Intervista a
Mauro CAMPOBASSO
di
Roberto Catucci pubblicata su JazzIt -
agosto 2001
R.C.: Quali sono i primi contatti che hai avuto
con la musica?
M.C.: Ho iniziato a suonare la chitarra
leggermente più tardi rispetto a molti miei coetanei nonostante fossi
cresciuto, grazie alla mia famiglia, con una forte passione per la musica
classica e jazz; passione coltivata, in casa, soprattutto da mio padre, che mi
ha trasmesso l'amore per Chet Baker e Gerry Mulligan e per compositori come
Bartòk e Stravinsky.
Il primo approccio alla musica suonata é
avvenuto, come per molti miei coetanei, suonando in piccole rock bands e
coltivando quindi una grande passione per il rock ed il blues, dai Led
Zeppelin ai Cream, da Jimi
Hendrix a Jeff Beck.
La
vera e propria svolta è avvenuta quando ho ascoltato, per la prima volta, due
dischi di Pat Metheny, As falls Wichita So Falls Wichita Falls e Brigtht
Size Life. Il loro ascolto mi ha avvicinato ai gruppi fusion dell'epoca, da
John Scofield a Chick Corea, fino ai Weather Report, tappa
fondamentale, da cui sono risalito man mano fino a John Coltrane e Miles
Davis, per arrivare al be-bop e naturalmente a Charlie Parker.
R.C.:
Ci
sono state figure particolarmente importanti per la tua formazione e la tua
crescita musicale?
M.C.: Ci sono stati sicuramente molti momenti
cruciali nella mia formazione. Tra questi, il primo seminario di Joe Diorio, a
Ravenna nel 1989, e di lì a poco, il mio trasferimento a Bologna per studiare
al DAMS.Riguardo a Diorio, debbo dire che rimasi
incantato dai suoi insegnamenti, dal suo carisma e tuttora sono sempre attento
alla sua attività didattica e artistica, da cui imparo sempre cose
straordinarie. La cosa più importante fu l'energia che Diorio trasmise in
quell'esordio italiano. Sotto la sua influenza, in quei giorni, andavo sempre
di più maturando la consapevolezza di diventare musicista.
L'arrivo a Bologna, invece, fu
principalmente importante come fatto d'inserimento sociale e decisivo
nell'impormi una seria disciplina nello studio. Dopo aver vissuto per alcuni
anni in provincia, l'arrivo in una città più grande fu abbastanza difficile, ma
stimolante. Da una parte la vita universitaria, teorica e lontana dalla musica
suonata, dall'altra le prime jam, gli incontri con i nuovi amici musicisti e le
prove con i nuovi gruppi.
In quegli anni si andava delineando a
Bologna un panorama musicale molto preciso: un folto gruppo di musicisti d'area
be-bop, al quale si contrapponevano altre forze musicali, dal free alla fusion.
Per quanto mi riguarda, ho sempre cercato
di coltivare più stili, senza per questo aver bisogno di schierarmi con una
parte piuttosto che con un'altra. In ogni modo, in questi anni ho avuto
l'occasione di incontrare alcuni degli amici musicisti con cui collaboro
tuttora, da Alfredo Impullitti ad Achille Succi e Luca
Bulgarelli, fino all'attuale sodalizio con la cantante Cecilia Finotti.
Altro importante motivo di crescita, è
stata la frequentazione dei seminari di Siena Jazz, dove ho studiato con
Enrico Rava,
Bruno Tommaso,
Tomaso Lama,
Furio Di Castri,
Paolo Fresu:
tutti equamente importanti per la mia maturazione.
R.C.:
Quali
sono, oggi, i tuoi punti di riferimento?
M.C.: Le influenze sono molte. M'interesso
molto a Dave Douglas, Steve Coleman, Vince Mendoza,
Michael Brecker, Brad Mehldau: tutti artisti che hanno saputo fondere con sensibilità la tradizione
ed il presente.
Tra i chitarristi riconosco un debito
inestinguibile nei confronti di Jim Hall. Da anni, ormai, seguo con passione un gruppo di chitarristi
che parte da John Abercrombie, Pat Metheny e John Scofield, per giungere fino
alla spontaneità dei classici, da Django Reinadht a Wes Montgomery, come anche
Jimmy Raney, Pat Martino, George Benson, tutti accomunati da una qualità
"vocale" del suono. Ascoltandoli non si può che pensare ad un canto.
Sono poi molto vicino, sin dall'infanzia,
a compositori classici e contemporanei dell'area cosiddetta "colta": Bartòk,
Stravinsky, Ravel e Berg.
Recentemente ho coltivato l'ascolto
d'artisti e gruppi come Alanis Morissette, Bjork e Radiohead: il
nuovo cd di questi ultimi è un coraggioso passo in avanti nell'ambito di una
ricerca sonora e sperimentale, che sembra ormai abitare in un certo tipo di
rock più che in altri universi musicali.
R.C.: Con il tuo attuale
quintetto hai registrato un disco nelle cui note di copertina affermi un forte
legame con il mondo delle immagini. Che rapporto intercorre tra esse e la tua
musica?
