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 1.1 Il termine jazz-movie  
Intorno agli anni ottanta 
un nuovo termine viene coniato: il jazz-movie, il jazz-film lo chiameremo 
noi, un qualcosa che non è un genere specifico, ma un fenomeno trasversale alla 
produzione audiovisiva dove la musica afro-americana, di cui il jazz è la massima 
espressione, mischiandosi in varie forme alle immagini in movimento del cinema creerà 
questo fenomeno.
Ci sono delle sorprendenti analogie che legano la storia della musica 
jazz e del cinema, anche se i punti di contatto sono stati spesso episodici o casuali. 
Sono due grandi fenomeni che in meno di cento anni hanno compiuto sul piano evolutivo 
un'accelerazione che non ha paragoni con le altre discipline, il cui cammino è apprezzabile 
su istanze molto più lunghe, stimate a secoli se non a millenni. Se il jazz ha percorso 
quanto la musica classica ha fatto in cinque secoli, il cinema ha addirittura percorso 
quasi mille anni di storia della pittura coniugandosi spesso al teatro e alla letteratura. 
Entrambe le arti nascono dalla sintesi di modelli diversi con i loro svariati codici 
espressivi, definendosi anche come arti collettive. Hanno saputo conciliare le pratiche 
basse con quelle alle della cultura, l'animo popolare, la crescita avanguardista, 
l'aspetto mediologico e sono stati influenzati e in parte hanno influenzato le principali 
svolte epocali di tutto il XX secolo. 
 Quando 
il "diabolico marchingegno" inventato dagli ormai famosi fratelli Lumière aveva 
già incominciato a creare i primi lungometraggi, in una vasta zona che ha il suo 
centro nella valle del basso Mississippi e il suo punto focale a New Orleans, nasce 
un nuovo tipo di musica, un incrocio tra ragtime, blues e fanfare europee che in 
seguito sarà chiamato jazz. E proprio con queste due nuove forme di espressione 
artistiche, Cinema e Jazz, che il Nuovo Continente riuscirà ad esprimere qualcosa 
di autonomo e originale rispetto all'ancora perdurante dominio culturale europeo: 
una propria identità culturale dopo quella già raggiunta, politica ed economica. 
E chissà forse non è solo un caso che il debutto del jazz sul grande schermo -anche 
se non legato a caratteristiche musicali precise- costituisce una pietra miliare 
nello sviluppo della cinematografia. Il 6 ottobre 
1927 a New York, viene 
proiettato in anteprima assoluta 
The Jazz Singer (Il cantante di jazz) 
di Alan Crosland (New 
York, 10 ago1894 - Hollywood, 16 lug 1936), 
che è il primo film sonoro della storia del cinema.
 La 
pellicola ha una trama del tutto convenzionale riscattata in parte dal protagonista, 
il cantante bianco Al Jolson, ultimo dei grandi minstrels,[1] 
che col jazz ebbe molto poco a che fare e tanto meno in questo film. La pellicola, 
in realtà cantata e non ancora parlata - i dialoghi, infatti, apparivano ancora 
sotto forma di didascalia come nel poco precedente cinema muto - ripropone la vecchia 
parodia divertente e canzonatoria del jazzista nero, in un momento in cui per il 
perbenismo americano, 
 il 
jazz della gente di colore è ancora una musica proibita ed immorale. Il film ebbe 
un tale successo di botteghino da salvare la Warner Bros dalla bancarotta e da imporre 
all'industria cinematografica il sistema vitaphone, vale a dire il sonoro 
inciso su disco. 
Notiamo come già nel primo matrimonio tra jazz e cinema è la condizione 
culturale del nero americano ad uscirne perdente e adulterata. Un finto folclorismo 
nero, sarà il risultato della tendenza al compromesso e alla spettacolarizzazione 
che domina da sempre Hollywood e le sue iniziative. 
1.2. Dagli anni Venti agli anni 
Quaranta. 
Nel 1917 Il jazz 
appare sullo schermo del cinema, ancora muto, con il film 
The Good-for-Nothing
di Carlyle Blackwell 
(New York, 20 gen 1884 - Miami, 17 
giu 1955) in cui una breve 
apparizione dell'Original Dixieland Jass Band dà il via, in qualche modo, 
a questo fenomeno del jazz-movie. 
 Il
1927, come abbiamo più 
su accennato, il film The Jazz Singer segna il debutto del sonoro e del jazz 
sul grande schermo. Ma è anche l'anno di un altro film 
Charleston di 
Jean Renoir (Montmartre, 
Parigi, Francia, 15 set 1894 - Beverly Hills, Hollywood, California, 12 feb 1979),
 un 
mediometraggio sperimentale ancora muto, che manifesta però l'inizio di quei rapporti 
tra la filmografia d'autore, la musica afro-americana e il rapporto delle avanguardie 
europee e i miti americani. 
Il 1929 è 
invece quello di un altro inizio, quello degli all negroes movies, sottogenere 
cinematografico che insieme ai race records 
[2]
nella distribuzione discografica, ha creato prodotti destinati ad un 
pubblico quasi esclusivamente nero. A parte pochi casi, tra questi 
Halleluja! (Alleluja) 
di  King Vidor 
(Galveston, Texas, 8 feb 1894 - Paso 
Robles, California, 1 nov 1982),
1929, un resoconto forte 
e disperato sugli spirituals a metà tra il documentario e la narrazione, 
interpretato interamente da attori di colore, 
Verdi pascoli di
William Keighley (Philadelphia, 
Pennsylvania, 4 ago 1889 - New York, 24 giu 1984) 
e Mark Connely (McKeesport, 
Pensilvania, 1890 - New York 1980), 
del 
1935 o 
Stormy Weather di Andrew L. Stone
(Oakland, California, 16 lug 
1902 - 9 giu 1999) del 
1943 e in particolare
Cabin in the Sky 
(Due cuori in cielo) di Vincente Minnelli 
(Chicago, Illinois, 28 feb 1903 - 
Beverly Hills, California, 25 lug 1986)
del 
1943, un musical 
sull'aspetto folk della chiesa nera con l'importante partecipazione di jazzisti 
famosi, il resto di questo nuovo sottogenere si presenta di livello piuttosto mediocre. 
Assieme al già citato Alleluia, quest'ultimo film -esordio alla regia di 
Minnelli- sarà l'omaggio più serio e tenero che il cinema dei bianchi aveva fatto 
fino ad allora al mondo dei neri. 
  
