Formazione chitarra-basso-batteria per Biréli Lagrène, in questo concerto spalleggiato da
Dedè Ceccarelli alla batteria e Rèmi Vignolo al contrabbasso, ad incarnare egregiamente con la sua Gibson L5 (firmata Wes Montgomery) lo spirito del festival intitolato ad Eddie Lang: l'atmosfera è punteggiata dallo spigliato drumming marcato
Ceccarelli, fitto di controtempi, e dal pedale di Vignolo per Footprints, con bel disegno improvvisativo del contrabbasso e chiusura solitaria di
Lagrène. Si apre sulle spazzole struscianti e la chitarra dal timbro latin Wave, tema esposto da un fascinoso contrabbasso, fraseggio di
Lagrène con diteggiatura molto legata, tanto più quanto più s'inoltra ad improvvisare per accordi rivolti. Parte un blues al quale il nostro applica tutto il suo pluriarticolato virtuosismo, lasso improvvisativo di
Vignolo, prima unico a confrontarsi con il silenzio della scena, poi incalzato dal sussurrato spazzolare del batterista, ispirate e fantasiose le misure a lui affidate. Lungo ed intenso l'incipit
solo-guitar per In A Sentimental Mood, il cui mood più sentimentale, infatti, non potrebbe essere, senza tuttavia che risulti svenevole, spessi i bassi di
Vignolo, mentre il successivo numero del chitarrista alsaziano viene svolto tutto sugli armonici, con entusiastici apprezzamenti del pubblico.
Presentazione della band e fill-in di Ceccarelli, una tavolozza davvero policroma quella della sua batteria; all'inserimento di contrabbasso e chitarra si disvela una Invitation allargata e distesa, con altra meditativa sezione solistica del contrabbasso
e ancora il titolare il quale, nonostante le raffiche di note sgorganti dal suo strumento, appare comunque serafico. Nuovo intermezzo blues prima di immergersi nella voluttuosa cadenza ternaria di Someday My Prince Will Come, sciolto l'arpeggio introduttivo della chitarra e sulle spazzole ed i prolungati bassi il brano assume la sua languida fisionomia melodica, con coinvolgenti avvicendamenti fra chitarra e contrabbasso sul finale. A rimarcare la padronanza dello strumento pure attraverso un'ampia varietà di linguaggi,
Lagrène si cimenta con buona riuscita anche su un pezzo dai risvolti funky, in cui quasi "slappa", per scemare con corde stoppatissime, quindi l'avvio di
Ceccarelli per Oleo, chitarra con cifratura ritmica molto sincopata, scortata da un determinato e precisissimo walking.
Ceccarelli accende il proprio
ride con le bacchette, corre sui quarti il contrabbassista, quattro misure per ciascuno e poi incroci sempre più fitti fino ad esplodere nel corale main, accompagnato da scroscianti applausi. Come bis, una strisciante Summertime in blues, sottovoce l'accompagnamento di
Ceccarelli sull'ennesimo monologo del contrabbasso, mentre a chiudere è
Lagrène, in un nuovo affascinante assolo con scordatura finale del mi basso.
Spostato il luogo del concerto dal giardino del longobardo Castello Pignatelli alla cornice di una delle interne sale rinascimentali, causa il maltempo che ha così procurato un incolpevole ritardo di circa un'ora rispetto al programma – con tutta la troupe organizzativa, il direttore artistico Gegè Telesforo in testa, a curare la sistemazione del pubblico sul numero ridotto di posti a sedere "Finestrino o corridoio?" –, l'esibizione di John Abercrombie e del suo stellare quartetto, completato da
Marc Johnson al contrabbasso, Joey Barron ai tamburi e Mark Feldman al violino, ha beneficiato di uno spazio più raccolto e forse anche più consono al tipo di musica offerta dal maestro di Port Chester, NY. Picchiettano sulle pelli le dita di
Barron, mentre Abercrombie introduce con un gioco di note sparse Dansir (dal disco
Class Trip, 2004 ECM), sostenuto dal contrabbasso di
Johnson, una chimica collaudata, amalgamata dai suoni densi e tesi del violino di
Feldman, adesso in combinazione con il chitarrista. Procede da solo il pedale di
Johnson, sempre lo stesso dall'inizio, cui il brano modale si affida completamente, e, a colorarne lo spettro sonoro, la variopinta batteria di
Barron. Feldman acciacca il suo violino, un assolo curvilineo e ben definito da una lucida esposizione quello di
Abercrombie, che merita il plauso dell'uditorio. Un intervento di pregnante linearità esecutiva imbastito da
Johnson su un nuovo hand-drumming di Barron che, lasciato adesso solo, fa squillare i propri piatti e rombare i tamburi, asciutto il suo rullante, preludendo all'acutissimo finale di
Feldman. Abercrombie introduce Spring Song (dall'album
Open Land), un 3/4 spolverato dalle spazzole di Barron, sempre vario e fantasioso nell'infondere le opportune colorazioni ritmiche. Suadente il violino, sorta di doppia anima della chitarra di
Abercrombie con cui intrattiene degli spettacolari unisoni o incrocia preziosi reticolati contrappuntistici: corposa la sua voce, struggente ed elegante. Narrativi ma anche riflessivi gli inserimenti improvvisativi del settantenne
leader, spinto adesso dal raddoppio del time di Barron – sempre lui! – che trascina
Johnson ad adattarvisi. Segue
Open Land, dal già citato cd omonimo, brano costretto dall'obbligato introduttivo di tutto il gruppo, ma che pure si dipana in ampie aperture, quali il leggero incedere di
Barron a mani nude, che imprime un andamento quasi caraibico, latin, sotto il fraseggio perlaceo di
Abercrombie. E non sorprende la notevole intesa dei due musicisti, con uno stop&go costruito su incredibili stacchi sincronizzati ed ancora più incredibili riavvii in contemporanea. Frangente particolarmente raccolto quello del violino in solitudine, in un exploit classicistico molto gradito dai presenti, controllate le dinamiche, amplificate dal compenetrato silenzio della sala. E dopo un funkeggiato riff ipnotico del contrabbasso, l'ottimo
Barron prende a ricamarvi sopra le sue trame percussive e senza alcuna interruzione trasfigura gradualmente l'impalcatura ritmica, suddividendo i contrattempi, squadrando i periodi, scandendo cadenze scalene su cui si avvicendano ora
Johnson, ora Feldman, ora Abercrombie, divertiti dalle sottotracce ritmo-melodiche del collega di pedana. Il quale, alla fine dell'esibizione, raccoglie applausi scroscianti, per aver saputo arricchire, con la leggiadrìa del suo timing, le già avvolgenti architetture pentatoniche della chitarra e della musica di Abercrombie, "primus inter pares" in un concerto in equilibrio fra liricità e spericolati giochi improvvisativi.
