ha portato pian piano allo scardinamento del sistema tonale, culminato nel '900 con la
dodecafonia, ovvero la democratica uguaglianza delle dodici note, il cromatismo, il rifiuto di tutte le gerarchie interne alla scala che, per secoli, hanno dettato legge a livello compositivo.
Certo non si può dire che la musica dodecafonica sia entrata nel cuore dell'ascoltatore di massa (voglio vedere qualcuno in macchina che ascolta Schoenberg
"a manetta"!!!), non nella sua forma estrema almeno.
Una fase parallela di questo processo però ha influenzato ed influenza molto di più la musica di tutti i giorni: il
MODALISMO.
La musica modale (e qui cominciamo a parlare essenzialmente di jazz) si differenzia da quella tonale per diversi aspetti, alcuni non facilmente riconoscibili legati come sono all'approccio mentale del compositore e/o dell'esecutore, ma una caratteristica è ben riconoscibile: anche il modale cancella in un colpo solo le tensioni interne alla scala diatonica senza però sostituirla con la scala cromatica ma
bensì elevando la scala diatonica stessa da sovrastruttura (le note della scala quindi in funzione della tonica e dell'armonia tonale) a
struttura, ovvero la scala stessa genera accordi ed altre scale ed ognuna di queste nuove scale ha una sua identità e funzionalità a livello compositivo ed improvvisativo.
In un "modo" le sette note hanno uguale importanza, non esiste il polo attrattivo (tonica) e quindi non esiste "sensibile" e tanto meno "dominante": il "modo" non è maggiore o minore, è una sequenza di note a se stante che crea di per
sè un ambiente sonoro, un colore da sfruttare senza necessità di modulare verso altri modi, ovvero il concetto stesso di "modulazione" inteso come preparazione e passaggio ad un'altra tonalità, venendo a mancare la "tonalità" stessa, diventa inutile, o quantomeno decisamente più elastico.
Il comportamento melodico-armonico risente comunque di una certa attrazione verso la tonica, ma il progredire verso di essa non passa necessariamente verso il V° grado: tutti i gradi possono approdare alla tonica oppure no, quello che nel sistema tonale era una cosa inusuale qui diventa regola, o meglio non-regola.
I modi in uso nel jazz (per inciso, diversi come struttura e significato dai modi greci dell'antichità), vengono generati
sostanzialmente dalla scala maggiore e dalla scala minore melodica nella sua parte ascendente.
Vedremo in questa sede quelli generati dalla scala maggiore:
In sostanza la scala maggiore viene "affettata" a partire da ognuno dei suoi gradi ottenendo così sette sequenze di note che prendono i nomi sopra descritti.
Con il ragionamento in termini prettamente "modali" ci fermiamo qui perché il discorso si farebbe troppo vasto e complesso e, soprattutto, ci allontanerebbe dall'obbiettivo di questo articolo.
E' importante invece considerare che, in realtà, nel jazz nessuno ormai suona o compone in modo solo "tonale" o solo "modale".
Nella pratica l'innovazione del modale non ha soppiantato il sistema tonale ma ne ha arricchito le possibilità.
Abbiamo detto che le scale modali sono esse stesse "struttura" e generatrici di armonia ed abbiamo visto come la scala maggiore generi da ognuno dei suoi gradi i sette modi.
Applicando lo stesso procedimento possiamo vedere come la scala maggiore generi da ognuno dei suoi gradi sette accordi, che saranno, ovviamente, strettamente relazionati al modo costruito sullo stesso grado:
Ma cosa succede se guardiamo questo schema in senso tonale?
L'accordo di dominante (G7) tende a muovere sulla tonica (ricordate le cadenze?).
Siamo autorizzati, allora, a pensare di poterci usare sopra un modo Misolidio, (in questo caso è più giusto chiamarlo
"scala misolidia", a confermare la contaminazione tra tonale e modale), ma la scala Misolidia non è altro che la scala di DO suonata a partire da SOL, giusto?