 Del
1930 è 
The King of jazz (Il 
re del jazz) di John Murray Anderson 
(St. John's, Newfoundland, Canada, 
20 set 1886 - New York, 30 gen 1954), 
uno dei primi technicolor hollywoodiani interpretato dal compositore 
 Paul 
Witheman (Denver, 28 mar 
1890 - Doylestown, 29 dic 1967) 
e dalla sua orchestra. I veri momenti 
jazzistici sono brevissimi mentre tutto il resto è composto da una serie di balletti,
gags e trovate completamente estranei al jazz. Ecco nascere allora quella 
confusione tra il vero jazz e tutto quello che si definisce tale, che si è protratta 
nel tempo e che ancora oggi stenta a scomparire. 
Non dobbiamo dimenticare che il cinema sonoro su larga scala inizia nel
1929 e coincide con 
la crisi economica che, negli anni a seguire, vedrà la maggior parte dei locali 
chiudere. Di conseguenza molti musicisti si ritroveranno costretti a cambiare mestiere; 
molti artisti di colore in quegli anni lavorano nel circuito TOBA, 
[3] 
ma con la crisi, questi teatri dovettero rinunciare a presentare attori, cantanti 
e musicisti in carne e ossa, creando un altissimo livello di disoccupazione. Nel
1929 i teatri erano 
ancora 80, nel 1932 
quasi tutti erano stati trasformati in cinematografi. Il cinema però non occupava 
tutta l'offerta e nella scelta dei suoi protagonisti, selezionava naturalmente gli 
artisti bianchi. 
Il genere forte della cinematografia degli anni tra il Trenta e il Quaranta 
è rappresentato dal musical. Il musical è un genere cinematografico 
tipicamente americano, di derivazione teatrale, nasce dallo spettacolo, di cui fonde 
vari generi e sottogeneri (vaudeville, burlesque, farsa, comico, musica, 
danza e commedia). E' l'espressione di una poetica di evasione, che si sviluppa 
nell'idea del sogno americano.[4] 
Ed è qui che in varie forme il jazz riesce ad esprimersi al meglio. Sono gli anni 
dello swing e lo swing non è altro che jazz, il cui ritmo è stato 
reso più fluido, più disinvolto e flessibile, più ballabile. Nella maggior parte 
dei casi, in realtà dopo il crollo di Wall Street, Roosevelt era riuscito 
a risanare un'America che ora si sentiva forte giovane ed ottimista. Cosa, meglio 
di un cinema e di una musica scacciapensieri, può raccontare il desiderio di divertirsi 
e allontanare i dolorosi anni trascorsi? Ma a parte qualche eccezione, il jazz presente 
sullo schermo è quasi sempre bianco, affettato e commerciale. 
Benché gli anni Venti fossero stati definiti gli anni del jazz, di questo 
periodo la letteratura e il cinema non diedero quasi mai un'immagine appropriata. 
Il vero jazz si suonava nei quartieri bassi di Harlem e Chicago e bisogna 
sottolineare che le vere radici del jazz-movie di quel periodo, le troviamo in una 
serie di corto e mediometraggi. Infatti, se il jazz-film in lungometraggio è in 
un certo senso un fenomeno quantitativamente esiguo, è vero anche che la maggior 
parte dei contributi cinematografici al jazz, arrivano da questi piccoli girati. 
La funzione dei corto degli anni Trenta-Quaranta era quella di intervallare come 
riempitivo, i programmi delle sale cinematografiche tra un lungometraggio e un notiziario. 
Consistevano in una serie di brevi interventi di solisti, orchestre o cantanti di 
successo, ripresi in studio, durante la performance.
 Talvolta 
ai musicisti si sovrapponevano attori o ballerini, con tanto di scenografia per 
creare una sorta di drammatizzazione aiutando un pezzo particolarmente coinvolgente 
dal punto di vista del contenuto. Le modeste sceneggiature erano spesso riscattate 
sul piano dello spettacolo e della regia. Ne vanno ricordati in particolare tre 
-tutti usciti nello stesso anno, il 
1929- 
 come 
modelli esemplari nell'integrare le immagini alla musica e viceversa. Si fanno ancora 
oggi apprezzare sia per l'innesto di soluzioni avanguardistiche -considerando che 
escono subito dopo la nascita del sonoro- sia per come è riconsiderato lo stereotipo 
razziale, sia come documento di artisti famosi. Il primo di questi è 
St. Louis Blues 
di Dudley Murphy (Winchester, 
Massachusetts, 10 lug 1897 - Mexico City, Mexico, 22 feb 1968) 
con l'unica apparizione sul grande schermo di Bessie Smith 
(Chattanooga, Tennessee, 15 apr 1894 
– Memphis, Clarksdale, 26 set 1937) 
e il gruppo di James P. Johnson 
(New Brunswick, N.J., 1 feb 1894 - 
New York, 17 nov 1955), l'altro 
è Black and tan fantasy
sempre di Dudley Murphy e sempre del 
1929, con l'orchestra di
Duke Ellington (Edward 
Kennedy "Duke" Ellington, Washington, D.C., 29 apr 1899 - 24 mag 1974) 
che rispetto al jazz-film precedente esternerà una maggiore libertà artistica. E 
infine Yamecraw di
Murray Roth
 (New 
York, 12 nov 1893 - Hollywood, California, 17 feb 1938),
molto antinaturalista ed espressionistico dal punto di vista del montaggio, 
delle luci, del posizionamento della m.d.p. e della scenografia, facendoci avvertire 
gli echi di quell'astrattismo europeo così vivo in quel momento. 
Va inoltre menzionato 
Symphony in Black, di
Fred Waller (Brooklyn, 
New York, 1886 - Huntington, Long Island, 18 mag 1954), 
del 1933 dove anche 
qui in un raffinato bianco e nero, si esibisce ancora una volta l'orchestra di
Duke Ellington. 
Una nota di Franco Fayenz, noto e stimabile critico musicale, tratta 
dal suo libro Il nuovo jazz degli anni quaranta del 
1982 dice così: 
«Sul 
piano storico, merita di essere ricordata la partecipazione di Lester 
[Young] alle riprese 
e alla colonna sonora di "Jamming' 
The Blues", un cortometraggio prodotto e supervisionato nel 
1944 da Norman Granz 
e realizzato da Gjon Milj, un fotografo del settimanale Life. I rapporti 
tra il jazz e il cinema non sono stati finora molto felici,
 sotto 
il profilo qualitativo, pur avendo, le due arti, tutte le carte in regola per fraternizzare. 
Fra i primi esempi di riuscita del jazz all'immagine filmica è appunto questo cortometraggio, 
impostato su un'alternanza, abile fino al virtuosismo, di fondali bianchi e neri 
e di ombre e di luci, che assieme alla musica, è capace di una profonda suggestione…».
[5] 
Sarà infatti il 1944
che metterà alla luce questo primo capolavoro jazz-filmico 
Jammin' the blues
di Gjon Mili (Korçë, 
Albania, 1904 - USA, 1984)
 prodotto dal grande 
discografico Norman Granz 
(Los Angeles, CA 6 ago 1918 - Geneva, 
Switzerland 22 nov 2001), un 
prototipo di reportage precursore e dell'attuale videoclip, che metterà in scena 
i grandi rappresentanti del jazz, nell'attimo vero del loro sforzo creativo. Nel 
film appaiono il tenor-sassofonista Lester Young 
(Woodville, Mississippi, 27 agosto 
1909 - New York, 15 marzo 1959) 
e i grandi musicisti della Jazz 
At The Philarmonic. Questo corto vanta il maggior numero di recensioni entusiastiche 
e il primato della critica di jazz-film del secolo. Nonostante all'inizio del film 
la voce over annunci che sta per cominciare una jam-session, quella sorta 