Complesso, infine, il concerto riservato alla conclusione della rassegna, sia per i contenuti musicali che per la sua articolazione. Ad un primo set che ha visto protagonista il norvegese Nils Petter Molvaer con la sua algida tromba ad interagire con le campiture programmate del computer, ha fatto seguito un secondo tempo in cui il trio del chitarrista
Eivind Aarset, anch'egli norvegese, ha incrociato le rigide sonorità nordeuropee con ritmi marcatamente rock ed improvvisazione jazz, mentre solo nella fase usualmente dedicata ai bis i due titolari del programma serale hanno fuso le proprie prospettive sonore per dar vita alla parte forse più interessante della serata, proponendo raffinatezze sortite dal particolare blend fra le rockettare impalcature ritmiche di
Per Lindvall, le linee bassistiche di Audun Erlien, le effusioni della tromba "trattata" di
Molvaer, le affilate corde della chitarra di
Aarset, il tutto supportato dal connubio fra l'elettronica delle tastiere del trio e quella delle campionature sequenzializzate del trombettista.
Dall'esibizione di Nils Petter Molvaer viene fuori una combinazione magnetica coreografata dalle immagini sullo sfondo che rendono ancora più suggestiva la sua musica: ritmi lenti e dondolanti, melodie rarefatte ed artefatte dall'applicazione di una congerie di cursori e pedali che rendono i fiati della tromba leggeri, insinuanti e trasversali, puntellati su loop ritmo-armonici computerizzati. E l'effettistica – tutta controllata estemporaneamente sul palco grazie al software
Reaktor, un sequencer di ultimissima generazione in grado di controllare frequenze, moduli, effetti, FM, e che funge anche da sintetizzatore e mix, tutto in unico programma – trasforma il fiato della tromba in mare, vento, sussurri, mentre il fondale da blu si squarcia in guizzanti echi di lampi. Dopo aver risolto un problema tecnico oliando una giuntura dello strumento, sull'assolo di tromba –scevro d'effetti– la traccia computerizzata si inserisce in una seconda fase e volute di fumo si sollevano sopra il telo dipinto dai giochi di luci, che scendono filamentose e sghembe, si sperdono in gocce arancio, infrangendosi su un blu intenso e degradato, mentre
Molvaer fa risuonare un altro onirico tema gestito dal computer, pacato e rilassato. Il concerto dell'Aarset Trio al suo turno si affida a tappeti di suoni bislunghi, ritmati dal tempo freddo della batteria, dritto e senza sbavature, trapuntati dalle note della chitarra che sembrano invece sgorgare da lontano. Ma i tre musicisti nordici sono pure artefici di segmenti più melodici, su un arpeggio sopra cui si espone tormentato il basso elettrico, mentre
Aarset armeggia da seduto con tastiera e delay, sebbene sia nelle sventagliate distorsioni della chitarra che si trova il sound a loro più congeniale, sottolineato da fari lattiginosi che illuminano in controluce tutto il palco. L'inserimento di
Molvaer porta con sé un ritorno ai loop ed ai fraseggi minimalisti della sua tromba, benché adesso adagiata su un letto di più variegate sonorità strumentali. E come già accennato, è proprio nei suoi ultimi scorci che il concerto raggiunge vette di ottima musicalità, con l'esecuzione della eterea Solid Ether, composizione del trombettista da cui trae nome pure un suo album del 2000 (ECM), con una distensione sulle molli armonie che dà conto di quanto straniante sarebbe stata la loro performance se solo avessero fin dall'inizio suonato tutti insieme. Non a caso vengono richiamati sul palco ben due volte, fino a che
Molvaer soddisfa i presenti con un conclusivo brano per tromba ed effetti che gli fa conseguire l'ultimo lungo applauso.