Hot (and funny) Jazz
C'è stato un tempo in cui l'espressione "Hot Jazz", utilizzata per indicare uno dei primi periodi della storia della musica d'origine afro-americana, era decisamente malvista dalla comunità bianca e protestante degli Stati Uniti (Wasp).
Non solo per la ben nota (e mai risolta) questione razziale, ma anche per il
suo significato a sfondo sessuale. Significato che, secondo alcuni, sarebbe
già implicito nella stessa parola jazz, di cui si discute ancora oggi
l'origine. Eppure, ascoltando "Some Like It Hot in Rome", l'ultimo disco solista del sassofonista e clarinettista Luca Velotti (da molti anni al fianco di Paolo Conte - Nda), tale espressione appare sinonimo di divertimento, nell'accezione più ludica del termine.
Lo stesso titolo dell'album, in realtà, è un gioco di parole che prende spunto dalla celebre commedia "A qualcuno piace caldo". Ed è giocosa l'atmosfera che tutti i brani (salvo eccezioni di cui si parlerà successivamente) restituiscono all'ascoltatore. Sarà per questo che i concerti del quartetto capitanato da Luca Velotti riscuotono sempre grande successo. Un successo tanto più rilevante se si pensa che i consensi vengono da chi non appartiene alla categoria degli appassionati di jazz. A riprova che la musica, quella buona, piace proprio a tutti.
Ecco, la musica. Sarebbe un grave errore pensare a "Some Like It Hot In Rome" come ad un'opera all'insegna della mera nostalgia oppure a un lavoro discografico con intenti filologici. L'album rappresenta, invece, un'autentica testimonianza di quanto possa essere piacevolmente attuale lo stile di cui sono stati capostipiti artisti quali, Irvin Berlin, Billie Strayhorn, Thomas "Fats" Waller e tanti altri. Senza trascurare l'elemento di modernità, che si avverte principalmente nei momenti improvvisativi.
"Volevo realizzare un disco che raccogliesse alcuni dei brani che preferisco e, grazie alle quali mi sono avvicinato al jazz. Il vero filo conduttore del disco è dato dalla gioia. E un atteggiamento filologico avrebbe fatto perdere quell'allegria che può esservi solo in un clima di spontaneità. In altre parole, siamo stati animati dalla voglia di divertirci muovendoci sul doppio binario del rispetto della tradizione e quello del desiderio di andare oltre gli schemi, intenzione che alla base del jazz, e da sempre". (Luca Velotti)
Veniamo ai brani, allora. Ad aprire l'album è "Jitterburg Waltz", ed è subito chiaro il talento di tutti i musicisti coinvolti nel progetto. Per l'ariosità dell'arrangiamento, ad esempio. E anche per il modo in cui la batteria di Alfredo Romeo e il contrabbasso di Guido Giacomini riescono a sorreggere l'improvvisazione di Giorgio Cuscito, un esperto dello stride piano. Quel finale in crescendo, in cui domina il sax soprano di Luca Velotti, è, poi, come dicono i romani, una vera chicca.
"La storia di "Besame Mucho" è molto particolare. A differenza degli altri brani, infatti, è stato inciso alcuni mesi prima, in una situazione di grande rilassatezza visto che eravamo convinti solo di fare delle prove. Poi, ascoltando la registrazione, abbiamo scelto d'inserirla nel disco. Di tutti le altre tracce, proprio per non togliere loro quella spontaneità cui accennavo prima, abbiamo fatto solo due takes. Quasi sempre, però, abbiamo preferito la prima. Vorrei aggiungere che mi sono ispirato molto alla versione del clarinettista di New Orleans, Edmond Hall". (Luca Velotti)
In realtà, da aggiungere c'è ancora qualcosa. La scelta di rispettare la struttura originaria ABA piuttosto che la più comunemente impiegata AABA, ad esempio. Altri tocchi di classe: un (troppo) breve solo di contrabbasso e la batteria suonata con le mani. Infine, nell'interpretazione di Luca Velotti traspare anche quella malinconia che in maniera tanto evidente esprimeva il testo cantato da Consuelo Velasquez.
Come accennato precedentemente, ci sono dei brani che
inequivocabilmente rimandano al significato più autentico di Hot Jazz. E' il
caso di "(I Don't Stand) A Ghost Of A Chance (With You)": un unico lungo interminabile brivido che corre lungo la schiena. "Questa composizione, firmata a sei mani da Victor Young, Bing Crosby e Ned Washington, è stata un vero e proprio banco di prova per molti sax tenoristi. Io ho pensato a Illinois Jacquet, noto per la sua lunga collaborazione con Lionel Hampton". (Luca Velotti) In questo brano così sensuale, domina l'approccio volutamente istintuale ed emozionale dei musicisti. Contraltare perfetto della voce del sax è il pianoforte di Giorgio Cuscito.