d'improvvisazione collettiva che vede riuniti un gruppo di jazzman in un 
atto creativo, questo film, dal punto di vista figurativo è lontanissimo dal concetto 
di improvvisazione estemporanea. C'è dietro un'elaboratissima costruzione dell'immagine 
in rapporto alla spontaneità del suono. L'altra protagonista, oltre alla musica 
è la fotografia che con il suo bianco e nero rigorosissimo, offre poche sfumature 
intermedie ma lavora con perfezione sui netti chiaroscuri. L'aspetto inoltre interessante 
è l'occhio del regista sulla negritudine. Con grande intelligenza evita i luoghi 
comuni di quella teatralità greve e di quel f olclorismo 
falso che all'epoca accentuava spesso un'idea razzista della realtà del mondo dei 
neri. Non dimentichiamo che siamo in un momento che vedrà esplodere a breve il concetto 
di jazz come arte. Siamo alle porte di quella rivoluzione che cambiando i connotati 
folclorico-popolari alla musica afro-americana, ne segnerà definitivamente il destino 
convertendola in arte. 
Ma torniamo ai lungometraggi. Saranno molti in questi anni i musicisti 
-in realtà la maggior parte bianchi- che nella loro veste parteciperanno ai film 
o ne doppieranno comunque gli attori allo strumento. Uno di questi è New Orleans 
(La città del jazz) di Artur Lubin 
(Los Angeles, California, 25 lug 1898 
- Glendale, California, 12 mag 1995) 
del 1946 con
Louis Armstrong,
Billie Holiday e Woody Herman. Questo film, se da un lato appare debole 
e pecca di faciloneria e schematismo, con grandi ipocrisie sul piano della credibilità 
sulle vicende dei due protagonisti, dall'altro è una pellicola importantissima nell'iter 
evolutivo del jazz-film. Innanzi tutto perché fino allora nessuno aveva raccontato 
attraverso il cinema la storia del jazz. Infatti, in seguito sull'argomento non 
vi si è più cimentato alcuno, si è preferito descrivere periodi limitati o i singoli 
protagonisti. Inoltre perché se per metà questo film sceglie la vicenda convenzionale 
con i pro e soprattutto i contro che in questa convergono, dall'altra utilizza
 i 
veri protagonisti del jazz, gli artisti che hanno vissuto in parte o completamente 
le storie raccontate. L'idea importante sta proprio in questa scelta di usare le 
jazz-star a metà strada tra i testimonial di sé stessi e le figure che 
recitano un copione da attori, superando con i canoni della fiction quell'idea di 
testimonianza documentaria che normalmente si ha quando si viene ripresi in veste 
di sé stessi. 
Un altro film che va menzionato di questi anni è 
A Song is Born (Venere 
e il professore) di Howard Hawks 
(Goshen, Indiana, 30 mag 1896 - Palm 
Springs, California, 26 dic 1977) 
del 1946 che anche in 
Italia ebbe un notevole successo. Il film nel suo corpus presenta numerose 
stelle del mondo del jazz come
Louis Armstrong,
Benny Goodman, Tommy Dorsey,
Lionel 
Hampton, Charlie Barnet, Mel Powell, Golden Gate Quartet
e tanti altri che nel ruolo di sé stessi recitano cavandosela ottimamente. La 
pellicola è un remake di un film dello stesso regista, che l'aveva girato 
quattro anni prima con il titolo Ball of Fire (Colpo di fulmine,
1942) e che annoverava 
tra le sue stelle solo Gene Krupa e la sua orchestra. E' un'accattivante
sophisticated comedy di cui Hawks è uno specialista, dove raffinati intrecci 
comici interagiscono con una trama di tipo giallo-rosa. E' una storia d'amore, di 
gangster e di un polveroso mondo accademico di cui sette studiosi del linguaggio 
musicale ne sono i protagonisti. Il jazz nel film diventa simbolo di gran vitalità. 
Attraverso i dischi per l'enciclopedia che nel film deve chiarire le origini e la 
sonorità di questa "strana" musica partirà la registrazione di una schematica storia 
del jazz per concludersi in un'apoteosi di jam-session finale. I musicisti 
porteranno nel luogo per antonomasia conservativo e tradizionalista, insieme allo
swing e all'intera tradizione afro-americana, anche libertà di pensiero e 
d'azione contagiando positivamente gli altri personaggi. Inoltre questo film è importante 
nell'iter evolutivo del jazz-film perché inserisce l'argomento musica nella doppia 
struttura di genere, commedia e gangsterismo già molto ben collaudata dall'industria 
culturale americana. 
 In 
generale gli anni Quaranta furono sicuramente molto prolifici per il jazz nel cinema 
hollywoodiano ma ancora lo vivranno come elemento di contorno o al massimo di ambientazione. 
Inoltre non bisogna perdere di vista che il jazz utilizzato nel il cinema è ancora 
molto diverso da quello che si sente nei locali dove si esibiscono quegli artisti 
che contemporaneamente stanno attuando una rivoluzione sia musicale che di costume.[6] 
Ma intanto nel 1947, 
nel panorama hollywoodiano, accade un fatto nuovo: uscirà un film 
The Fabulous Dorseys diretto 
da Alfred E. Green (Perris, 
California, 11 lug 1889 - Hollywood, California, 4 set 1960), 
una biografia -chiaramente romanzata- di due famosi musicisti i fratelli Tommy
(Shenandoah, Pennsylvania, 
19 novembre 1905 - Greenwich Connecticut, 26 novembre 1956) 
e Jimmy Dorsey 
(Shenandoah, Pennsylvania, 29 febbraio 
1904 - 12 giugno 1957) che 
furono gli unici musicisti a interpretare come protagonisti sé stessi. Tra i musicisti 
del film c'erano anche il grande pianista Art Tatum e il sassofonista 
Charlie Barnet. Come vedremo poi, negli anni Cinquanta sulla scia di questa 
biografia, molti film s'ispirarono alla vita di musicisti celebri anche se ad interpretare 
il ruolo del protagonista erano quasi sempre chiamati
 grandi 
attori e non musicisti che interpretavano sé stessi come era accaduto nel caso dei
Favolosi fratelli Dorsey. 
Un altro mezzo di diffusione del jazz attraverso il cinema è quello dei
cartoons. Negli anni Trenta e Quaranta questo genere di animazione americano 
vive la stagione più fertile della sua lunga storia, con i cortometraggi della Disney 
Productions, della MGM, della Universal e della Warner. Tra i piccoli film d'animazione 
di quel periodo, definiti tra l'altro jazz-toons o negroes-toons, 
ricordiamo Minnie the moocher 
di Dave Fleischer (New 
York, 14 lug 1894 - Woodland Hills, California, 25 giu 1979),
1932, dall'omonima canzone 
di Cab Calloway (Rochester, 
New York, 25 dic 1907 - Hockessin, Delaware, 18 nov 1994) 
con l'ormai conosciutissimo personaggio di Betty Boop o quelli con gli sfrenati 
personaggi zooformi impegnati nella parodia di Jazzmen neri come 
I love to singa di Tex 
Avery (Taylor, Texas, 26 
feb 1908 - Burbank, California, 26 ago 1980) 
del 1936, 
Clean pastures di Friz 
Freleng (Kansas City, Missouri, 
21 ago 1905 - Los Angeles, California, 26 mag 1995) 
del 1937, 
Scrub me mama with a boogie beat
di Walter Lantz 
(New Rochelle, New York, 27 apr 1899 - Burbank, California, 22 March 1994) 
del 1941 e 
Coal Black and de Sebben Dwarfs 
di Robert Clampett (San 
Diego, California, 8 mag 1913 - Detroit, Michigan, 4 mag 1984) 
del 1942. 
 
