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Cinema e Jazz
Notes from a Jazz Survivor

(Appunti da un sopravvissuto del jazz, Don McGlyn, 1982)
di Cinzia Villari

Una camera da letto piccola, piena di cose, ma ordinata. Un uomo seduto, sta improvvisando qualcosa al clarinetto. Ne escono delle note mosse, un suono caldo. Poi l'uomo s'interrompe e, rivolgendosi a qualcuno dietro la m.d.p., domanda: «Vuoi che sia…che sia totalmente naturale o cosa?». L'aria non è quella della fiction, lo schermo ci rimanda qualcos'altro, l'uomo che parla non sembra essere un attore. Il cambio inquadratura riprende un palco enorme, una voce over ci presenta l'uomo che abbiamo appena incontrato nella camera da letto: «Il grande Art Pepper!».



Lui dentro una camicia hawaiana a fiori e con il sassofono appeso al collo sta per esibirsi in concerto. Gli sono intorno i suoi musicisti. Eccoli, sono pronti, il concerto sta per cominciare, l'uomo poggia gli spartiti sul leggio e, dopo aver imboccato lo strumento, lascia partire le note del primo brano. Dopo qualche istante, la sua voce over va a sovrapporsi alla musica scivolando in quella che sarà una lunga confessione. Con semplicità racconta la sua tragedia: l'eroina. Tutto il male è partito da lì. Ora la m.d.p. sceglie d'inquadrarlo in un primissimo piano, il volto mobile cerca le parole per dirsi. Un viso vissuto, pallido, ci fa intravedere l'antica bellezza. Gli occhi tradiscono un passato di autolesionismo, di dolore. Sono gli occhi di un musicista, ma soprattutto di ex-eroinomane, liquidi, un po' opachi. Si assomigliano così tanto gli occhi dei tossicomani, le loro pupille si sono ristrette e allargate artificialmente così tante volte, d'aver perso l'elasticità naturale. Diventano occhi acquosi, atteggiati quasi in una smorfia come se fossero bocche che stanno per dire qualcosa, qualcosa di non percepibile da coloro che dell'eroina e di tutta quella roba lì, non ne sanno nulla. Ma poi non dicono niente, e spostando impercettibilmente lo sguardo altrove, ci abbandonano lasciandoci con le nostre vaghe sensazioni e con domande che non sempre trovano risposte adeguate. La m.d.p., inquadrando il volto in un primissimo piano, ci rivela nei particolari, i più piccoli movimenti, scrutando insieme a noi oltre l'immagine apparente. La confessione è semplice nella sua crudezza, è un racconto chiaro, senza troppe sfumature. Tutto è cominciato quando lui suonava con Stan Kenton, qualcuno gliel'ha fatta provare -l'eroina- in una camera d'albergo e l'inferno proprio lì, ha spalancato le sue porte. Le parole del racconto escono fluide intercalate dal suo «..you know..» appena percettibile a causa di un over sound italiano scelto probabilmente per aiutarci meglio nella comprensione. Poi una melodia dolce. Partono, sulle copertine dei dischi che lo ritraggono e sulle note del suo sax, i titoli di testa. Una voce over femminile entra, comincia a parlare mentre vediamo ritratta una foto del nostro protagonista con una giovane donna. Poi la voce si materializza sul p.p. di colei che parlava. E' la stessa donna della foto, la nuova moglie di Art Pepper, la donna che lui dice avergli salvato la vita. Molti di questi personaggi "maledetti" vedono nella figura femminile, in particolare in quella della donna pratica, la loro salvezza. Sembrano a volte questi personaggi, bambini indifesi che non sanno far nulla all'infuori del suonare. Tutto il resto sembra non rientrare nella sfera delle loro capacità possibili, tanto mostruosi musicalmente, quando incapaci di gestire la propria esistenza, proprio come se mancassero i presupposti base per