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Intervista ad Aldo Farias
"Non chiamatelo jazz mediterraneo"
"Scusate il ritardo", Marcianise (Caserta), 7 maggio 2005
di Claudio Lombardi

Sarà la sua formazione classica, la sua anima blues, sarà l'acqua (…come per il caffé), ma Aldo Farias, nato a Napoli, è uno dei pochi chitarristi jazz in Italia che riesce a tessere con disarmante semplicità melodie tanto raffinate quanto espressive. I suoi gustosi fraseggi, sempre freschi e pieni di intuizioni, creano atmosfere a tratti giocose e a tratti intimiste, alle quali si frappone, sino a fondersi, un impianto armonico straordinario. È davvero un piacere ascoltarlo, anche per chi non è un cultore del genere. Il nostro ultimo incontro risale al maggio scorso, allo "Scusate il ritardo" di Marcianise (Caserta).

C.L.: Aldo, nell'autunno del 2004 ha tenuto una serie di concerti tra Filadelfia e New York. Cosa ti resta del viaggio negli Stati Uniti?
A.F.: È stata un'esperienza intensa, sia sul piano umano sia su quello professionale; un'esperienza difficile persino da riassumere in poche parole. Da "europeo" ho cercato di capire perché gli Stati Uniti rappresentano la nazione più amata e odiata, ammirata e disprezzata, subita e invocata del mondo. E alla fine mi sono convinto che esiste una sostanziale ignoranza rispetto alla storia e la cultura di questo Paese. Un'ignoranza però che non è certo inferiore a quella che gli americani hanno nei nostri confronti.

C.L.: E in ambito squisitamente musicale?
A.F.: Mi rimane l'arricchimento che si ottiene ogni volta che ci si rapporta con musicisti diversi (Sid Simmons, Mike Boone e tanti altri, ndr), ognuno portatore del suo universo artistico.

C.L.: Ti sei sentito un alieno, oppure fra voi si è creato un certo feeling?
A.F.: Gli americani sono strani! Non conoscono mezze misure: o ti accettano o non ti accettano. Se ti accettano, come è accaduto nel mio caso, diventi per loro un fratello e fanno di tutto per non farti sentire uno straniero.

C.L.: Hai notato differenze nel livello tecnico?
A.F.: Assolutamente… ci sono musicisti bravi ovunque e il nostro Paese non fa eccezione. Penso a Francesco Nastro, a Stefano Bollani, a Gianni Basso, a Maurizio Giammarco, a Stefano Di Battista, a Daniele Scannapieco e a molti altri che non hanno nulla da invidiare a nessuno.

C.L.: Non basta quindi nascere in America per diventare degli ottimi jazzisti…
A.F.: (Farias coglie il tono provocatorio della domanda e sorride, ndr) Chi nasce negli Stati Uniti ha solo la fortuna di vivere laddove tutto ha avuto inizio, però poi…

C.L.: …come ti spieghi allora il timore reverenziale che l'Italia del jazz mostra nei confronti dei musicisti statunitensi?
A.F.: È una forma di sudditanza culturale, della quale faremmo bene a liberarci. In Francia quando si organizza un festival più della metà dei nomi in cartellone è francese. Non dico che bisogna diventare nazionalisti, sarebbe auspicabile però un maggiore rispetto nei confronti dei nostri artisti. Ti sembra giusto che in una rassegna italiana un americano semisconosciuto si esibisca di sera e un Enrico Rava o un Pieranunzi lo facciano suonare a mezzogiorno? E sto parlando di musicisti ormai affermati, la cui fama supera i confini nazionali. E i giovani? I tanti, tantissimi strumentisti che aspettano un'occasione per dimostrare il loro valore quanto tempo ancora dovranno rimanere nell'ombra? È la solita storia… l'Italia non ha mai curato i suoi talenti: Mauro Giuliani, tanto per citare un esempio storico, è nato a Bisceglie, in Puglia, ma ha conosciuto altrove il successo.

C.L.: Siamo partiti dall'autunno del 2004, arriviamo alla primavera del 2005: "Four brothers"…
A.F.: Beh, "Four brothers" è il secondo atto di un progetto che abbiamo chiamato Contemporary Jazz Guitars e rappresenta il proseguimento di un lavoro intrapreso con "Hand down jazz in Naples". Unisce tre grandissimi amici che condividono una passione infinita per la chitarra, con tutte le contaminazioni possibili, e per la letteratura che orbita intorno a questo strumento meraviglioso. Nella realizzazione dell'album io, Antonio Onorato e Pietro Condorelli ci siamo avvalsi del solido contributo ritmico di Angelo Farias e di Salvatore Tranchini e della raffinata partecipazione di Franco Cerri.