1.3. Gli anni Cinquanta. 
E' finalmente in questi anni, che si può parlare di jazz-film come prodotto 
hollywoodiano dove il jazz diventa l'elemento essenziale per costruire nuove storie 
per il grande schermo. Il jazz, grazie al grande lavoro dei suoi artisti, non è 
più una forma di espressione di serie "z", ma è entrato a pieno diritto nel mondo 
delle arti. Nonostante questo le pellicole sull'argomento che riescono a non essere 
ipocrite, ridondanti o smielate, sono poche. Scontate happy-end, cronache 
romanzate e ricostruzioni mistificanti prevalgono quasi sempre sulle problematiche 
di tipo artistico, razziale, estetico e sociale. Quello che bisogna sottolineare, 
infatti, è che l'interesse di Hollywood per la musica nera è quasi esclusivamente 
di tipo commerciale: il jazz vende dischi ed è entrato a far parte della cultura 
popolare e americana e Hollywood non può lasciarsi sfuggire un fenomeno così fortemente 
generalizzato, allora lo fa suo, ma in maniera spesso stravolta, leggera e banale. 
Infatti non è il jazz in quanto tale che interessa l'industria cinematografica ma 
un qualcosa che sia il più possibile in armonia con le immagini e il gusto di produttori, 
registi e grande pubblico. 
 Le 
cose sembrano un po' cambiare verso la seconda metà degli anni Cinquanta, quando 
l'attenzione degli intellettuali americani, sembra spostarsi verso un jazz più moderno 
più in accordo con i temi politici e sociali del momento, anche se ancora sono privilegiati 
i musicisti bianchi a quelli neri. 
Un posto particolare in questo senso spetta sicuramente a Otto Preminger
(Vienna, 5 December 1906 
- New York, 23 apr 1986)  che 
realizzato dei film in cui ha inserito il jazz sia come tematica che come score 
con delle splendide colonne sonore, cosa rara anche per la nascente Hollywood progressista. 
Tra i suoi film ricordiamo L'uomo 
dal braccio d'oro (1956) e 
il noto Anatomia di un omicidio
(1959), un film giallo dove la musica diventa 
estensione della personalità del protagonista e con una colonna sonora originale 
firmata da 
 Duke 
Ellington in un equilibrato connubio tra jazz e cinema. Otto Preminger
è anche ritenuto l'inventore del jazz-film opera, un incrocio tra il cinema, 
il melodramma e le tradizioni afro-americane.  
E' in questo periodo che si sviluppano le biopic, le biografie 
che tendono a raccontare e a rendere in qualche modo, epici i grandi personaggi 
del balletto, della musica classica, dell'opera e anche del jazz, ora che è entrato 
a pieno titolo, come abbiamo gia detto, nella vita degli americani. 
Ma a parte un paio di film diretti da cineasti di prim'ordine come
Young Man with a Horn
(Chimere) di Michael Curtiz 
(Budapest, Hungary, 24 December 1886 
- Hollywood, California, 10 apr 1962)
nel  
1950, ispirato alla vita 
del jazzista bianco 
 Bix 
Beiderbecke (Davenport, 
10 marzo 1903 - 6 agosto 1931), 
dove Kirk Douglas (Amsterdam, 
New York, 9 dic 1916)
ne ricorda la mitica figura, 
oppure The Glenn Miller Story
(La storia di Glenn Miller) di Anthony Mann 
(San Diego, California, 30 giu 1906 
- Berlin, Germany, 29 apr 1967).
del 1954 sulla vita 
e la band del grande leader, interpretato da James Stewart 
(Indiana, Pennsylvania, 20 mag1908 
- Los Angeles, California, 2 lug 1997) 
le altre biopic non presentano, 
a parte qualche momento degno di attenzione, niente di particolarmente interessante 
dal punto di vista artistico. Vanno comunque ricordati, oltre al già citato I 
favolosi Dorsey (A.W. Green, 
1947), 
 The 
Five Pennies (I cinque penny) di Melville Shavelson
(New York, 1 apr 1917)
del 
1959, che racconta la non facile vita del trombettista Red Nicholson. 
E' interessante notare come l'industria hollywoodiana tenda in generale a mistificare 
la realtà dandone una visione spesso distorta. Questo film ne da un piccolo assaggio: 
siamo, infatti, nel 1924 
in un locale dove sta suonando il più grande trombettista e showman nero 
di quel momento, 
Louis Armstrong. 
Il protagonista ubriaco decide ad un certo punto della serata di alzarsi dal suo 
tavolo per esibirsi con la sua cornetta al fianco dell'artista. In una panoramica 
del locale, notiamo che tra il pubblico sono sedute due eleganti signore nere -due 
comparse naturalmente- che danno l'idea allo spettatore di una normale promiscuità 
tra la gente bianca e quella nera.
 In 
realtà in quegli anni, era assolutamente vietato per la gente di colore entrare 
in svariati ambienti frequentati dai bianchi, e soprattutto nei luoghi d'intrattenimento 
come i locali, figuriamoci a sorseggiare qualcosa e a godere della vista di un
jazzman, che si esibisce in un locale alla moda.[7] 
Ricordiamo inoltre Pete Kelly's 
Blues (Tempo di furore) di Jack Webb 
(Santa Monica, California, 2 apr 1920 
- West Hollywood, California, 23 dic 1982)
del 
1955 possibile biografia di uno degli innumerevoli capo orchestra nella 
Chicago degli anni Venti, The Benny 
Goodman Story (Il re del jazz) di Valentine Davies
(New York, 25 August 1905 
- Malibu, California, 23 lug 1961),
1955,
 La 
donna del gangster (The Strip) di Leslie "László" Kardos
(Budapest, Hungary, 8 ott 
1905 - Los Angeles, California, 
11 apr 1962), 
1951, pellicola importante 
in quanto sarà la prima ad inscenare una biografia immaginaria e che vede tra gli 
interpreti i musicisti
Louis Armstrong,
Jack Teagarden, Earl Hines, Barney Bigard e Cozy Cole 
e The Gene Krupa Story
(Ritmo infernale) di Don Weis 
(Milwaukee, Wisconsin, 13 mag 1922 
- Santa Fe, New Mexico, 25 lug 2000),
1959. In quest'ultimo film, come ne Il re 
del jazz, gli attori protagonisti sono stati scelti fra quelli che potevano 
avere una maggiore somiglianza con Gene Krupa e Benny Goodman, cui 
erano ispirati e allo stesso tempo i due jazzisti doppiavano i loro personaggi allo 
strumento. 
 Un'eccezione 
a quest'elenco è rappresentata da Saint Louis Blues (Allen Reisner,
1958) dove il protagonista è finalmente un jazzman 
nero. Ed è un'eccezione, in quanto, la cultura nera in questi anni vive una posizione 
ancora troppo subalterna, da un punto di vista sia politico sia sociale, per diventare 
protagonista della scena hollywoodiana. Dovremo, infatti, aspettare gli anni recenti 
per poter vedere film che raccontano la vita dei grandi artisti neri in tutta la 
loro grandezza, una grandezza devastata quotidianamente dalla consapevolezza di 
essere considerati, a livello sociale meno di niente, e da quello che ne poteva 
derivare da un punto di vista psicologico. 
Fino a questo momento, infatti, la Hollywood che aveva parlato dei neri, 
era quella di cui abbiamo già accennato, quella degli all negros movies, 
un sottogenere di livello assolutamente mediocre per un pubblico esclusivamente 
nero. 
  