raggiungere un equilibrio. Allora eccone un altro di artista maledetto che, dopo vent'anni di eroina e il carcere per rapina a mano armata - naturalmente per procurarsi la dose- per redimersi si affida all'angelo di turno, incarnato questa volta nella figura di una donna tutta energia e praticità. Ricorda un po' la Nellie di Thelonious Monk, così presente nella vita del grande musicista da scegliergli perfino le calze da indossare. E così ecco come il nostro cine-documento si fa portatore di verità profonde diventando la finestra da cui possiamo affacciarci per conoscere altre vite. Artefice e testimone con noi della tragedia, ora redenta, di uno dei più grandi mostri del jazz, ci mostra come, attraverso un rapporto quasi simbiotico, due esseri umani possono trovare la loro giusta via. Forse queste due persone che abbiamo di fronte per sentir realizzati i loro desideri più veri hanno bisogno di compenetrarsi fino in fondo. Allora lui lontanissimo dal mondo della praticità, si affida alle cure di questa donna che prendendo in mano le redini della situazione, non solo diventa sua moglie, ma anche la sua manager fino a scrivere addirittura un'autobiografia che racconta un passato, con episodi che lui non ricorda neanche di aver mai vissuto. Lei, per contro, prendendosi cura con amore di un uomo di tale fatta, tanto grande artisticamente quanto perso esistenzialmente, realizza una completezza che forse da sola non aveva ancora raggiunto. Lui, grazie a lei, torna a vivere una vita possibile riuscendo a ricominciare a suonare come non faceva più da tempo immemorabile. Lei, vicino a lui, donna tanto pratica quanto sensibile, tocca con mano il senso più profondo dell'arte che quest'uomo riassume in sé. Il risultato è una felice compenetrazione e un grande amore, che partoriscono a loro volta, ancora arte. Sono donne particolari queste che prendendo le redini e gestendo completamente la vita di questi individui -geniali quanto elementari- riescono a supportare, con tenacia, tutte le mancanze che questi artisti denunciano in continuazione. Questi sono uomini che con il loro strumento tra le mani riescono ad esprimersi con la perfezione di un angelo, ma che nel quotidiano hanno bisogno loro, di un angelo che li guidi nel cammino. Personaggi difficili, esseri autolesionisti che facilmente hanno anche raggiunto la pazzia. Ci viene alla mente il caso di Frank Rosolino, il trombonista bianco, grande rappresentante della West Coast californiana che è finito pazzo ed ha ucciso moglie e figli. Ma Art sembra che il suo angelo lo abbia incontrato in lei, in Laurie. Così la donna nel nostro jazz-film ne diventa l'altra voce, presente, partecipe, attiva anche qui sulla pellicola, come attiva è nella vita dell'uomo. La sua voce si alterna a quella del protagonista attraverso un montaggio che li vede a volte insieme a volte separatamente, facendoci conoscere un po' più nei dettagli il musicista. Non solo la donna ha assunto il controllo della vita del suo uomo, ma lo protegge da tutti coloro che vogliono sfruttarlo. Per l'intera vita Pepper, è stato usato, sfruttato fino all'osso, sia dalla strada che dal mondo di quella musica, che lui ha amato più di tutto. La sua incapacità di gestirsi si è scontrata troppo spesso con realtà, non solo umane ma anche professionali, prive di scrupoli che, dopo averlo usato, lo hanno miseramente abbandonato a sé stesso. E se in questo documento-testimonianza, l'uomo batte molto sul tema dell'incontro con la donna è forse proprio perché a questo punto della sua vita ha finalmente ovviato a quella solitudine profonda che ne ha caratterizzato l'esistenza.

