, inserito nell'ambito della rassegna
EtnaFest 2005, che si è avvalso dell'indiscutibile caratura dei protagonisti in pedana. Fra tutti, il mitico Jimmy Cobb, proprio quello che ha avuto modo di suonare per lungo tempo accanto a Miles Davis e del quale prestigiose e note in tutto il mondo sono rimaste le storiche registrazioni fissate fra il 1957 ed il 1963, l'imprescindibile
Kind Of Blue (a fianco di Cannonball Adderley, Bill Evans, John Coltrane, Wynton Kelly e Paul Chambers), Sketches of Spain,
Someday My Prince Will Come, gli album dal vivo Live at Carnegie Hall e Live at the Blackhawk, e tantissime altre pietre miliari della discografia milesiana e del jazz di tutti i tempi. Ma anche il pianista Ronnie Mathews, il quale, oltre ad aver collaborato con Max Roach, Freddie Hubbard e Roy Haynes, dalla fine degli anni '50, ha militato a lungo nei Jazz Messengers di Art Blakey, ed ha altresì frequentato le scene con Dexter Gordon, Dizzy Gillespie e Clark Terry. E pure il contrabbassista Reginald "Reggie" Volney Johnson, che vanta l'aver contrappuntato con Sun Ra, gli stessi Blakey's Messengers, Sonny Rollins, Sonny Stitt, Sarah Vaughan, Carmen Mcrae, Art Pepper e tanti altri celebri jazzisti. Un trio di blasonati jazzmen, quindi, costituito per dar man forte al giovane tenorista americano Eric Alexander, allievo di Joe Lovano e Rufus Reid, stile pulito alla Jerry Bergonzi, e fluido
come Dexter Gordon.
E molto del concerto infatti si è giocato proprio sull'esperienza dei tre "grandi", fondandosi su vari standards e varie composizioni di più recente stesura.
Standard colorato di ritmi sudamericani è infatti quello d'avvio, pennellato dalle bacchette di Cobb e da "montuno-jazz" del piano, sicura e languida la voce del sax, tanto bop nel suo vivace fraseggio. Frizzante il pianismo di
Mathews, che impegna la sezione alta della tastiera con una lineare esposizione all'impronta. Un innesco d'amplificazione infastidisce soprattutto
Cobb, che in questo suo fill-in fa molto uso del rullante, in alterni scambi con l'interno gruppo, molte sue figurazioni a riprendere la cadenza della melodia. Quindi la reprise di
Alexander e la chiusura.
Anche il secondo pezzo segue la medesima impostazione, fatta eccezione per l'accattivante assolo di
Johnson, condotto su nervosi sedicesimi e capace di richiamare il tema a sorpresa e in qualsiasi punto. Quindi Ruby my dear, di Thelonious Monk, con intro svolazzante del pianista – autore dell'arrangiamento – su cui suadenti poggiano le rotondità del tenore, qualche spigolo qua e là subito smussato dallo spessore del voluttuoso "melodismo coltraniano". Si prosegue con Will you still be mine?, brano che infonde energia nonostante la costruzione classica. Forte e chiaro il sax, che lo interpreta brillantemente fra i guizzi argentini dei crash di
Cobb ed il tappeto di crome intrecciato da piano e contrabbasso. Rimarchevoli gli incessanti fuori tempo del batterista, a sottolineare le figure di
Mathews per poi proseguire con un assolo di rivitalizzante forza per combinazioni che si avvalgono pure di rapidi colpi di cassa. Quindi Moment to moment, scritta da Mancini/Mercer ed inserita nel cd Cobb's groove (Milestone 2003, a nome del Jimmy Cobb's Mob, con il chitarrista Peter Bernstein, il pianista Richard Wyands, John Webber al contrabbasso, e ospite lo stesso Alexander): un arrangiamento sensuale di bossanova lenta, che tuttavia non riesce a far superare ai quattro solisti la scontata e ripetitiva sequenza sax, piano, contrabbasso o batteria nel subentrare l'uno all'altro. Ed anche i tentativi di
Alexander in tal senso – con citazioni da "Round About Midnight", o vari giochini di diteggiatura, o ancora, sul finale, con accattivanti sovracuti sui quali
Cobb comunque sembra divertirsi a rispondere – non sortiscono l'effetto sperato.