Gli anni Cinquanta sono anche gli anni in cui il jazz si trasforma dal
bebop al free jazz, trasformazione che segna un altro passaggio decisivo 
sia da un punto di vista artistico che sociale, ma Hollywood sembrava non interessarsene. 
Gli anni Cinquanta furono l'anticamera della protesta, della rivolta giovanile, 
della violenza e questa musica rappresentava tutto ciò, ma Hollywood sembrava coglierla 
solo nei suoi aspetti più superficiali tentando di purificare tutto quello che di 
male ne poteva derivare dal suo punto di vista e trasformandola sui suoi schermi 
come qualcosa di divertente, spensierato e lontano da quel dolore che irrompeva 
nei ghetti di quell'altra America, l'America della cultura sottomessa. 
Il jazzista bianco no, non gode della stessa considerazione del suo collega 
nero. Il jazzista bianco riceverà gli onori di portare sul grande schermo quanto 
di più semplice e gradevole può offrire la cultura americana di quegli anni. 
1.4. Gli anni Sessanta. 
Nel mondo intellettuale, già alla fine degli anni Cinquanta, la musica afro-americana 
acquista la piena credibilità e per la prima volta nella storia del cinema, il jazz 
come colonna sonora di film non musicali va a sostituire le consuete partiture d'impronta 
tardo romantica e classicheggiante, tanto che molti jazzman e big band 
leaders si convertiranno alla musica da film con varie tipologie d'approccio 
al soundtrack cinematografico. 
E' in questi anni che nascerà la tendenza di utilizzare il jazz come elemento 
musicale attivo creando così una stretta collaborazione fra regista e jazzman
impegnati a costruire un'immagine audiovisiva nella doppia componente acustica 
e figurativa. Tendenza che nasce con gli indipendenti e l'undergroud americano 
e con la nouvelle vague francese e le avanguardie europee in genere. 
Come il musicista jazz reclama l'improvvisazione così il regista di questa nuova 
tendenza rifiuta la poesia controllata dall'organizzazione industriale. I giovani 
registi francesi sono attratti sia dalla libertà e dall'anticonformismo degli sviluppi 
del jazz, sia dei solisti locali e soprattutto di quelli d'oltreoceano. Molti di 
questi ultimi, infatti, in particolare i neri, sceglieranno di stabilirsi in Europa 
in quanto questa terra così diversa dalla loro li accoglierà come portatori di una 
grande voce artistica. 
 L'emblema 
del connubio tra jazz e nouvelle vague s'identifica nel film di 
Louis Malle (Thumeries, 
France, 30 ott 1932 - Beverly Hills, California, 23 nov 1995) 
Ascenseur pour l'échafaud
(Ascensore per il patibolo, 1957). 
Alla fine degli anni Cinquanta, Malle si avvalse della colonna sonora di Miles 
Davis (Miles Dewey Davis 
III: Alton, 26 mag 1926 - Santa Monica, 28 set 1991) 
per il suo film, iniziativa che fu 
accolta con entusiasmo da molti suoi colleghi che, per il commento musicale delle 
loro pellicole, contattarono i musicisti anche tra gli artisti emergenti. In questo 
film la grande interpretazione di Miles Davis,
 che 
improvviserà il commento musicale sullo scorrimento delle immagini, farà raggiungere 
al film momenti così alti che forse anche a detta della critica, senza quella colonna 
sonora non avrebbe raggiunto. Pochissimo o niente era stato preordinato, si stabilì 
per ogni brano il tempo, il centro tonale e qualche elemento meritevole di venire 
evidenziato ciò che ne uscì fu un perfetto connubio tra azione filmica e commento 
musicale. Purtroppo come esempio del perfetto equilibrio tra jazz e cinema, questo 
film ne rappresenta l'eccezione e non la regola. 
Non vanno dimenticati inoltre 
Sait-on jamais? 
(Un colpo da due miliardi) di Roger Vadim,
1957, con la colonna sonora di John Lewis
(La Grange, Illinois, 3 
mag 1920 - New York, 29 mar 2001)
 eseguita dal Modern 
Jazz Quartet. 
Le motivazioni degli indipendenti e del mondo underground cinematografico 
americano, sono più o meno le stesse dei colleghi europei, anche se però qui le 
collaborazioni tra sperimentatori del cinema e quelle della musica sono rare. Vanno 
però sottolineate le operazioni di 
 John 
Cassavetes (New York, 9 
dic 1929 - Los Angeles, California, 3 feb 1989) 
che con i suoi film Shadows
(Ombre, 1960) ad esempio, usa un 
atteggiamento contestatario, esce dagli studios per portare in strada la 
m.d.p. e filmare realtà marginali attraverso un gioco d'improvvisazione con una 
sceneggiatura aperta e segnata dalla potente ritmica di Charlie Mingus o 
con vicende magari sentimentali ma raccontate con le asprezze dell'hard bop 
o del free più politicizzato. O del suo 
Too Late Blues (Blues 
di mezzanotte, 1962) rendendo il cinema 
newyorkese piuttosto politicizzato. In generale però negli anni Sessanta il jazz 
viene così esteso e generalizzato da diventare spesso mediocre e ripetitivo.
 In 
Italia ad esempio la musica afro-americana diventerà aprioristica e indiscriminata 
dando al matrimonio tra jazz e cinema un'immagine falsa e posticcia. Influenzerà 
anche la commedia all'italiana in alcuni casi però come quelli di 
L'audace colpo dei soliti ignoti 
di Nanni Loy (Cagliari, 
23 ott 1925 - Fregene, 21 ago 1995),
1961, con la musica di 
Piero Umiliani
(Firenze, 1926 - 14 feb 2001) 
o Smog di Franco 
Rossi (Firenze, 28 apr 
1919  - 5 giu 2000),
1962, che con la musica dello stesso compositore 
e la magistrale tromba di
Chet Baker, 
raggiungerà ottimi risultati. 
Ma sarà il giovane cinema italiano di quegli anni a sperimentare più o 
meno interessanti connubi tra il cinema e il jazz, fondamentali da ricordare sono:
 Una 
storia milanese di Eriprando Visconti 
(1933 - Pavia, 26 mag 1995),
1962, con le musiche di John Lewis,
La notte di Michelangelo 
Antonioni (Ferrara, 29 
sett 1912),
1961, con le musiche di Giorgio Gaslini,
Noi insistiamo di 
Gianni Amico (Loano, 27 
dic 1933 - 2 nov 1990),
1964, una traduzione filmata del disco antirazzista
 We 
insist: freedom now suit di e con Max Roach 
(New Land, NC, 10 gen 1924), 
oppure, sempre dello stesso regista, 
Appunti per un film sul jazz 
(1965) un interessante reportage sul VII Festival 
del Jazz di Bologna e per tornare ai grandi film il 
Blow up (1967) 
di Antonioni dove oltre alle riprese del concerto blues-rock degli Yardbirds
viene aggiunto dal maestro il soul psichedelico di
Herbie Hancock per sottolineare l'euforia giovanile londinese. In
Apollon, una fabbrica occupata 
(Ugo Gregoretti, 1968) lo stato d'animo 
degli operai in sciopero viene sottolineato dalla furiosa free-music di
Mario Schiano. A Charlie 
Parker (Leo De Bernardinis, 1970) 
è un omaggio al grande sassofonista da parte di un teatro che, in scena, collabora 
spesso con i talenti del jazz. E, per concludere, la particolare idea di Pasolini
(Bologna, 5 mar 1922 - 
Ostia, 2 nov 1975) 
che nel suo 
Vangelo secondo Matteo 
(1964) affianca alla musica di Bach i negro-spirituals 
e in Appunti per un'Orestiade africana 
(1970) introduce la performance al Folkstudio 
di
 Gato 
Barbieri e di due cantanti che cercano di creare un oratorio jazzato, completando 
il pathos di una tragedia attualizzata. 
 