Staccandosi da lui ad un certo punto la m.d.p. scorre in una panoramica che inquadra velocemente San Pedro, la città dove è nato. La sua solitudine comincia da lì, dall'amore distratto di una madre troppo giovane per essere in grado di metterlo al mondo. Ma lui al mondo ci è voluto venire lo stesso, con le conseguenze che ne derivano dal non esserne accettato. Una crescita difficile, una vita gestita dalla precarietà, dal continuo senso di abbandono, dalla solitudine colmata solo dalla musica fino a quando anche la musica non è riuscita più a stargli dietro. E la colonna sonora della sua vita ha perso suono, melodia ed armonia. In un ammasso di immondizia ha lasciato il suo sassofono, perdendosi definitivamente nel tunnel dell'eroina. Per questo forse nel film benedice con forza l'incontro con la sua ultima moglie. Già, perché di moglie ne aveva avuta un'altra, una che gli aveva dato anche una bambina, giovane donna ormai, ma che ora non vede più. La madre l'ha educata a vedere il padre come un mostro di cui non ci si può fidare, allora via, un altro amore sparito,un altro pezzo di cuore frantumato. Ma lui le ha scritto un brano a sua figlia, Patricia si chiama il pezzo e ce lo fa sentire tutto a un certo punto: è un brano struggente, dolcissimo quanto arrabbiato, colmo di bellezza e di dolore per tutto quello che la vita gli ha tolto o che dalla vita si è fatto togliere. E ce lo comunica tutto la sua musica quello che gli si muove dentro. Ad un certo punto ci dirà: «Ogni volta che suono, non è come se suonassi tanto per suonare, io faccio il possibile per tentare di raggiungere gli altri». Bisogno estremo di comunicazione, di dirsi, di darsi. Forse questo jazz-film è l'occasione di raccontare anche con le immagini e con le parole, oltre che con la musica naturalmente, quello che quest'uomo ha dentro. Siamo a pochi mesi dalla sua morte, lui sorride alla cinecamera ma forse già sa che non gli rimane molto da vivere. Allora, a volte, quando pronuncia frasi tipo «sono il migliore» o cose del genere, che superficialmente giudicheremmo narcisistiche, possiamo pensare che forse lo fa solo per esorcizzare la realtà, una realtà dalla quale non ha mai saputo trarre vantaggio e che anche ora che le cose vanno meglio, potrebbe sfuggirgli ancora una volta e definitivamente dalle mani. Lui è uno di quelli che non è stato tagliato fuori dal mondo, è stato piuttosto il mondo che non è riuscito ad accostarglisi. E' stato molto male fisicamente nonostante ci sorrida e con disinvoltura ci mostri i suoi segni, le sue cicatrici e quell'enorme, orrendo bozzo che gli è cresciuto sul ventre. E il racconto dei suoi mali, il regista McGlynn lo lascia scorrere alternandolo alle immagini nelle quali suona, facendoci percepire come la musica parli lo stesso linguaggio e trasmetta le stesse sensazioni che l'uomo sta provando. Piano, piano la sala si fa sempre più scura, le luci cambiano. I colori riconoscibili nel girato di quegl'anni, siamo nel 1982, esplodono in un tripudio. Il rosso, il blu e il rosa dei fari, riempiono lo schermo colorando il suo volto e quello degli altri musicisti. «Suono per comunicare» dirà ad un certo punto «ogni volta che suono, non è come se suonassi tanto per suonare…io faccio il possibile per tentare di raggiungere gli altri», le sue parole si alternano all'immagine di lui che suona insieme ai componenti del suo gruppo, l'ultimo quartetto di Art Pepper. Movimenti di macchina che passano dai p.p. ad una sorta di totali che li ritraggono insieme. Spesso la sua figura sparisce dietro un faro rosso acceso, per riapparire in un p.p. blu intenso. Poi la m.d.p. inquadra i suoi compagni ed è dall'inquadratura del volto, della figura o del dettaglio delle mani o degli strumenti, che capiamo che le parole che Art sta pronunciando in questo momento, sono rivolte a presentarci ognuno dei suoi compagni, non attraverso il loro nome, ma secondo il suo personale punto di vista su colui che viene inquadrato. Questa tecnica di presentazione dei personaggi sembra più appartenere alle realtà della fiction. In un certo senso può essere definita come una soggettiva, raro modo di procedere nel documentario -dove le cose passano più dall'informazione che dall'anima. Qui, però, non ci stiamo solo muovendo nell'ambito del cine-giornalismo, documentando più o meno oggettivamente un personaggio. Qui è lui stesso che ha accettato di essere la testimonianza diretta di sé, confessandosi a noi e dandoci la possibilità di entrare in lui. Sono le parole scelte da un artista a pochi mesi dalla sua morte, accompagnate dal suo sound ritrovato e forse mai perso, nonostante gli anni di tormento che l'uomo ha vissuto. Per circa un ventennio era uscito dalla scena jazzistica ed ecco che ora, attraverso questo jazz-film, ci viene data la possibilità di riapprezzarlo. Poi una frase interessante ci traduce un po' il suo pensiero «Ci sono molte similitudini tra l'essere un criminale e l'essere un jazzista, bisogna essere entrambi svegli, attenti…siamo entrambi pieni di odio…è strano, odio e bellezza sono così simili…» ed è questo ciò che traspare dalle sue note, odio e bellezza fuse ad un mito di tradizione e avanguardia spinta. Poi l'esibizione finisce e mentre si avvia verso il camerino continua a parlare con noi. Da una parte ci trasmette quella gioia per ciò che è tornato ad essere, per il successo ritrovato, per come si sente di avercela fatta, ma dall'altra ci confessa la sua immancabile depressione, che giunge subito dopo la gioia, quasi a non volergli mai far dimenticare che cosa è stata la sua vita e in quale tunnel buio ha sprecato i suoi anni migliori. Il senso di morte che lo ha accompagnato per tutta la sua esistenza, sembra non averlo mai abbandonato, anche ora che pare le cose abbiano preso una piega diversa. Il senso di morte ce l'ha appiccicato alla pelle come i suoi tatuaggi, traspare dal corpo distrutto che lui ci mostra sorridendo ma tradendo con gli occhi la pena che sente, lui che era uno dei belli, un grande jazzista già proteso verso il successo discografico e concertistico, ma che ha perso negli anni forza e dignità. E anche ora che tutto questo sembra essere lontano, ora che la bufera emotiva è passata, il disagio profondo riappare ugualmente. Allora ci racconta del bisogno, anche ora che sa bene, di chiudersi e di nascondersi un quella camera da letto che abbiamo visto in apertura del film, per sentirsi protetto come dentro ad un utero caldo e ovattato. A tratti il suo sound da modernissimo, articolato, aggressivo, quasi disperato, diventa dolcissimo traducendo la natura complessa che caratterizza quest'artista. Di lì a qualche mese Art Pepper se ne andrà per sempre lasciandoci però quel patrimonio indiscutibile che è la sua musica.

