di Franco Bergoglio
La normalità è una cosa ambigua negli Stati Uniti dove un comportamento deviante è spesso la promessa di qualcosa di nuovo, e dunque di potenzialmente interessante e lucroso.
Thelonious Monk himself, Laurent De Wilde
Roma Minimum fax, 1999, p.63.
Nella sua storia centenaria il jazz è stato spesso (e può essere anche oggi) musica di comunità, di diversità e di emarginazione sociale. Queste qualificazioni variano nei contenuti con il tempo e con il luogo. La diversità piò essere intesa sia come disuguaglianza razziale, come per gli afroamericani nell'America bianca e razzista, sia come disparità di condizione; ed è il caso quest'ultimo della malattia (o presunta tale).
Il jazz come le pitture rupestri di Altamura, le piramidi egizie, la filosofia greca, il rinascimento fiorentino o la musica classica europea è una dimostrazione delle possibilità creative ed espressive che contraddistinguono l'essere umano. Anche nelle condizioni ambientali e soggettive più sfortunate l'uomo può fare arte. Come musica di esclusi, di sradicati, ha sviluppato un suo peculiare linguaggio, apparentemente semplice, a volte criptato e criptico.
Un'arte così aperta a tutte le diversità è il naturale ricettacolo di personalità musicali fortissime, con vite per altri versi difficili.
I disabili -o diversamente abili- nel jazz non si contano. E tra loro si trovano alcuni dei geni assoluti di questa musica. Per questi si può a ragione parlare di "immensamente abili". Pensiamo ad Art Tatum o Lennie Tristano, ciechi; o Ella Fitzgerald ed Eric Dolphy, diabetici, o a Michel Petrucciani, affetto da numerose infermità fisiche e ucciso poi dall'osteogenesi imperfetta, una rara malattia che non gli ha lasciato scampo.
La connessione più feconda è forse quella tra la mente ed il jazz. Non si contano i musicisti che fino agli anni Cinquanta sono stati curati per i disturbi più disparati a base di elettroshock, per rimanere ai pianisti si pensi a Bud Powell. E' comunque innegabile che ci sia un rapporto fertile tra creatività e uno stato mentale particolare. Gli psichiatri ormai considerano Thelonious Monk come un caso estremamente interessante di creatività in presenza di schizofrenia. Viene accostato nella casistica degli schizofrenici di genio al matematico
John Nash, premio Nobel per l'Economia, la figura su cui è stato costruito il film A beautiful Mind. Ma i casi di persone schizofreniche eccezionalmente dotate nel campo delle Blue Notes sono così numerosi che hanno spinto qualcuno ad andare oltre alla semplice correlazione. Ecco allora il Professor
Dean Spence, inglese, del Dipartimento di Psichiatria dell'università di Sheffield, avanzare la strana teoria per cui la Schizofrenia sarebbe addirittura all'origine di tutto il jazz. L'idea parte dalla vicenda umana di
Buddy Bolden, schizofrenico, mitico suonatore di cornetta di New Orleans, "l'inventore del jazz", che la storia indica come il primo musicista ad effettuare improvvisazioni di stampo prettamente jazzistico. Di lui sappiamo pochissimo, non ci sono incisioni ma solo scarni dati biografici. Il lascito di Buddy è in una foto e nell'emulazione di chi lo ha seguito, come Louis Armstrong. Un nome ed un viso che sono entrati nella leggenda senza passare per la Storia. Bolden venne ricoverato all'ospedale psichiatrico di New Orleans per dementia precox, dove rimase fino alla morte, 24 anni dopo. Qual è dunque la tesi di Spence? "Le funzioni motorie di Bolden non erano perfette. Il cornettista praticamente non era in grado di leggere gli spartiti musicali. Senza la sua malattia, dunque, Buddy non avrebbe mai cominciato ad improvvisare e senza questo cambiamento di stile la musica non avrebbe mai potuto evolversi da ragtime al jazz. Probabilmente era costretto all'improvvisazione poiché non era in grado di suonare normalmente. Non riusciva a leggere lo spartito e in qualche modo doveva arrangiarsi mentre il pezzo procedeva".
Questa teoria è interessante perché mette la schizofrenia al centro della creazione e addirittura vorrebbe farla fonte primigenia di un'arte. Però, non solo Bolden, ma quasi nessun musicista di jazz sapeva leggere uno spartito all'epoca. I neri come Bolden non andavano a scuola per prendere in mano uno strumento, come del resto accade anche per altre musiche di origine popolare. Il jazz poi ha forti ascendenti nelle musiche delle popolazioni africane di origine degli schiavi nero-americani, dove non esiste notazione scritta e da cui deriva l'impianto dell'improvvisazione. Funzioni motorie imperfette? Bolden di professione era barbiere e quindi si presume che coordinasse i movimenti in maniera corretta. Ben venga un recupero della schizofrenia come motore del procedimento creativo, ma forse Bolden, il primo improvvisatore, non subiva la sua condizione ma aveva dentro un mondo nuovo da esprimere. La diversità non lo ha portato a creare attraverso un errore – per Spence è tale l'improvvisazione rispetto alla lettura dello spartito - ma lo ha arricchito di visioni differenti rispetto a quelle dei suoi contemporanei. Seguendo il filo di questo ragionamento, con un balzo temporale colleghiamoci all'oggi e consideriamo un'altra figura di trombettista-compositore, accumunabile a Bolden per il suo rapporto con la schizofrenia: parlo di Tom Harrell. Se Bolden è una figura che appartiene al mito, oggi importante dal punto di vista storico per capire i pregressi dell'improvvisazione, Harrell è una splendida realtà del jazz contemporaneo; un musicista straordinariamente ricco dal punto di vista compositivo. Le sue idee si tengono costantemente lontane dai cliché formali. I temi delle composizioni che Harrell propone sono più variegati di molta produzione attuale. Il critico musicale
Anthony Gallo, di professione psichiatra, ha recentemente riportato entusiastiche recensioni di un concerto di Harrell, e pur essendo mosso anche da un intento, per così dire, professionale di vedere all'opera un musicista schizofrenico, finisce poi –giustamente- per dimenticarsi questo aspetto e per aprirsi al mondo variegato delle sue idee musicali, rilevando come a fronte di una complessità nell'architettura dei brani, il trombettista anche durante le improvvisazioni si sforzi di non fare ricorso a stock licks, le frasi fatte, che quasi tutti gli improvvisatori tengono nel cappello per le emergenze. Harrell ha guadagnato per ben tre anni il titolo di miglior trombettista dalla
Downbeat Magazine, nonostante la schizofrenia paranoidea di cui soffre non gli lasci respiro. Solo prendendo ogni giorno tre tipi di medicine Harrell può tenere lontane le voci e superare la paura del mondo che lo circonda. Un altro psichiatra,
Eric Marcus, che conosce bene i problemi e la biografia personale di Tom, giudica "sorprendente" la capacità di quest'uomo di raggiungere i livelli di creatività di cui è capace. Siamo grati a Tom Harrell per il suo lavoro e a
Buddy Bolden perché dal suo mito è nata una discendenza di musicisti creativi pronti a creare spingendosi "oltre". E' forse lapalissiano, ma la diversità nel mondo biologico è segno di vita. Nell'ambito della creatività artistica va valutata con rispetto ed attenzione.
Franco Bertoglio si è laureato con una tesi sul rapporto tra jazz e politica,
parzialmente edita dall'Editrice Punto Rosso di Bologna ed ho all'attivo
collaborazioni con l'Istituto Storico della Resistenza di Biella e Vercelli per
studi di storia locale contemporanea.