1.5. Gli Anni Settanta. 
Il clima di violenza caratterizza ormai la società americana. Tra le altre 
cose, il dislivello e l'incomunicabilità tra la popolazione bianca e quella nera, 
si è ampliato. Sommosse, morti, feriti e arrestati rappresentano il panorama di 
quel momento. Il dissenso crescente per il problema del Vietnam esasperava ancora 
di più lo spirito sia dei bianchi che dei neri, i quali vedevano dilapidate, in 
quella guerra, enormi risorse sia umane che economiche, che avrebbero potuto essere 
impiegate per un miglioramento delle condizioni di vita e nel caso dei neri anche 
del risanamento dei ghetti.
 L'assassinio 
di Martin Luther King nel 1968 con i 
tumulti che provocò in ben oltre settanta città americane e l'assassinio di Kennedy, 
un paio di mesi più tardi, diedero la sensazione al resto del mondo che le condizioni 
degli Stati Uniti fossero ad un punto di non ritorno. Nel frattempo i pari avvenimenti 
europei, esplosi in concomitanza del maggio parigino, diedero la chiara idea che 
il mondo stesse iniziando una nuova era. 
I giovani si riconobbero per la prima volta come gruppo sociale in totale 
antagonismo con la classe degli adulti. Questa nuova visione della vita fu comunque 
assunta anche da molti intellettuali adulti stanchi del presente e desiderosi di 
un ribaltamento totale.
 Nacque 
quindi una controcultura, definitasi underground, perché soprattutto alle 
sue origini fu emarginata e sotterranea ma che confluì alla fine degli anni sessanta 
nel panorama delle organizzazioni radicali originando posizioni libertarie e tragiche 
di attacco al sistema. In questa nuova cultura la musica ha avuto fin dall'inizio 
un ruolo fondamentale, ma non il jazz, troppo difficile per essere amato dalle masse, 
ma la potente musica rock, miscela esplosiva di musica elettronica, musica folclorica, 
blues negro, in cui si ritrovarono intere generazioni di giovani. Hollywood naturalmente 
è attentissima a tutto ciò che avviene in questo quadro sociale e vedendo un calo 
d'interesse per il jazz film si prepara a sfornare prodotti giovanilistici creando 
dei veri e propri generi come 
 il
rock-film, la rock-opera, il rock'n'drama, film talvolta 
straordinari che presentano al loro interno grandi contaminazioni sul piano musicale 
di rock, blues jazz, soul, pop, coinvolgendo anche artisti. Vedi i vari 
Blues Brothers di John 
Landis (Chicago, Illinois, 
3 ago 1950),
1980, o il precedente 
Ballata in blu di Paul 
Henreid (Trieste, 10 gen 
1908 - Santa Monica, California, 29 mar 1992),
1965, con Ray Charles 
(Albany, Georgia, 23 set 1930 – Beverly 
Hills, California, 10 giu 2004). 
 Ci 
sono anche dei film, soprattutto nella regia d'autore, che creano dei fenomeni rilevanti. 
E' il caso di pellicole che con colonne sonore d'alta qualità, s'impongono anche 
sul gusto musicale. Un leitmotiv incisivo e distinguibilissimo, guida spesso 
dal successo del film a quello della colonna sonora attraverso il disco. Un esempio 
è quello de L'ultimo tango a Parigi 
(Bernardo Bertolucci, 1972) con la struggente 
melodia creata da Gato Barbieri o il rag di Scott Joplin
(1868 - 1917) 
per La Stangata
di George Roy Hill 
(Minneapolis, Minnesota, 20 dic 1921 
- New York, 27 dic 2002),
1973.  
  Ci 
sono casi in cui, disaccordo tra regista e produttore, fa sì che una colonna 
sonora pronta, venga scartata e sostituita con un'altra come nel caso del film
Chappaqua di Conrad 
Rooks (Kansas City, Missouri, 
15 dic 1934),
1967, o del 
Todo Modo di 
Elio Petri (Roma, 29 gen 
1929 - Roma, 10 nov 1982) del
1976, dove la musica di Charlie Mingus 
rimane solo nell'edizione americana. Queste colonne sonore sostituite, riescono, 
in alcuni casi fortunatamente, a vivere autonomamente nel mercato dei dischi. 
Il jazz-film torna comunque, anche se sporadicamente, a parlare di musica 
jazz, leggende e personaggi afro-americani che anticiperanno la rinascita degli 
anni Ottanta. Un esempio è quello de 
La signora del blues 
[8] 
di Sidney J. Furie (Toronto, 
Canada, 28 February 1933),
1972, ispirato all'omonima autobiografia di
Billie Holiday (Philadelphia, 
Pennsylvania 7 aprile 1915 - New York, 17 luglio 1959) 
opera legata all'idea delle vecchie 
biopic, oppure
 Heart 
beat di John Byrum 
(Winnetka, Illinois, 14 mar 1947),
1979, racconto autobiografico di Jack Kerouac
(Lowell, Massachuttes, 
12 mar 1922 - St. Petersburg, Florida, 21 ott 1969)
che ritrae convenzionalmente
hipsters e beatniks nell'immediato dopoguerra con il sostegno dello score
del grande Art Pepper 
(Gardena, California, 1 set 1925 - 
Los Angeles, California, 15 giu 1982). 
E' del 1977 la raffinata e precisa 
opera di Scorsese New York 
New York, che riporta perfettamente l'idea del jazzman 
bianco del dopoguerra, ed è forse il primo film che considera il jazz come il riflesso 
di una società con i suoi travagli storici ed esistenziali. 
1.6. Dagli anni Ottanta a oggi 
Ma è negli anni ottanta che il jazz-film diventa più compiuto, impegnato e consapevole. 
Con la scomparsa, infatti, di molti protagonisti della leggendaria scena jazzistica, 
il cinema e gli altri media cominciano a considerare
 retrospettivamente 
il mondo musicale afro-americano come un contenitore di sollecitazioni artistiche 
culturali e di società, avvicinandosi all'argomento con più coscienza e meno errori 
e ridondanze del passato, con una grande competenza estetica e un maggiore approfondimento 
dello studio del materiale artistico-umano. E l'incremento dei jazzman nelle 
colonne sonore torna ad essere come negli anni Cinquanta-Sessanta sempre più considerevole 
anche se non sempre fondamentale nel rapporto musica- immagine. 
 E' 
sul terreno della fiction, grazie anche al rinnovamento dell'industria Hollywoodiana, 
che il jazz film esprime la sua pienezza artistica combinando agli interessi commerciali 
la qualità. E tutto questo non è un fenomeno esclusivamente americano, al contrario 
nell'Europa sia dell'est -già da prima del crollo dei muri- come in quella dell'ovest, 
avviene un importante lavoro di sviluppo e di reinterpretazione del concetto di 
jazz-film. Negli anni Ottanta tra l'altro, proprio in Polonia, nascerà l'unico festival 
specificatamente sull'argomento, il Jazz Film Salon diretto da Krystian 
Brodacki. 
Altro fenomeno fondamentale è l'espansione della produzione documentaristica 
favorita anche dalla crescita del mercato delle videocassette. Alcuni documentari 
prodotti vengono addirittura ritenuti dei capolavori del jazz-film dalla critica 
sia musicale che cinematografica ed è il caso di citare almeno tre pellicole che 
oltre ad essere importanti strumenti di analisi, sono anche straordinari racconti 
di vita: Notes from a jazz survivor 
di Don McGlynn, del 1982 (autore anche 
dell'eccellente e successivo Glenn 
Miller: America's musical hero del 1992,
Dexter Gordon: More Than You Know
1996, 
Charles Mingus: triumph of the underdog,
1998, 
Louis Prima: The Wildest!,
1999, 
The Legend of Teddy Edwards,
2000, 
The Howlin' Wolf Story,
2003) le confessioni 
davanti alla macchina da presa del grande Art Pepper, un'autobiografia dolorosa 
-anni di droga e carcere- limpida e innocente verso un riscatto sia morale che artistico, 
fino al grande concerto di rappacificazione con il pubblico e con sé stesso. 
Straight no chaser di
Charlotte Zwerin (Detroit, 
Michigan, 15 ago 1931 - New York, 22 gen 2004),
1988,
 rimontaggio 
di inediti filmati della tournèe di Thelonious Monk con l'aggiunta 
di commenti, backstage e di inserti di attualità a testimoniare la complessa 
personalità di questo artista toccata da dolorosi momenti tra la schizofrenia e 
il lirismo. La stessa Zwerin ha realizzato nel
1999 un altro lavoro dedicato 
a Ella Fitzgerald: Something 
To Live For. Bruce Weber 
(Greensburg, Pennsylvania, 29 March 
1946)  è autore 
di Let's get lost del
1989 dove il protagonista questa volta è
Chet Baker
(Yale, Oklahoma, 23 dic 1929 
- Amsterdam, 13 mag 1988) altra 
figura carismatica della storia del jazz e a ritrarlo è la mano del fotografo in 
un'attiva e incompiuta collaborazione con lo straordinario trombettista, a causa 
dell'improvvisa -e misteriosa per alcuni- morte di quest'ultimo. Materiali di repertorio, 
testimonianze di amici, compagne, familiari avvicinati a momenti di intensa autocoscienza, 
in una scelta di bianco e nero che ne sottolinea la drammaticità a volte e la poesia 
in altre. Oltre a questi tre capolavori vanno ricordati, anche se meriterebbero 
di più di una semplice citazione: 
Memorie of Duke 
(Gary Keyes, 1980), 
Imagine the sound (Ron 
Mann, 1981), 
The long night of Lady Day 
(1984), 
Ben Webster: The Brute and the Beautiful 
(1989) di John Jeremey,
The Coltrane Legacy
(Burrill Crohn, 1985), 
Saxophone Colossus (Robert 
Mugge, 1986), 
Sun Ra - The Magic Sun 
(Phill Niblock, 2000) 
e per finire la celebre trilogia di Frank Cassenti a metà fra il reportage 
e il film-concert che vede protagonisti celebri artisti come
Michel 
Petrucciani (Lettre 
à Michel Petrucciani, 
1983),
Archie Shepp 
(I Am Jazz... It's My Life,
1984) e Sun Ra
(Mystery, Mr. Ra,
1984). 
  
