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Per comprendere il segreto dell'ultimo album di
Martial Solal,
la sua anima e il suo significato, non bisogna cercare troppo lontano. Il suo titolo
ci dice già tanto circa le intenzioni e la poetica che muovono il pianista nella
sua ultima fatica: Longitude, un viaggio
longitudinale tra le due sponde dell'oceano, tra la cultura afroamericana e la tradizione
europea, al fine di trarne una sintesi nella quale l'idioma jazzistico si coniughi
con la cultura musicale del vecchio continente. Musica euro-afro-americana, dove
l'accento non cade su nessuna delle tre componenti, dove non si riesce a distinguere
il nero dal bianco, e in cui la fumosa atmosfera da jazz club cede il passo alla
sobrietà dell'ensenmble cameristico.
Come in molte altre incisioni, la cifra di Solal
è inconfondibile: in bilico tra Art Tatume Olivier Messiaen, il suo pianismo si
serve di una pronuncia apertamente swing, ma di una armonizzazione e di una condotta
melodica che fanno invece pensare alla musica d‘avanguardia. La frenetica sostituzione
di figure ritmiche, i rapidissimi virtuosismi, gli arabeschi e i febbrili contrasti
timbrici testimoniano di una padronanza tecnica giunta a piena maturazione ma, allo
stesso tempo, di un approccio quasi infantile, ludico e radicalmente ironico.
È nel confronto con lo standard che lo stile del pianista si rende
probabilmente più esplicito. In questo album il trio ne esegue tre:
Here's That Rainy Day (di J. Burke e J. Van
Heusen), Tea for two (di I. Caesar e V. Youmans)
e The last time I saw Paris (di J. Kern
e O. Hammerstein). I brani, arcinoti, vengono affrontati con un approccio indiretto,
ironico, mediato dalla consapevolezza di un'incolmabile distanza. Il pianista non
cede all'illusione di un'anacronistica fedeltà storica; tra Solal e quel mondo,
infatti, non si frappone soltanto un intervallo di decenni, ma una parabola evolutiva
quanto mai multilineare che, più che legittimare il presente, sembra rivelarlo in
tutta la sua instabilità. Solal si espone alle intemperie del jazz contemporaneo,
e lo standard, appositamente scelto per la sua funzione canonica, ci viene
riconsegnato in una veste irriconoscibile: esso appare deforme, parodizzato, reinventato
proprio a partire dal suo stato di consunzione. Il senso della distanza, forse il
vero Leitmotiv di Longitude, si esprime in un linguaggio consapevole
della propria materialità, in un pianismo ricco di citazioni e di caricature, di
ambiguità e di gesti stranianti.
Il «problema» di un confronto con il passato tuttavia non emerge soltanto
dagli standard brillantemente eseguiti dal trio; si potrebbe piuttosto dire
che è proprio lo stile che Solal ha sviluppato nei decenni a rappresentare l'esito
di un'erosione del linguaggio più tradizionalmente swing. Negli original,
sicuramente più arditi sul piano compositivo, si esprime la medesima cifra stilistica,
lo stesso gusto per il pastiche, che caratterizza l'approccio ai classici.
È il caso di Short cuts, di
Monostome, di Navigation:
brani sospesi, pieni di accelerazioni e rallentamenti, che il trio esplora in un
susseguirsi di digressioni senza meta.
Azzardando un'interpretazione dello stile, si potrebbe forse dire che,
in Solal, la coscienza della natura materiale e storica delle forme codificate rende
problematica la possibilità stessa dell'«espressione». Il processo di formalizzazione
e saturazione dell'idioma jazzistico travolge il soggetto estetico lasciandolo in
balìa dei mezzi che ha a disposizione. La convenzione, in questo modo, più che fornire
una base grammaticale al linguaggio, si indurisce fino a soffocare ogni possibile
comunicazione empatica con l'ascoltatore. Non per questo, però, l'inventiva del
pianista si lascia imprigionare: essa trova rifugio nel gioco, nella estremizzazione
ironica del cliché. Gli stilemi più usurati della tradizione si riabilitano
in un'esaltazione barocca dell'ornamento, in un manierismo schizofrenico che viene
portato alla sua negazione parossistica. Al tempo stesso la citazione, svuotata
definitivamente di ogni funzione celebrativa, contribuisce ad esasperare un senso
di oppressione e di impotenza espressiva che conduce all'isteria.
Rispetto ad altre recenti incisioni del pianista ottantenne, questa sembra
essere forse la più matura e la più consapevole. Le idee che Solal aveva già esposto
in Solitude (sempre inciso per CamJazz nel 2007)
trovano, nella formula del trio, una più coerente sistemazione. L'accordo con i
fratelli Moutin è sorprendente. Di nessuno dei due si può dire che svolga una funzione
di semplice accompagnamento. Sembra piuttosto che la musica di questo album sia
il felice connubio di tre differenti solismi, autonomi e simultanei, coordinati
in una faticosissima ma perfetta comunione d'intenti. Nemmeno il
Live at Village Vanguard (con F. Moutin
e B. Stewart, 2001) o il bellissimo Just
Friends (con G. Peacock e P. Motian, 1997)
sembrano eguagliare la qualità di questo torrenziale fluire di idee e invenzioni
che è Longitude.
Giuseppe Rubinetti per Jazzitalia
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Data pubblicazione: 06/04/2009
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