Andiamo avanti, poi tiriamo le somme!
L'accordo sul II° grado tende a muovere sul V° (il famoso
II-7, V7 , Imaj7 adesso ci appare più chiaro).
Allora siamo autorizzati a pensare di poterci usare sopra la scala Dorica di
Re.
Ma la scala Dorica di Re non è altro che la scala di Do suonata a partire da RE, ma allora……in senso tonale è parente stretta del Misolidio?
Certo, sono le stesse note suonate a partire da un punto diverso!
Sul II-V-I di Do (come di qualsiasi altra tonalità) possiamo quindi ragionare in due modi:
1) Suonare in modo più tonale pensando per ogni accordo la propria scala: questo ci porterà ad esaltare le relazioni tonali interne alla scala.
2) Suonare in modo più modale (passatemi il gioco di parole) pensando alla scala Ionica per tutta la progressione: questo ci porterà ad attutire l'effetto delle relazioni tonali, dando al nostro solo un sound più moderno (ma non crediate che sia più facile, tutt'altro!).
In un caso o nell'altro sappiamo su quali note muoverci senza incappare in errori clamorosi: paradossalmente potremmo navigare su e giù per la scala di DO per tutta la progressione, anche a caso senza sbagliare (provare per credere): non sarà bellissimo (ma non è detto, a volte il caso….), non avremo fatto l'assolo del secolo, ma nessuno potrà dire che abbiamo sbagliato!!!
Stesso discorso vale per gli accordi costruiti sui gradi meno "importanti" della scala, ma mi fermo qui per non complicare troppo la storia.
A conclusione facciamo due calcoli:
la scala maggiore genera 7 scale modali e relativi accordi
le tonalità sono 12, 7 x 12 = 84
morale:
con la pratica delle 12 scale maggiori, a patto che si padroneggino meglio delle proprie tasche, noi siamo in grado di conoscere ed usare in un modo corretto, anche se solo in modo didascalico,
84 accordi e relative scale.
Spero con questa affermazione, apparentemente fantascientifica, di aver stimolato ulteriormente in voi la voglia e la determinazione nel praticare le scale maggiori: visto quanto detto fin qui e data la valenza tecnico strumentale che comunque queste danno (valenza ancora maggiore per noi strumentisti a fiato a causa del criterio costruttivo degli strumenti stessi) esse rappresentano un passo essenziale nella crescita musicale, anzi, sono il fondamento per ogni discorso futuro, sia esso indirizzato verso l'esecuzione pura che verso la musica improvvisata.
A tal proposito permettetemi un'ultima precisazione, molto importante: letto questo articolo non pensiate di aver capito il "trucco" per improvvisare.
Capisco, e soprattutto spero, che alcuni meccanismi vi siano più chiari ma tutto quello che avete letto è stato una semplice panoramica, volutamente sintetica, se non superficiale in alcuni punti, avente l'unico scopo, come già detto nella premessa, di far capire l'importanza della scala a tutti livelli.
Prendetelo come una porta aperta su una strada nuova, ancora tutta da percorrere, uno stimolo ad approfondire un percorso difficile che si snoda su orizzonti temporali di anni, ma che non deve per questo mettere paura o demotivare.
Infine una promessa: nei prossimi articoli vedremo concretamente come affrontare lo studio delle scale maggiori in modo produttivo e, soprattutto, finalizzato al raggiungimento dei nostri obbiettivi "improvvisativi".
Ciao
Fabio
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COMMENTI | Inserito il 5/2/2009 alle 12.12.48 da "1968franco" Commento: Complimenti, trovo di grande aiuto sia lo studio teorico che l'ascolto di alcune scale e terzine mi piacerebbe un approfondimento in più sull'ascolto.Ho qualche perplessità sulla scelta del bocchino circa le misure potreste aiutarmi?Grazie e complimenti ancora. | |
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Data pubblicazione: 08/10/2000
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