Intervista a Luca Ciarla
di Vittorio Pio
Se lo stato di salute del jazz italiano si potesse constatare dal livello dei giovani pianisti allora finiremmo con il definirlo un paziente in buona forma. Luca Ciarla, classe 1970, fiera origine molisane ma cittadino del mondo, fa parte a pieno titolo di questa nidiata che comprende,
tra gli altri, anche il virtuoso Julian Oliver Mazzariello, Pietro Lussu ed Andrea Pozza.
Ciarla in più suona il violino (con esiti rimarchevoli), ed è leader di un lungimirante "Wine Jazz Trio"
che ha sintetizzato un'importante
esperienza all'estero con l'incisione di "Live At the Fringe Club", realizzato appunto ad Hong Kong con l'ausilio di
Antony Fernandes (batteria) e Sylvain Gagnon (contrabasso). Efficace nel suo fraseggio Ciarla ostenta un solido bagaglio classico con un occhio di riguardo alla lezione del grande pianismo bianco che ebbe in Bill Evans il suo capofila. Da Michel Petrucciani
Ciarla invece ha mutuato la capacità di lavorare a tutto campo con entrambe le mani, senza peraltro mai smarrire il filo del discorso o il gusto della melodia. La frequentazione con pari dignità di pezzi d'atmosfera e di brani più atletici, ne fanno di lui il pianista ideale per un jazz moderno senza ulteriori aggettivi e qualifiche di sorta. Schivo ma determinato, adesso che è tornato in Italia proviamo a tracciare un bilancio che ovviamente parte dalla sua esperienza condivisa,
per un lungo periodo, tra gli Stati Uniti ed Hong Kong. Una vicenda che ne ha accelerato notevolmente la formazione: "Ho vissuto ad Hong Kong per quasi due anni - afferma -
è stato un periodo molto intenso e gratificante per il fascino e la particolarità che occorre riconoscergli. Si dice che il caso conti sempre nel destino degli uomini e anche per me è stato un po' così. Ero in vacanza e mi capitò di suonare in alcuni club importanti della città. Da lì feci ascoltare un mio disco ad un importante direttore artistico che mi invitò a tornare per lavorare in maniera più regolare. In pochi mesi la mia vita cambiò. A quell'epoca mi trovavo già all'estero, negli Stati Uniti per l'esattezza: insegnavo violino presso la Arizona University. Sentivo il bisogno di intraprendere una nuova esperienza di vita e decisi di trasferirmi. E' stato un periodo molto stimolante della mia vita."
V.P.:
Sei ritornato da poco in Italia, una scelta anche questa coraggiosa vista la non eccelsa considerazione riservata alla musica.
L.C.:
Non so se è una questione di radici, ma ad un certo punto ho deciso di fare il percorso inverso perchè sentivo il bisogno di costruire qualcosa dove sono nato. Qui in Molise ho fondato vari festival, un'etichetta discografica e un'associazione culturale. La mia intenzione
è quella di ricreare proprio qui la vita e il lavoro che avevo all'estero. E'
una scommessa estremamente difficile ma ci sto provando con tutto me stesso.
V.P.:
Come gestisci questa apparente dicotomia tra gli strumenti che suoni?
L.C.:
Suono e studio il violino e il pianoforte da sempre. Il mio è un bisogno fisiologico. Il violino è uno strumento meraviglioso ma ho sempre sentito il bisogno di suonare anche il pianoforte per esprimermi completamente. In Italia ho studiato al conservatorio e presso le scuole di musica di Fiesole e Saluzzo. Negli Stati Uniti ho continuato i miei studi che mi hanno portato ad ottenere un master in Indiana, una delle scuole più prestigiose al mondo, e un dottorato in Arizona. Ho studiato musica classica, jazz ed etnica. Il pianoforte ha un ruolo centrale nell'evoluzione della musica classica in cui
Bach è uno dei miei principali riferimenti, ma c'è anche il jazz e in questo ambito ho ascoltato molto Michel Petrucciani, cui mi sento molto affine, Keith Jarrett e
Fred Hersch, un artista che sopratutto in Europa stenta incredibilmente
ad avere il credito che meriterebbe.