       
  Si 
elaborano inoltre, commistioni con altri linguaggi del campo della comunicazione 
e dello spettacolo, si ritorna ad improvvisare davanti alle immagini della pellicola 
che scorre come una sorta di ritorno alle origini quando all'epoca del muto si accompagnava, 
a suon di jazz, il film improvvisando con gli strumenti. 
  Ma 
è nell'area della fiction o racconto filmato che il jazz film trova il suo momento 
altamente espressivo. Negli Stati Uniti il jazz-film mette le radice nel cinema 
d'autore e con film come Cotton 
club (Francis Ford Coppola, 1984) 
dove si romanzano i fasti del mitico locale di Harlem degli anni Venti frequentato 
solo dai bianchi, dove si presentava il meglio dello spettacolo e della musica nera 
passando da Duke Ellington per arrivare alla spettacolarità di Cab Calloway; 
oppure alla grande opera di Clint Eastwood 
Bird (1988) 
la dolorosa biografia di una delle figure che contribuì alla svolta che portò al 
jazz moderno, quella di Charlie Parker appunto, soprannominato Bird, vista 
attraverso un'analisi d'introspezione psicologica del suo travaglio esistenziale. 
Il successo di questo film ha tra l'altro aperto le porte ad un paio di 
altre opere sul grande musicista, una in realtà sempre dell'88
Bird now del 
belga Marc Huraux e un'altra del norvegese Jan Holan
The Bird: Charlie Parker 
(1990) documentari in realtà, ma girati rispettivamente 
in stile cinematografico e televisivo. E, se negli anni Cinquanta erano sicuramente 
gli americani ad avere la meglio sulla creazione di questi prodotti, ora saranno 
gli europei a specializzarsi in questi settori. Un esempio è il film 
'Round Midnight di Bertrand 
Tavernier del 1986 
ambientato nella Parigi sul finire degli anni 
'50 e che vede Dexter 
Gordon tra i protagonisti con le musiche di Herbie Hancock. 
    Ma 
per non allontanarci troppo dagli Stati Uniti, vanno menzionate le regie di Woody 
Allen che sposano sempre colonne sonore jazz. Dal film 
Interiors (1978) 
ad oggi, in maniera variamente protagonista, il jazz è sempre presente. Spicca in 
genere uno swing anteriore al 
1950, ma a volte possiamo 
trovare qualche accento di modernità. 
Un'altra figura fondamentale americana, completamente diversa dal regista 
newyorkese ebreo, è quella è di Spike Lee 
(Atlanta, Georgia, 20 mar 1957). 
Egli ha contribuito fortemente allo sviluppo di una cinematografia nero-americana 
studiando quasi antropologicamente la cultura della gente di colore. Da 
She's Gotta Have it
(1986) a 
Malcolm X (1993) 
più che parlare di jazz si esprime in jazz, con un modo jazzistico di vedere e fare 
il cinema. Figlio di in noto jazzista, Bill Lee, intercala spesso il sound 
raffinatamente jazz con l'hip-hop della strada e delle generazioni più all'avanguardia. 
Un film però, Mo' Better Blues 
(1990), mette sullo schermo la vita di un immaginario 
jazzista contemporaneo, in cui la critica sembra aver voluto vedere un personaggio 
somigliante al grande trombettista nero, Miles Davis, di cui non se n'era 
ancora realizzata una biografia in cinema. A questo proposito sarà il
2001 che vedrà realizzato l'ambizioso progetto 
di raccontare la vita del musicista-compositore, attraverso la regia di Mike 
Dibb, in un'opera dal titolo 
The Miles Davis Story, 
uscita in Italia solo di recente. 
  
