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Intervista a Salvatore Tranchini
di Francesco Ughi
foto di Massimiliano Cerreto

F.U.: Parliamo del tuo ultimo album, Faces. Il brano d'apertura, l'adrenalico Eurostar, è preceduto dalla tua voce che scandisce un "Thank you".
S.T.: Ho fatto questo album anche per ringraziare tutti coloro che mi hanno aiutato ad uscire da una crisi profonda. E quindi sentivo di dover aprire il disco con un ringraziamento, anche perché sono sicuro che senza queste persone io oggi non sarei qui.

F.U.: Come mai in Faces, oltre a Francesco Nastro e Aldo Vigorito, hai deciso di coinvolgere anche Fabrizio Bosso e Daniele Scannapieco, due membri degli High Five?
S.T.: Daniele è quasi cresciuto insieme a me. E avendolo scelto per questo progetto, mi è sembrato naturale coinvolgere anche il suo "gemello". E' una coppia affiatatissima. Sono due fiati che si conoscono alla perfezione, da molto tempo. I leader degli High five sono loro due. E questa scelta mi permetteva di avere un quintetto più compatto.

F.U.: Nell'album è presente una cover di Steve Swallow, "Running", in cui si avvertono delle sonorità caraibiche. Quanto sei legato a quei ritmi?
S.T.: Spesso si parla, in chiave tecnica, di canoni. Quello che io cerco di fare è evitare di rimanere legato a questi canoni, e quindi alla bossa nova, alla salsa, al merengue, e cercare invece, attraverso lo studio, di assorbirli e di farli diventare una parte del proprio processo discorsivo. L'uso delle sonorità latine, cioè, deve avvenire in modo jazzistico, non necessariamente in modo predeterminato.

F.U.: Dopo "Hand down Jazz in Naples" che ti aveva visto affiancare tre mostri sacri della chitarra jazz (Antonio Onorato, Pietro Condorelli, e Aldo Farias), da pochissimo è uscito "Jazz Napoletano" di Antonio Onorato, che vede nuovamente la tua partecipazione. Come ti trovi a lavorare con lui?
S.T.: Ci troviamo bene se convergiamo, come in questo ultimo album, dove ci sono un paio di ballads stupende. Per quel tipo di Antonio Onorato il mio intervento è appropriato, in altri casi lui ha i suoi batteristi. Se ci veniamo incontro, succede qualcosa di unico, ma se ognuno resta sulle sue posizioni, siamo lontani, e tutti e due siamo abbastanza maturi per restare su quelle posizioni.

F.U.: Da ragazzo hai frequentato stages in cui i docenti erano alcuni dei mostri sacri della batteria: Elvin Jones, Peter Erskine, Jimmy Cobb. Secondo il tuo parere, chi è stato il più grande innovatore fra i batteristi?
S.T.: Ce ne sono stati tanti. Ce né qualcuno, però, a cui sono particolarmente legato: Kenny Clarke, ad esempio, ha letteralmente inventato questo strumento. Philly Joe Jones ha insegnato ai batteristi ad improvvisare. Elvin Jones, invece, ha mostrato un'altra dimensione, un'altra strada. Spesso, quando si parla di batteristi e di tecnica, tutti fanno il nome di Vinnie Colaiuta o di Buddy Rich e si ritiene invece che Elvin Jones non fosse provvisto di una grande tecnica. A volte sento fare queste affermazioni da dei musicisti e mi rendo conto che in giro c'è molta ignoranza. Bisognerebbe cercare di capire cosa è la tecnica. Per me la tecnica non è certo esercizio ginnico, altrimenti la musica sarebbe un grande circo, ma è la capacità di fare esattamente quello che si vuole e quello che serve. Alla luce di questo si può comprendere come Elvin Jones rappresenti il massimo della tecnica. La grandezza di Elvin sta anche nell'essersi "sposato" con Coltrane, nell'aver vissuto in simbiosi con lui. Quando ero In America, una volta sentii dire: "Ma è Coltrane che ha fatto grande Elvin o Elvin che ha fatto grande Coltrane?" Può sembrare irriverente ma serve a spiegare come l'unione di queste due energie abbia prodotto il fenomeno Coltrane. Lo stesso percorso di Elvin io lo feci con Jerry Bergonzi, e avrei continuato a farlo se cause di forza maggiore non avessero interrotto quella collaborazione. Sono convinto che quello sia l'unico modo di raggiungere il massimo grado di espressione artistica.

F.U.: Poco più che ventenne, a Milano suonasti con Chet Baker. Che ricordo conservi di quella esperienza?
S.T.: E' impossibile dimenticare quello che ho provato con lui. Considera che ora sto seguendo la strada che lui mi ha mostrato. Cerco di suonare in modo minimale, essenziale, e questo deriva dai suoi insegnamenti. All'epoca mi sforzavo di suonare piano, ancora non lo sapevo fare, e ricordo che talmente era perfetto il suono di Chet, che provavo vergogna di me ad ogni colpo di batteria. Era una musica di un equilibrio così sottile, così rarefatto, che riuscire a trovare gli armonici naturali che ben si potessero sposare con il suono della sua tromba era praticamente impossibile. Ci ho messo vent'anni per capire come andava fatto, ma adesso che l'ho imparato, non mi serve più a nulla perché in Italia nessuno suona più così piano. Purtroppo quasi nessun batterista studia più il suono acustico, nessuno pratica più il piano, il pianissimo. E ritengo che questo sia un problema. Per fare un esempio, insieme a Giorgio Grobbu collaboro con un trio berlinese, e suoniamo una musica molto intimista, ma non riusciamo a organizzare un tour in Italia perché il mercato italiano non è interessato a quelle sonorità. Il mercato italiano chiede a noi musicisti di suonare in modo volgare, arrogante.