C.L.: Una battuta su Cerri…
A.F.: Ho apprezzato tutto quello che ha fatto in oltre mezzo secolo di musica. Anche in periodi difficili per il jazz è riuscito sempre a conservare la sua integrità. Trovo che tra i tanti, bravissimi musicisti con cui ho avuto modo di suonare in questi anni Franco sia uno dei pochi, forse l'unico, che abbia una personalità autenticamente europea.

C.L.: Nel cd hai firmato un brano dal titolo "Ortigia"…
A.F.: Sì, è un pezzo che mi riporta al periodo "cool" del jazz. L'ho scelto perché sembrava coerente sia con la concezione melodica di autori come Lennie Tristano e Jimmy Giuffrè sia con l'eleganza che Franco ha impresso a tutto il lavoro.

C.L.: Prima citavi Angelo Farias. Che tipo di legame hai con tuo fratello?
A.F.: Anche musicalmente siamo cresciuti insieme. Abbiamo trascorso un'infanzia a studiare, a provare e a suonare, condividendo praticamente tutto. Lui, oltre ad essere un pregevole esecutore, è un compositore eccezionale… insieme abbiamo scritto moltissime cose ed è sempre stato presente nei lavori che ho realizzato, dai tempi di "Jazz méditerranée" fino a "Murales".

C.L.: A proposito di "Murales", che ne pensi di Alberto D'Anna?
A.F.: Alberto è un eccellente batterista. Ha un approccio più vigoroso, muscolare rispetto ad altri colleghi, ma è un musicista vero. Quando suona è impressionante… non so come spiegarti. È energico… esplosivo! Poi magari si esibisce in posti che non hanno un'acustica decente e il risultato non sempre è percepito dal pubblico. Ciononostante resta un indiscusso talento ritmico, al pari di Roberto Gatto o di Fabrizio Sferra.

C.L.: Aldo, perché la chitarra e non il sax o un altro strumento?
A.F.: Quando eravamo bambini io suonavo il basso con il plettro e Angelo, la chitarra con le mani. Ad un certo punto ci siamo guardati negli occhi e abbiamo capito che dovevamo scambiarci gli strumenti. Oggi lui è il bassista che io avrei voluto essere ed io spero di essere il chitarrista che avrebbe voluto essere lui.

C.L.: Chi ti conosce bene sa che tu sei anche un chitarrista classico di qualità…
A.F.: Non so se sono così bravo… di certo posso dirti che sono stato sempre attratto dalla musica classica, dalla polifonia e da autori, anche contemporanei, definiti "classici". Amo ad esempio Heitor Villa-Lobos, che nella sua carriera ha toccato quasi tutti i generi: dall'opera all'operetta, ai moltissimi brani strumentali. E poi ho avuto la fortuna di vivere in una famiglia dove la musica classica era di casa… mio padre ne era un cultore.

C.L.: Cosa rispondi a coloro che ti definiscono un jazzista "mediterraneo"?
A.F.: Rispondo che fino a dieci anni fa era un appellativo che poteva avere un senso… oggi non lo ha più. Il jazz mediterraneo esiste e basta! È un concetto che dovrebbe essere dato per assunto dalla critica. Io suono jazz… se poi dalla mia musica emerge una sensibilità mediterranea che si traduce in una esaltazione della melodia, a me fa solo piacere, però non vorrei che i miei sentimenti fossero etichettati. Tra l'altro noi italiani non siamo gli unici a contaminare il jazz con elementi etnici. Ho sentito parecchi gruppi in Francia che propongono questo tipo di musica. Influenze etniche si avvertono anche in autori come Richard Galliano e Michel Portal. C'è un chitarrista vietnamita dal nome impronunciabile (Nguyên Lê, ndr) che propone un jazz pieno di accenti orientali e il risultato è spesso sconvolgente.

C.L.: Dove ti vedremo nei prossimi mesi… e a fare cosa?
A.F.: In giro per l'Italia a promuovere "Four brothers". Quando invece non mi vedrete sarò in sala a comporre per il mio nuovo disco, che registrerò in autunno. A novembre poi ritornerò in Francia, ospite di un importantissimo festival dedicato alla chitarra.








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Data pubblicazione: 12/08/2005

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