 
 
 
[1] Musicisti-attori girovaghi che nell'800 ebbero un ruolo di rilievo nella 
diffusione dello spettacolo negli Stati Uniti. Questi personaggi imitavano farsescamente 
il mondo negro e a tal fine si tingevano il volto di nero e parodiavano i canti 
afro-americani. Il successo fu tale che nel giro di qualche anno il "Negro boy" 
fu un numero d'obbligo nei circhi e nei teatri di varietà. Uno dei personaggi simbolo 
è Sambo, il nero infantile e tonto, servile e comicamente ossequioso nei confronti 
dei bianchi, che traduce in cliché, l'espressione di un pregiudizio razziale.
 
 
[2] I race records documentarono il miglior jazz e blues degli anni Venti. I 
primi dischi vennero incisi a New York nel febbraio del 1920 dalla cantante di blues 
classico Mamie Smith per l'etichetta «Okeh». 
 
[3] Theatre Owners Booking Agency. Nato intorno al 1909, era un circuito di teatri 
per le comunità nere, in particolare del Sud, che offriva ai suoi scritturati trattamenti 
ingiusti e compensi di bassissimo livello. Nonostante questo il TOBA, arrivò a controllare 
più di ottanta teatri, procurando a numerosi artisti di colore un giro di lavoro 
abbastanza continuo per parecchi anni, contribuendo alla diffusione della musica 
nera in una larga zona che si estendeva fino al nord. 
 
[4] Il musical è una sintesi di percorsi che vanno dalla commedia all'avventura 
con frequenti incursioni nella fiaba e che prevedono naturalmente l'Happy end. E‘ 
tecnicamente un genere complesso e spesso rigidamente codificato dalle case di produzione 
per le competenze e le esigenze tecnologiche. Nasce alle origini del sonoro e va 
via via affermandosi creando una vera epoca d'oro del musical, poiché il cinema 
proprio in questo genere fa il suo tirocinio nell'uso della m.d.p. che acquista 
gran mobilità e sperimenta nei movimenti le più varie angolazioni e novità che altri 
generi incoraggiavano meno. Negli anni Trenta con la Grande Depressione questo genere 
si sviluppa anche con evidenti scopi di consolazione e di evasione, ribadendo questa 
stessa poetica anche negli anni della guerra e del dopoguerra. Dalla fine degli 
anni Trenta alla fine degli anni Cinquanta tra i titoli più indicativi se ne ricordano 
almeno 800. Dalla metà degli Cinquanta agli anni Sessanta si assiste alla crisi 
dei generi e in particolare del musical che perderà molte delle sue caratteristiche 
confondendosi con la commedia, il film biografico, il biopic, o percorrendo nuovi 
itinerari. 
 
[5] Franco Fayenz, Il nuovo jazz degli anni '40, Roma, Lato Side Editori, 1982. 
Dalla nota 21 di pg.44.  
 
[6] A questo proposito si veda nel secondo capitolo al paragrafo intitolato Il 
Bebop. 
 
[7] A questo proposito vedi p. (paragrafo Bird). 
 
[8] Da entrambe le sezioni di analisi dei film di questa tesi è stata esclusa 
la suddetta pellicola dedicata alla tormentata vita di Billie Holiday, rappresentate 
di altissimo livello del mondo del jazz, in quanto questo lavoro analizza solo le 
biografie dedicate agli strumentisti e non ai cantanti.  
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
 
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 | COMMENTI |  Inserito il 6/3/2010  alle 15.58.09 da "bertolienrica" Commento: perfetto !!!direi che è il massimo che si possa avere  però vorrei ancora  sapere, se possibile, quali di questi film sono rintracciabili sul mercato e come 
 
  grazie  |  |   |  
  
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			Data ultima modifica: 11/02/2008
	  
 
 
  
	
		
		
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