Recupera di contro la simpatia di Mathews nel presentare la scaletta, facendo uso dei pochi termini a lui noti (una volta tanto, comunque, non soltanto "pizza, spaghetti e mandolino"!); e così introduce I miss you, mio amore (my love), in cui lo stesso si distingue per un solo dal tocco particolarmente elegante. Declinata l'esposizione, il sassofonista si lascia trasportare dalle note improvvisative dei compagni ed in special modo di Mathews, e più volte raggiunge il microfono a centro palco giusto un momento prima del proprio attacco (riferimenti da Bye Bye Blackbird). Anche le chiusure dei singoli interventi appaiono prolisse, spesso quelle di
Cobb, quasi egli si aspetti che i compagni riprendano le fila del giro armonico qualche battuta prima.
Smuove un po' l'andamento del concerto Una mas, di Kenny Dorham, spinta sui piatti di
Cobb, con un certo sound anni '70 ed anima funky:
Alexander sfodera ancora alcuni numeri diversivi e varie citazioni, mentre il pubblico si lascia coinvolgere tenendo il tempo con le mani. Sui beats solistici di Cobb i tre musicisti rispondono quasi antifonalmente con il motivo che contraddistingue l'inciso, siglando così il frangente più trascinante della serata.
L'atmosfera torna pacata con My romance, dedicato da Mathews "alle madonne in sala": carezzevole, rivestita da sonorità morbide e piene, fastidioso semmai il tremolo sui tasti del sax, più puntuale – invece – il suo vibrato, specie sulla chiusura delle frasi, a fine emissione. L'ultimo pezzo porta la firma di Mathews, che lo compose per la figlia Selena, intitolandolo Selena's dance (dall'omonimo album dell'88 per la Timeless): si apre con una danza gioviale del piano dal sapore orientale, gravida di dissonanze che successivamente si attestano su un sistema di due accordi (a distanza di un semitono) in stile "spanish", ed un ritmo quasi di mambo, sul quale l'autore si sbizzarrisce fidando nella bi-modalità della cubatura armonica. Tom roboanti di
Cobb, rullante asciutto senza cordiera, e raddoppio della cadenza con la cassa, a sottolineare la maestria del nostro, cui viene tributato il meritato applauso.
Mathews ripresenta i compagni, quindi tutti si ritirano; ma l'insistenza del pubblico porta pianista e sassofonista a rientrare in scena, per quello che sembra un bis non preparato, Prelude to a kiss, al quale
Cobb e Johnson non prendono parte, che si rivela la sorpresa della serata: sentiti i corposi fiati di
Alexander, brioso l'intervento di Mathews, pubblico accalcato sulla porta d'uscita, ma in religioso silenzio a godere di questo inaspettato regalo dei due musicisti e a ringraziare con un partecipato ultimo applauso.
E paradossalmente, potrebbe
essere stata proprio quest'ultima esecuzione a fare la differenza: la levatura
artistica dei componenti del trio ha infatti portato il concerto ad attestarsi
su un registro sì elevato rispetto alla media, ma contemporaneamente è anche
rimasto troppo lineare, senza straordinari picchi – fatta eccezione per i
travolgenti contributi di Cobb, anch'essi per altro fantasiosi
ma la cui innovatività è stata ormai consegnata agli annali della musica afro-americana –, ed anzi appesantito dal monotono avvicendamento delle voci solistiche.
Resta comunque il piacere di
aver sentito suonare "in carne e ossa" vere e proprie leggende del jazz di tutti
i tempi, aver potuto assistere realmente alle movenze che le loro – sublimi –
esecuzioni su disco lasciano solo immaginare. Resta la testimonianza che questi over-70 la
sappiano tanto lunga da poter fare con disinvoltura da supporters al
linguaggio più fresco di un Eric Alexander, sul cui giovane nome
probabilmente contano per richiamare pubblico altrettanto giovane e "suonare a
gran voce" di avere ancora qualcosa da dire.
E questo basti.