si è abbattuto in forma di abbondante temporale estivo sull'Arena Santa Giuliana. E nonostante ciò, il pubblico è in gran parte rimasto, riparatosi alla buona presso gli ombrelloni della zona ristoro o sotto altri rifugi di fortuna, incantato da quella magnetica voce che è riuscita a calamitarne magicamente l'attenzione.
E d'altra parte, l'iniziale scansione percussiva di
Jeff Haynes, cui si sovrappongono il contrabbasso di Reginald Veal
e la chitarra acustica di Brandon Ross – quest'ultimo al fianco della vocalist come arrangiatore e chitarrista ormai dall'album "Blue light til down" (1983) – risveglia sensazioni sopite nella memoria musicale di coloro i quali in quelle note riconoscono quasi subito un raffinato adattamento di Lay, Lady Lay di Bob Dylan, lasciandosi convincere dalla voce profonda e ammaliatrice della
Wilson, quasi carnale sotto l'acqua adesso ancora più scrosciante. Banjo solitario – sempre
Ross – ad innescare un giro di blues impreziosito dalla chitarra slide di
Marvin Sewell, per una Broken Drum che si discosta leggermente dalla versione incisa in
Glamoured, con assolo contrabbasso ed archetto, mentre la figura della singer si scorge luminosa fra la selva di ombrelli: duetta con il contrabbasso sui tamburi stoppati di
Haynes, e nell'andirivieni di gocce più o meno spesse e consistenti, coinvolgente è l'allestimento dal vivo di Waters of March, levigata e seduttiva, con ritmo dondolato dalla velata ambientazione folk, tagliente il pizzicato del banjo, mentre le escursioni vocali della Wilson aleggiano ora prorompenti, ora sommesse, fino a sussurrare un intrigante scat. E l'affascinante esibizione prosegue con
Witchita Lineman, vocalismi di rara profondità emozionale, che suscitano inesprimibile smarrimento, tale da far dimenticare persino di riporre gli ombrelli, dato che la pioggia è nel frattempo cessata quasi del tutto. A seguire Honey Bee, brano di Muddy Waters a cui la nostra è particolarmente affezionata, per passare poi a Baubles, Bangles and Beads (dal cd
Songbook, il primo, del 1985), danzante su un elegante ritmo latin, quindi poche note delicate e laminate della slide-guitar per un altro momento fra i più emozionanti, Time after time, a metà fra il pop della Lauper e la splendida versione dalle inflessioni jazz che ne rese Davis: e qui la
Wilson riesce con spontanea interpretazione ad incarnare entrambe le anime,
mentre gli ombrelli – di nuovo in azione – ondeggiano a tempo. Prende un attimo fiato accomodandosi su un alto sgabello, poi stacca un funky talmente irresistibile da farla ballare da quella posizione: sensuale nelle movenze, nel modo di cantare e nell'espressione amara e penetrante della voce… Presenta i musicisti sul palco e fa per congedarsi, ma dopo tutta l'acqua presa da coloro che sono rimasti fino alla fine – tantissimi – appare chiaro che almeno un rientro in scena costituisca il modo per mostrare riconoscenza verso tanto affetto: sull'accompagnamento della sola acustica dell'ottimo
Ross, la vocalist regala una Redemption Song di Marley da brivido, dentro cui si abbandona trascinando il pubblico con sé. Tornati in pedana anche gli altri, parte un ultimo brano, un blues che pulsa sopra percussioni, chitarre e contrabbasso, sul quale si muove adesso a ritmo l'intera platea. Pregevoli i pianissimo fra la
Wilson ed i vari strumentisti, slide-guitar lancinante che monta poco a poco, fino al corale crescendo finale quando la protagonista saluta: e la musica allora si affievolisce all'uno con l'uscita graduale dei musicisti, accompagnata dal battimani del pubblico, fino al saluto del percussionista, ultimo rimasto e asse portante del pezzo.
Certo se non fosse stato per la pioggia, con l'artista del Mississippi e la notevole dotazione strumentale a suo supporto la musica avrebbe suscitato emozioni destinate a rimanere indelebili nel vissuto dei presenti: invece, purtroppo, di indimenticabile è rimasta l'inclemenza del maltempo ed i vestiti inzuppati di chi, stoicamente, ha voluto comunque ascoltare dal vivo una delle più personali voci che il jazz abbia attualmente al proprio attivo.
Tanto più che per il concerto di Terence Blanchard, invece, il cielo era completamente sgombro da nuvole e mostrava pure qualche timida stella, come se il trascorso temporale si fosse scatenato un mese prima anziché nell'arco delle precedenti due ore.
Ed il cambio di "clima" in cielo segna anche il cambio in quello della musica, passando dall'acusticità del concerto della Wilson alle intromissioni electro-dub ed all'effettistica del trombettista di New Orleans. Tuttavia si mantiene una grande eleganza e le intersezioni dei fiati unite alle suggestioni canore del chitarrista Lionel Loueke del Benin, conservano un giusto equilibrio con le modulazioni più elettroniche. È quanto avviene fin dalle prime battute, protagonista la particolare tromba di Blanchard – particolare anche come forma e soprattutto imboccatura – il quale da leader d'esperienza è anche capace di lasciare gli opportuni spazi ai propri sidemen, per interessanti occasioni di interscambio e vicendevoli spunti: così in Transform, pezzo tratto dal precedente album
Bounce, in cui si fa notare il sax tenore di Brice Winston, riversato sulla sezione ritmica contrabbasso (Derrick Hodge) e batteria (Kendrick Scott), in un fine assolo il cui periodo è sostenuto dall'incessante unisono tonale degli altri strumenti. Incantevole la chitarra di
Loueke – manico da acustica, corde di nylon, cassa assente, corpo stilizzato, amplificazione da pick-up – raddoppiata nel suo disegno melodico dalla voce, incalzante la batteria e interattivo lo scambio fra tromba e tenore.
Assorto
l'avvio ad opera del piano di Aaron Parks in Over there, motivo poi esposto insieme al tenorsax, cui si aggiungono la misteriosa voce di
Loueke e la tromba: il fraseggio scorre fluido, infonde tranquillità, glissa spurio innalzandosi ad ogni frase un tanto di più in estensione… e sotto, l'ineffabile canto del chitarrista ripete la traccia melodica, fissando i riferimenti, e rilassando l'orecchio.
Al termine del brano, Blanchard presenta il sestetto, quindi si immerge nella musica evanescente ed assorta di Wadagbe, una suite a composizione dello stesso chitarrista beninese il quale inserisce rapsodiche cantilene africane, perfettamente combinate ad accordi squisitamente jazz, sullo shaker sabbioso agitato dal medesimo Blanchard: lungo il filo di quelle rarefatte vocalità, con il ritmo che diviene indefinitamente latin, il trombettista entra in coppia con il sax soprano concedendogli ampi margini free, dai risvolti nettamente fusion, con un momento particolarmente creativo del piano fra spunti classici e cadenze tanghere. Riflessiva la tromba leader, sicura nel suo solo replicato per intervalli da un "harmonizer" ed assecondato da un liberatorio crescendo del piano di
Parks.
E proprio questi si rende protagonista del successivo pezzo, a sua firma, Harvesting Dance, con l'uso di breath controller che carica le coloriture "spanish" di accenti soffusi di cui è difficile individuare la provenienza…
È una performance che prosegue pacata, con sonorità che fendono l'aria e restano impresse per il loro amalgama e la resa complessiva, facendo ancor più poliedrico un concerto che già di suo partiva sotto i migliori auspici… Giove Pluvio a parte!