Bologna Jazz Festival
Barry Harris Trio Ferrara - Torrione Jazz Club - 29 ottobre 2016 di Niccolò Lucarelli
immagini di Gian Franco Grilli
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Barry Harris - pianoforte
Luca Pisani - contrabbasso
Fabio Grandi - batteria
Fra i suoi mille volti, il jazz ne ha anche uno squisitamente
narrativo, per raccontare ed essere raccontato. Fra i più longevi musicisti in circolazione,
lo statunitense Barry Harris - uno dei maestri riconosciuti del pianoforte
bebop -, si è esibito a Ferrara nell'ambito del Bologna Jazz Festival offrendo
al pubblico il racconto appassionato di un'America d'altri tempi.
Formatosi a Detroit negli anni Cinquanta
e consacratosi a New York nel decennio successivo, Harris si muove lungo uno spettro
musicale raffinato e imprevedibile, fra Coleman Hawkins e Thelonious Monk, e questo
spiega il carattere narrativo del suo jazz, apparentabile a un romanzo di John Cheever
o J. D. Salinger, o a certe poesie di Gary Snyder e Gregory Corso.
Il concerto regalato al numeroso pubblico ferrarese si muove
su corde del genere, aperto e chiuso da due omaggi alla tradizione italiana e latino-americana.
Infatti, le prime note della serata sono quelle di Anema e core, standard
della canzone melodica napoletana, che Harris rilegge trasportandola direttamente
nella febbrile e colorata Little Italy newyorkese; preceduto da una sezione ritmica
latineggiante, Harris vi si allontana ben presto in favore di un fraseggio pianistico
classico in tempo moderato, le cui note e passaggi lasciano avvertire numerosi "vuoti"
fra gli uni e gli altri, di evidente derivazione monkiana. La batteria di Grandi
cresce d'intensità con l'utilizzo del piatto ride, continuando comunque sul
tempo cadenzato. Il pianoforte prosegue imperterrito nei suoi fraseggi, come impegnato
in una raffinata conversazione mondana in un roof-garden in una notte di
primavera. Un jazz d'altri tempi, conviviale e piacevole. Nascimento, composta
dallo stesso Harris, ha chiuso il concerto con un colorato omaggio all'America Latina.
In mezzo, un concerto che, come un romanzo di Cheever, sorprende nota dopo nota
per le soluzioni narrative adottate, pur conservando apparente leggerezza e semplicità.
Harris ci racconta un'America straordinaria, durata lo spazio di un decennio o poco
più, nata attorno al 1955 e scomparsa nel 1969,
a seguito del secondo assassinio Kennedy, gli omicidi della banda Manson e la radicalizzazione
del movimento studentesco. Un'America libertari ama con il senso del dovere. Soltanto
la batteria, con i duri fraseggi sul ride, allude alla dimensione urbana
che di lì a poco sarebbe diventata incandescente. L'equivalente di questo jazz è
stato il folk di Bob Dylan, da poco premiato con il Nobel. Ed è forse un peccato
che le note non vengano considerate, quando meritano, alla stregua delle parole:
Harris meriterebbe almeno un Booker Prize.
Woody and You, introdotta da un lento pianoforte sul registro grave, che
improvvisamente vira sul music-hall riportando alla mente una puttana d'alto bordo
sullo sfondo di un salone in stile edoardiano. Un jazz vivace in 3/4 che strizza
l'occhio alle notti brave dei poeti della Beat Generation, alla filosofia esistenzialista
e al teatro di Harold Pinter. Ogni nota del pianoforte è sì vivace, ma attentamente
ponderata, tratta sempre dal registro medio, quello di chi misura le parole dopo
un produttivo silenzio. Sullo sfondo, Pisani e Grandi alla base ritmica dialogano
per apportare quello sfondo urbano imprescindibile dal bebop, quella New York degli
anni eroici che fiumi d'eroina avrebbero poi spazzata via.
Ruby my Dear, composta da Monk, è aperta dalla consueta, lenta introduzione
pianistica di gusto classico, struggente come un tramonto sui Cloisters, a evocare
quell'atmosfera eccentrica della cafè society americana, con le note che
accarezzano l'udito e vi indugiano come il sussurro di una bella donna. Perché la
musica ha un'anima femminile, e Harris ne cattura con garbo l'essenza seguendone
le inclinazioni, come dovesse abbinare un fiore a uno sguardo seducente.
Around Midnight, si caratterizza sin da subito per il vivace ritmo in 3/4
che asseconda il pianoforte un po' guascone di Harris che, simile a una sceneggiatura
di Neil Simon regala passaggi particolarmente frizzanti, ancora però caratterizzate
dalla "spaziature" monkiane. Un brano che omaggia un'intersa stagione del cinema
americano, quella commedia brillante
Una linearità pianistica che pure racchiude sorprendenti variazioni di tempo e,
meno marcatamente, anche di stile, in un perfetto amalgama che ha nel bebop la cornice
di riferimento. Un concerto emotivamente intenso, specchio di un periodo storico
importante, e che il numeroso pubblico ferrarese non ha mancato di apprezzare.