E' sempre più difficile, in questi ultimi tempi, seguire il percorso artistico
di tanti musicisti che, all'insegna dell'eclettismo, esibiscono proposte intellettualmente
piuttosto movimentate: talvolta, però, suonare in "totale libertà" può finire per
costituire null'altro che una mera ventata conservatrice di livello estetico alquanto
modesto. Sembra quasi che ci senta meno liberi, un po' come accadde in alcuni casi
negli anni 60-70, quando furono in molti a crearsi impedimenti come se ci fossero
cose che non si potevano suonare, la melodia per esempio.
Sono trascorsi venti anni da quando il Microscopic
Septet parve aver lasciato le scene dopo aver dato vita a quattro discussi (e
discutibili) albums; francamente non ci si sarebbe aspettato che quel modo di fare
musica sarebbe riapparso, con una certa sfrontatezza, proprio oggi che, molto spesso,
all'ascoltatore non si chiede d'indagare nei meandri compositivi, d'intuire o di
capire ciò che si nasconde dietro al prodotto. Ma tanto richiede "Lobster
Leaps In", una prova in definitiva oscura dietro alla brillantezza degli
assoli, mille volte sfaccettata a latere di un'apparente semplicità, il cui
centro distintivo potrebbe apparire solo fra contrappunti e "mid – tempo", fra la
versatilità dei fiati e lo swing del piano.
Il settetto esibisce un approccio gioioso eclissato in un clima "ospitale"
in cui smarrire frammenti di puro divertimento che legano lati avanguardistici a
percorsi tradizionali gradevolmente quanto inopportunamente originali, almeno nelle
intenzioni.
Le influenze più evidenti oscillano in un continuum sperimentale tra
anni 80 e 90, fatto che in ogni caso merita attenzione e che unisce un senso di
liberazione estetica alla regolarità ed all'attenta occasionalità tipica di certo
jazz americano: dal bebop a John Zorn, attraversando Monk, Ayler e soprattutto Frank
Zappa (un bel mélange, non c'è che dire), volendo in ogni modo distillare l'essenza
"blue" in un sound umoristico che non conosce timori né necessita d'ossequio.
Il jazz ha senz'altro bisogno, per sua natura, d'inventiva e di ironia: la
devastante idiosincrasia con la quale la band tesse "quasi melodie" rimanda ad un
Dixieland rivisitato secondo armonizzazioni "libere", formalmente brillanti,
orchestrate secondo un gusto tipicamente newyorkese, con una particolare attenzione
ai "boogies" di Count Basie ed ai pensosi temi di Mingus e Dolphy, di cui
comunque in questo caso manca ogni pathos.
Di Basie si diceva. Ebbene, come non può venire alla memoria – per gioco
linguistico o per contrasto – il leggendario "Lester Leaps In" che il Count
incise con Lester Young nel 1939?
Sette erano anche in quel caso (i due con Buck Clayton alla tromba, Dicky
Wells al trombone, Freddie Green alla chitarra, Walter Page al contrabbasso e Jo
Jones alla batteria), una formazione tecnicamente molto simile se non identica:
cosa mai avrà voluto comunicarci in tal modo il Microscopico Settetto? Un
guizzo iconoclasta o forse uno stilismo costruito con arguzia in forme solo all'apparenza
dissacranti? Poco commentare resta: hai visto mai che da un contributo tanto modernistico
quanto poco attento possa, per antitesi, uscire rafforzato il panorama jazzistico
attuale?
Fabrizio Ciccarelli per Jazzitalia
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Data pubblicazione: 12/10/2009
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