V.P.:
Altre considerazioni riguardo alle tue influenze?
L.C.:
Nel mio bagaglio ci sono varie tradizioni popolari come quella indiana o ungherese.
Comunque mi piace tutta la musica "buona", perché tutto si può suonare in maniera eccellente o memorabile.
Non ho preferenze per un genere particolare.
V.P.:
Quali sono state le tappe più significative della tua carriera sul piano delle collaborazioni con altri musicisti e della tua evoluzione personale?
L.C.:
Trasferirmi in America nel 1996 è stato ovviamente uno dei passi più
importanti. Ho avuto la possibilità di studiare con grandi musicisti tra i quali vorrei ricordare
David Baker. Altra tappa importante è stata ovviamente la mia esperienza ad Hong Kong, città ricca di musicisti interessanti. Lì ho avuto il piacere di suonare spessissimo con Sylvain Gagnon, bassista canadese che ha suonato ed inciso anche con Joey Calderazzo, pianista spesso a fianco di John Scofield e Michael Brecker.
V.P.:
Sembra di intuire che la tua direzione al momento ti vede suonare ed incidere in gruppo: nel trio a tuo nome oppure con formazioni di altri. E' forse più difficile sentirti al piano solo. E' una sfida che per il momento non ti solletica?
L.C.:
Mi piace moltissimo e spesso mi capita di fare concerti in piano solo o concerti nei quali suono sia il violino che il piano. Nel mio primo disco, uscito con l'etichetta romana
Alfa Music, suono sia il violino che il
piano da solo. E' una sfida che non temo perchè mi concede la libertà di potermi
esprimere senza nessun tipo di regola o meccanismo.
V.P.:
Come avviene l'organizzazione di un tuo gruppo e come ti comporti invece sotto la guida di altri leader?
L.C.:
I miei gruppi nascono principalmente dall'esigenza di suonare il mio
repertorio. Nel disco registrato ad Hong Kong infatti ci sono solo cose mie
tranne una rilettura non molto ortodossa di All the things you are, uno dei testi sacri fra gli standards
americani. Negli ultimi anni ho scritto molto e al momento suono principalmente
la mia musica. Quando faccio parte di un'altra situazione la sfida è quella di
trovare il giusto compromesso tra le aspettative nei miei riguardi e quello che
so fare per davvero.
V.P.:
C'è una differenza quando suoni con musicisti europei oppure statunitensi?
L.C.:
Dipende da cosa si suona e non credo che ormai ci sia molta differenza. Mi
piace molto l'approccio "europeo" al jazz e alla musica in genere, lo
preferisco.
V.P.:
Il jazz è ancora in grado di rinnovarsi?
L.C.:
Per darti una risposta esauriente devo ampliare la prospettiva, perché la musica in generale si trova in una situazione abbastanza tragica dovuta principalmente alla situazione generale del paese. Musica e cultura prolificano quando la società che le comprende si trova in buona salute. Per quanto riguarda il jazz, credo che ci sia il bisogno di allontanarsi sempre più dal mainstream e dal bop. Importanti
quanto si vuole, ma ormai bisogna tendere ad altro.
V.P.:
Al di là di suonare al meglio delle proprie capacità quale pensi debba essere il dovere di un musicista oggi?
L.C.:
Credo che innanzi tutto ci voglia una preparazione classica sullo strumento.
Un musicista maturo non può ignorare i grandi del passato e non credo che si possa arrivare ad un buon livello tecnico senza saper appunto suonare il repertorio classico. Poi sarebbe importante avere un approccio
completamente aperto verso tutta la musica. Le cose più belle in questo periodo
arrivano da musicisti che non sentono il bisogno di appartenere ad una
tradizione o corrente, loro creano e basta.
V.P.:
Mi puoi dire qualcosa al riguardo dei tuoi interessi extra-musicali?
L.C.:
Adoro Il cinema e la danza contemporanea per una questione di affinità
elettive, poi il calcetto...perché siamo sempre in Italia.
V.P.:
Stai preparando qualcos'altro?
L.C.:
Un disco con il violino in quartetto.
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Data pubblicazione: 22/05/2005
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