F.U.: Nel tuo passato c'è la parentesi con il gruppo operaio "E Zezi". Un'esperienza lontana dal jazz.
S.T.: Entrai negli "E Zezi" per fare un piacere ad un amico. Avevano bisogno di un batterista per un tour in Francia. Pur trattandosi di musica popolare, non era propriamente il mio linguaggio. Infatti non era la musica l'aspetto che mi allettava di più, bensì il progetto politico-culturale, e il loro modo di affrontare il sociale. Mi dispiace di non aver mai registrato nulla insieme a loro.

F.U.: In un'intervista di qualche tempo fa, Roberto Gatto sosteneva che la batteria è un po' la regia della musica. Tu, che fra l'altro con "Canto della possibilità di sopravvivere" hai rivestito il ruolo del regista, concordi con questa affermazione?
S.T.: Sì, è vero, ma vorrei aggiungere qualcosa. La batteria ha una escursione volumetrica non indifferente e questo ovviamente dà molto potere al batterista ma la batteria è anche uno strumento che suona il non determinato. Agli alunni che mi seguono di solito faccio un esempio visivo: immaginate un quadro, la Gioconda ad esempio. Il soggetto, ovviamente è il volto, e rappresenta la melodia e l'armonia. Tutto quello che circonda il soggetto, ovvero lo sfondo, il paesaggio, la profondità è dato dal sistema non temperato, la batteria. La batteria, quindi, crea l'ambientazione, e può tanto schiacciare il soggetto quanto creare spazio, dare profondità e tridimensionalità. E' quindi in grado di aumentare l'espressione di una linea melodica o di cambiarne il significato. Il batterista deve essere in grado di prendere un suono non determinato, che in quanto tale potrebbe essere rumore, tirarne fuori degli armonici, che non saranno mai precisi come quelli di un pianoforte, e farli sposare con gli armonici degli altri strumenti. La musica è fatta di onde sonore. Essendo la tromba, il pianoforte, il contrabbasso strumenti accordati, le loro onde sonore si sposano facilmente. Con la batteria, invece, è molto difficile creare un'onda che non urti, che non entri invadentemente in conflitto con le altre. Questa è la caratteristica che distingue i grandi batteristi: la cura che questi hanno nell'emissione dell'onda sonora, non la schiacciano, non la espandono troppo, ma la controllano, la fanno vibrare in maniera morbida così da farla sposare con gli armonici facilmente percepibili degli altri strumenti. Per concludere, direi che il batterista è il regista più potente, ma non è l'unico regista. Nel jazz tutti gli strumenti sono registi.

F.U.: L'altra sera hai suonato con Enrico Rava. Lo avevi già fatto in passato. Parlaci di questa esperienza.
S.T.: Enrico mi ricorda un pittore impressionista: ti offre dei piccoli segmenti che, visti da vicino, non ti permettono di cogliere l'immagine. Poi, allontanandoti, scopri cosa ha voluto costruire. E questo è molto interessante. Con lui c'è sempre da imparare. Interagire con lui non è facile, di certo non si può suonare per luoghi comuni, lui cerca la reazione da parte degli altri musicisti, lavorando sull'emozione, sulla materia viva e il musicista deve riuscire a percepirlo. Con Enrico non si sa mai da dove si parte e dove si arriva, è veramente estemporaneo.

F.U.: Dirigi un'Accademia di batteria e tieni corsi di musica d'insieme. Oltre a fornire ai tuoi allievi tutti gli strumenti necessari a migliorare tecnicamente, cos'altro cerchi di insegnare loro?
S.T.: Cerco di trasferire loro il senso dell'arte. Se, come insegnante, non riesci a fare questo, allora è meglio che lasci perdere.Ogni volta che un'insegnante accetta un nuovo allievo, dovrebbe responsabilizzarsi e comprendere che il futuro di quel ragazzo dipende anche dal modo in cui affronterà quelle lezioni. Un altro insegnamento che cerco di dare è di non lasciarsi soggiogare dai luoghi comuni, e il peggiore di questi è quello che vuole che il batterista sia a tutti i costi un fenomeno circense.

F.U.: Che musica ascolti?
S.T.: Tutto quello che è bello. Ascolto anche molta musica pop, ma devo differenziare i tipi di musica. In questo sono molto aristotelico: non mi piace la confusione, preferisco avere delle categorie chiare, nette, separate.

F.U.: Parlaci dei tuoi progetti futuri.
S.T.: Spero di realizzare "
Metropoli", che è un'opera che vede coinvolta un'orchestra di 12 elementi. Spero che questo avvenga entro l'estate. E poi voglio realizzare un altro album con questo quintetto.


Salvatore Tranchini
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Data pubblicazione: 18/04/2004

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