Se vi fosse capitato di trovarvi a New York intorno alla metà degli anni
'80, assetati di buona musica ma inspiegabilmente
annoiati dalle divagazioni rock-elettroniche di Miles Davis, dagli infaticabili
lavori di Zawinul & Co., o anche dalle esperienze fusion di
Chick Corea,
probabilmente non avreste trovato con facilità pane per i vostri denti. Tuttavia
visitando perseveranti la città, delusi da tutta questa fusion rampante, sareste
finiti forse in qualche club più o meno nascosto, come il Blue Nile, il
Paper Moon, il Dive, e lì con un po' di fortuna avreste incontrato
i "Sette Uomini in Cravatta": il Microscopic Septet.
Il nome di questo ensamble è probabilmente noto più che altro agli addetti
ai lavori che non invece ad un ampia fetta di pubblico, proprio per la loro posizione
di retrovia rispetto ai grandi nomi del momento, dettata dalla scelta stilistica
di porsi in modo decisamente trasversale in una commistione di generi apparentemente
informe. Non a caso venivano accompagnati da una formula che li vedeva come la "più
famosa band ignota di New York".
Capitanata in qualche modo dall'eclettico Phillip Johnston, la formazione
oltre ai recidivi (Joel Forrester, David Hofstra, Don Davis)
ha visto partecipi diversi musicisti più o meno stabili che hanno poi seguito un
percorso proprio, come John Zorn e Bobby DeMeo. Il proposito che Johnston
si proponeva era semplice e diretto: mescolare la musica di Duke Ellington,
Henderson e Redman con idee più moderne ed attuali, facendo una sorta
di mix.
Il frutto di queste scelte è ben presentato nel disco in questione (anzi
nei due dischi, dato che si tratta di un doppio CD), che ripercorre gli anni fra
il 1980 ed il 1985
circa, includendo "Take the Z Train", il primo
LP, e la registrazione di "Let's Flip", unico
live pubblicato su disco, tenutosi al Mephisto Club di Rotterdam.
Basta l'ascolto di pochi minuti del primo brano per capire cosa si intende
per "alternativa" alla scena del tempo. L'ensemble di Johnston infatti tagliava
senza troppi problemi quasi 50 anni di musica jazz e vi si inseriva in modo sfacciato
e canzonatorio, per giungere al semplice fine di suonare, suonare dovunque ed il
più a lungo possibile e soprattutto divertirsi nel farlo. Come lo stesso Johnston
ci spiega: "We were about playing".
Considerate il grande swing, il bop degli anni 50, lo slancio free, ritmi
pacchianamente latinoamericani, aggiungete il rock ‘n' roll ed un certo piacere
per la colonna sonora dei telefilm di Batman: non c'è nulla che non trovi spazio
in qualche modo nelle composizioni del Microscopic Septet. Senza preavviso
l'ascoltatore passa da ritmi easy e melodie canticchiabili a parti quasi rock, per
poi tornare ad un walkin' trascinante, o all'hot jazz di ascendenza be-bop, ma solo
per attimi sparpagliati qua e là quasi alla rinfusa, senza appesantire. In un certo
senso è collegabile a ciò che da lì a poco avrebbe fatto Zorn con i suoi
Naked City, ma viene a mancare quel nichilismo olistico, l'approccio è più
rilassato, ed in generale le composizioni sono certamente meno violente/violentate.
Tuttavia il percorso stilistico è lo stesso: perché limitarsi ad un senso unico
e non provare invece a fare qualcosa di omnidirezionale? La musica predomina sui
musicisti, che divengono un mezzo espressivo puro. La lezione di progetti come questo
è molto eloquente: come un fiume in piena, il patrimonio cui si attinge nel momento
compositivo travolge ogni cosa, ogni intenzioni troppo razionalizzante, e non è
possibile arginarlo.
Un plauso, oltre alla bellezza del lavoro di questo ensemble, va fatto alla
scelta dell'etichetta di pubblicare non una semplice compilation dei brani più riusciti,
bensì di riproporre per intero due dischi completi, di cui per di più uno dal vivo,
dando così l'opportunità di considerare in toto la produttività del Microscopic
Septet.
Achille Zoni per Jazzitalia
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Data pubblicazione: 21/10/2007
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