Non è facile definire la musica di Charles Lloyd, sassofonista sessantasettenne di Memphis che ha vissuto varie stagioni musicali, dal R&B con B.B. King alle collaborazioni con contemporanei del jazz quali Eric Dolphy ed Ornette Coleman, l'esperienza nella band del batterista Chico Hamilton, nel sestetto di Cannonball Adderley, per giungere alla metà degli anni '60 al gruppo a proprio nome che nel tempo ha annoverato jazzisti del calibro di Keith Jarrett e Jack Dejohnette, nonché Cecil Mcbee, fino alla pausa meditativa della fine della stessa decade ed al nuovo debutto con l'indimenticato Michel Petrucciani, pianista che a
Lloyd fu debitore del battesimo internazionale.
Ciò che resta certo è che, ascoltandola, nonostante gli scatti improvvisi, nonostante la mancanza di riferimenti precisi, nonostante la molteplicità dei linguaggi jazzistici di cui egli possiede il pieno controllo e che abbracciano le varie epoche che il jazz ha attraversato, da quella musica scaturisce un senso di pace, di appagamento, di completezza e di tranquillità. E questo conferma le stesse parole di Lloyd quando sostiene d'esser riuscito nella musica e con la musica a trovare una "casa", ossia una propria dimensione e quindi una propria tranquillità interiore.
La performance che lo scorso 5 maggio a Catania, per
EtnaFest 2005, ha offerto quello che potrebbe a buon diritto essere definito il suo "all stars quartet" – Geri Allen al piano, Reuben Rogers al contrabbasso ed Eric Harland alla batteria – comincia con un tema melodico, Angel Oak Revisited, "ripresa" di una sua composizione originale inserita nel precedente cd
Lift Every Voice, qui però subito calata -e traviata- all'interno di un'aura free pennellata e condotta per tutta l'esecuzione dalle ovattate mazze di
Harland e dalle ondivaghe note del piano della Allen. Cadenzata, la batteria fornisce gli schemi, mentre la linea armonica è ancorata agli impulsi del contrabbasso di
Rogers: sembra quasi che tutte le parti
siano sovvertite e che armonia e melodia attengano più agli strumenti ritmici che non alle sezioni a loro tradizionalmente più proprie. Strette le note improvvisative di
Lloyd, scalano le ottave più alte in prevalenza nelle fasi tematiche.
Più levigato e cantabile Jumping the Creek (brano eponimo dell'ultimo album), intesa perfetta fra
Lloyd e Allen, con quest'ultima che negli scambi prosegue le frasi del sax, il quale si presenta morigerato e mai aggressivo: lascia alla compagna di musica il solo, scandito, nitido, in stupenda sintonia con
Harland, fresche e lussureggianti le sue poliritmie –
Lloyd segue la musica cambiando ancia seduto di fianco al piano – mentre discordanze diatoniche e frizzanti progressioni cromatiche impregnano l'improvvisazione della jazzista, sul crescendo foraggiato dai crash del batterista.
Variegato il carattere di Ken Katta Ma Om, che da un avvio pacato, il suono voluttuoso di Lloyd rende dilatato, distante dal timing di Harland, sebbene ancora una volta l'amalgama che ne discende risulti ammaliante. Il fraseggio improvvisato del tenorista è ancora più serrato, con punte di lirismo nei tratti melodici, cerebrale il contrappuntismo di
Rogers, soffuso, invece, e tenutissimo l'assolo della pianista, fino a quando le dita non impennano su scale dalla fiammeggiante articolazione. Vocalistico il monologo del contrabbasso, un certo che di "mingusiano", che
Harland rifodera di un impercettibile felpato hand-drumming di rara profondità.
Pimpante la successiva Canon Perdido, il pezzo che forse più di tutti mette in luce le virtù dei singoli partners e di
Lloyd: sax ironico e dagli accenti post-bop, brillantemente supportato dagli sprizzi dell'onnipresente
Harland ed il walking di Rogers, cui segue una improvvisazione hard bop ad opera del fiatista, che delizia il pubblico. Fuori dall'ordinario la narrazione di Geri Allen, bruciante la sua agilità sia esecutiva che creativa, capace di trovate sempre nuove.
Sfavillante il recitato di contrabbasso che
Lloyd, leggermente defilato ed immobile, quasi una presenza oscura, ascolta compiaciuto. Duo contrabbasso batteria, break di
Harland, prima un lieve rullante, poi schiocchi sui tamburi, charleston ribattente, e una particolare tecnica sulla cassa che sembra pestare due note di differente altezza: energico il suo finale prima dell'ensemble.
Contesto particolarmente lirico quello della ellingtoniana Come Sunday, lenta e pastosa, sulla quale il tenore diviene "setoso", mostrando una volta di più l'ampiezza di sentimenti che il sassofonista riesce a trasmettere al proprio strumento.
Denso e sospirato il suono del nostro adesso al flauto, sul tempo composto intessuto dal trio, affascinante e rauco. Ed anche sul ritmo ternario Harland riesce ad inventare raffinate risoluzioni, così come durante l'improvvisazione della Allen che procede per quinte, con il suo pianismo fantasioso e dal tocco incalzante, sulle spumose ritmiche del batterista. Pubblico che sottolinea il proprio apprezzamento per la combinazione dei due, quasi una simbiosi, pulsazioni all'unisono… In coda ancora il flauto di
Lloyd.
Sfodera quindi il taragato – un particolare clarinetto verniciato di rosso, molto usato nella musica balcanica, con suono simile all'omologo occidentale d'ebano ma più tendente alle sfumature del sax soprano – per esibirsi in duo con i tom e le percussioni di Harland in The Sufi's tears, una parentesi orientaleggiante, quasi pentatonica, in omaggio alle istanze mistiche che qualche anno fa avevano allontanato
Lloyd dalla scena musicale per poi riconsegnarlo, dopo circa due lustri, arricchito di nuove inflessioni e riflessioni sonore. La
Allen risponde all'ultima figura ritmomelodica eseguita dal bandleader e fa partire così la propria costruzione solistica, adamantine sui piatti le "pluridivisioni" di
Harland. Notevoli i cromatismi della composizione modale, caldi, all'interno dei quali si inserisce il contrabbasso, poi il piano, e proprio quando assume un respiro corale,
Lloyd abbandonati i fiati si dà a delle minuscole maracas, scuotendole e scuotendosi fino a ballare a ritmo…
Una soffusa ballad l'ultimo motivo, ineffabile intensità sugli arpeggi sospesi della Allen e contrabbasso e batteria che entrano a definire la corposità del pezzo, traghettandola, sulle proprie pulsazioni, verso spazi creativi lasciati all'istantaneismo dell'estro individuale.
Lloyd ha ripreso il tenore, per esporre una trama dalla struttura tanto elementare quanto pregnante, un turn-around, con pedale del basso tonale, melodico e romantico adesso il periodare della
Allen.
Se è vero che fra i grandi del sassofono altri sono i nomi che giungono più immediati rispetto a quello di Lloyd, pur trattandosi di un compositore eccellente, un leader straordinario, un comunicatore fenomenale, e se è inoltre vero che Lloyd non è in effetti uno strumentista di sconvolgente originalità né un improvvisatore rivoluzionario, tuttavia, egli riesce senza dubbio a conglobare meravigliosamente le varie forme stilistiche fin'oggi concepite, riconducibili a questo favoloso grande dizionario che è la musica di matrice afro-americana: e a nostro modesto avviso, anche questo non è poco.