Questo sul musicista, come del resto gli altri documentari che più avanti abbiamo analizzato, non è un semplice filtrare la realtà audiovisivamente selezionando una porzione spazio-temporale della vita di qualcuno. Sembra piuttosto il tentativo da parte del cinema di farci vedere quello che c'è oltre alla notizia superficiale che gravita intorno a queste figure, marchiandole magari con pseudonimi riduttivi che non lasciano spazio a interpretazioni più approfondite. E questa volta il cinema ha scelto di far parlare il diretto interessato, alla m.d.p., quindi anche a noi, attraverso un semplice, quanto a tratti poetico, resoconto filmato. E' riuscito a focalizzare e a intensificare l'esperienza umana di quest'uomo dal destino difficile, la cui lotta interiore a volte però si è risolta in momenti estetici altissimi.

Documentare quindi come strumento d'analisi e narrazione di vita, raccontando figure carismatiche e cogliendo quel rapporto psico-intellettuale tra l'uomo e il suo strumento musicale, tra il suo pensiero razionale e il suo pensiero altro. Pepper non solo si è denudato, ma si è impegnato a diventare materia filmica e, allo stesso tempo, il cinema si è impegnato non solo a trasmettere l'aspetto esistenziale, che a volte a seconda dei casi già gli appartiene, ma a diventare linguaggio musicale.

Non semplicemente documentario o fiction quindi, ma jazz-film con qualcosa di più, una consapevolezza che rimarrà nel tempo.






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Data pubblicazione: 09/02/2008

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