Raramente eseguito in quartetto, "Jazz Me Blues" fu portato al successo da Bix Beiderbecke e la Gang, come scritto nelle ottime note di copertina scritte da Adriano Mazzoletti. Per quanto ridotto, l'ensemble di Luca Velotti, qui nelle vesti di clarinettista, riesce a riportarci, quasi per magia, indietro nel tempo. Seppure non manchi l'elemento di originalità derivante da una ritmica adorabilmente latineggiante. A dire il vero, a dispetto del titolo, è molto più blues la traccia successiva: "Gee Baby, Ain't I Good To You". Sarà per la personalissima predilezione di chi scrive nei confronti del sax tenore, ma questa traccia appare essere tra quelle più belle dell'album. Sarà anche per quel contrabbasso suonato con l'archetto e per quell'andamento finale molto serrato, che lascia senza fiato.
Una delle ragioni per cui è noto Luca Velotti, seppure non sia
la più importante, è il suo amore per il (poco usato) soprano ricurvo. E' questo
il suono che si ascolta in "Down In Honky Tonky Town". Prima di parlare del brano, occorre fare una premessa. "Ho studiato il clarinetto presso il Conservatorio de L'Aquila, ma gli insegnamenti cui sono più legato sono quelli di Bob Wilber, il primo a farmi conoscere le potenzialità espressive del sax soprano ricurvo, che ha un suono meno acuto rispetto a quello dritto". (Luca Velotti). Precisando, poi, che Bob Wilber è stato, a sua volta, allievo di Sidney Bechet si comprende il motivo per cui questo brano figura nel disco. Una delle sue versioni più celebri fu, infatti, proprio quella che vide protagonisti Louis Armstrong e Sidney Bechet. E adesso veniamo all'arrangiamento del pezzo. Definirlo in modo univoco, data la sua complessità, appare difficile. Prevalgono, però, il jungle stile (ricordate "Sing Sing Sing" di Louis Prima?), che vede protagonista Alfredo Romeo, anche autore di un bellissimo solo, il suono del contrabbasso e una "sezione melodica" in gran forma.
Idealmente legata alla traccia precedente è "Bourbon Street Parade". Poche note e già ci troviamo nelle strade di New Orleans, anche noi ad ingrossare le fila della Second Line (come molti sanno, "la seconda fila" era quella destinata ai musicisti, che seguivano i "pittoreschi" cortei funebri della più celebre delle città della Louisiana - Nda). "L'arrangiamento di questo cavallo di battaglia del Dixieland è di Wynton Marsalis, che la suona a sua volta in trio. Da notare lo slap di
Guido Giacomini e il suono "grasso" del suo contrabbasso, dovuto anche al fatto che monta corde di budello". (Luca Velotti).
Ma cosa c'entra la fracassona "Bourbon Street Parade" con quella delicatissima e malinconica ballad intitolata "Isfahan" (tra i brani meno conosciuti di Duke Ellington – Nda)? Assolutamente nulla, o forse tutto. In fondo, si tratta di momenti di versi di quella cosa chiamata vita. E questo spiega anche la scelta di porre nella "scaletta", subito dopo, un brano come "I'll See You In Cuba". Se un certo gusto per la musica latina si era già avvertito, qui esplode in modo dirompente. Ma si tratta davvero di un brano scritto nel 1917?
Non tradisce il suo essere molto datato, invece, un brano come "The Mooche", in cui torna anche il suono del contrabbasso suonato con l'archetto. Anzi, ascoltando anche la batteria di Alfredo Romeo, sembra quasi che i suoni della swing era siano stati volutamente ricreati (e anche molto bene). Per non parlare del bellissimo solo di pianoforte e del lavoro del leader, che lascia molto spazio ai suoi compagni d'avventura. Luca Velotti, però, ritorna prepotentemente protagonista della scena nella successiva "Limehouse Blues".
Leggendo la lista dei brani, si rimane colpiti, ad un certo punto, dalla scelta d'inserire nell'album composizioni come la mitica "Giant Steps" di John Coltrane
e "Giochi D'Azzardo" di Paolo Conte. Appaiono, infatti, due outsider, soprattutto da un punto di vista cronologico. Ma la verità è molto diversa. Innanzitutto per l'arrangiamento volutamente "antichizzato" (e molto meno spigoloso dal punto di vista armonico) del brano di Coltrane e, poi, per la naturale e intrinseca affinità della musica di Paolo Conte al jazz tradizionale, qui riproposta in duo: sax tenore e pianoforte.
Come concludere il lungo racconto di un disco così bello? Semplice. Consigliandolo "caldamente" sia a chi non si è mai avvicinato prima al jazz sia agli appassionati del genere.
Massimiliano Cerreto per Jazzitalia
Per maggiori informazioni:
www.ismarecord.com