M.C.:
Love and Lies, uscito lo scorso
Giugno nei negozi, é frutto di un lavoro compositivo effettuato soprattutto dal
1997 al 1999, per essere, infine, fissato su cd nel Maggio del 1999. Il nome
che ho dato al gruppo, Image, è un evidente omaggio al cinema e al mondo delle immagini.
Il mio rapporto con queste è molto forte;
il cinema e la fotografia sono da sempre mie grandi passioni. Quello che
m'interessa delle immagini è loro capacità d'essere evocative. Vorrei poter
credere di riuscire, anche se solo in piccola parte, a creare delle visioni con
la mia musica. Questo è il presupposto
iniziale del mio lavoro compositivo. Il mondo dell'immagine è inviolato e
silenzioso. Da questo silenzio nasce la musica, non dalla voglia di
sottolineare l'immagine o di farne un commento sonoro. Non ho un rapporto
calligrafico con l'immagine. La corrispondenza emozionale con il cinema è nata
più da un fatto ispirativo che realmente strutturale. Come ho detto in un'altra occasione, vorrei
che nella musica si intravvedesse una trama narrativa, poi tutto il resto.
Il proposito di base era quello di
realizzare un cd di jazz, ma non ancorato ad uno stile ben preciso.
R.C.:
Come nasce il quintetto "Image"?
M.C.: Volevo costituire un gruppo con un sound
che riecheggiasse certa cultura americana senza rinnegare quella europea, la
mia. Bel problema! L'unica soluzione era quella di mettere insieme dei
musicisti di diversa estrazione. La prima scelta è stata quasi obbligata:
Alfredo
Impullitti. Oltre al fatto d'essere amici da quasi un decennio, volevo nel
gruppo un pianista che suonasse i sintetizzatori e non un vero e proprio
tastierista. Mi attirava l'idea di decontestualizzare un musicista come
Alfredo, vicino mondi più ariosi e ispirato da un pianismo di matrice europea,
e sentirne l'effetto nel contesto più geometrico della mia musica.
Credo di aver ascoltato Mauro Manzoni,
con gli Inno, per la prima volta nell'inverno del 1990, ma non ci
siamo frequentati fino al 1997, quando l'ho chiamato a suonare in Image. É
stato Alfredo a suggerirmelo: Mauro è un musicista particolarissimo, personale;
la sua voce al soprano è preziosa per il suono del gruppo e sta diventando una
sorta di mio alter ego. Penso che nel suo modo di suonare siano racchiuse le
lezioni di Surman, Garbarek e Marsalis unite ad un notevole spessore umano.
Io e Luca Bulgarelli, invece, ci
siamo conosciuti verso la fine del 1996, grazie alla collaborazione con la
cantante Cecilia Finotti, con cui abbiamo realizzato un cd nel 1998.
Luca, che suona sia il contrabbasso che il basso elettrico, si è mostrato
subito entusiasta all'idea di partecipare ad Image: egli é un musicista
profondamente sensibile a diversi generi di musica, nonostante la sua forte
anima ed esperienza nel Jazz; ha il gran dono di suonare principalmente per la
musica e per il gruppo e in ultima istanza per se stesso, nonostante sia uno
straordinario solista del suo strumento.
E' stato lui a suggerirmi di chiamare Alessandro
Svampa alla batteria, con cui aveva suonato molte volte in precedenza. Alessandro ha portato nel quintetto il suo
stile, a metà tra il rock ed il jazz frutto, di un'esperienza che spazia da
collaborazioni jazz con Kenny Wheeler, fino al pop con Francesco De
Gregori.
In
"Love and Lies" traspare una non comune attenzione per il suono…
Nella produzione dell'album ho cercato il più possibile di
seguire ogni singolo suono e di curare l‘impasto dei synth con i suoni
acustici. Non volevo delle tastiere invadenti: m'interessava soprattutto
utilizzare i suoni elettronici come rifinitura, piuttosto che come colore
principale. Tranne che nei brani più elettrici, l'uso che abbiamo fatto con
Alfredo dei synth è assai moderato. L'uso esasperato dei sintetizzatori rischia
di rendere datato il lavoro ancor prima che esca. Con i synth é possibile fare
molte cose, ottenere suoni diversi, ma, a differenza di uno strumento acustico,
sono ancora poco comunicativi dal punto di vista emotivo: proprio per questo,
cerco, con il passare del tempo, di utilizzarli di meno, solo per suoni
elettronici particolari ed emulazioni di strumenti vintage come organi,
obehereim e vecchi rhodes. Purtroppo, nel mondo del jazz, esiste un vecchio
pregiudizio nei confronti di chi fa uso di strumenti elettronici! Quello che mi
auspico di realizzare é una sorta di fusione delicata, in cui i suoni
elettronici non snaturino quelli acustici: nel prossimo lavoro di Image vorrei
lavorare su di una base più acustica muovendomi nel territorio dei
campionamenti e dei loops, per poi aggiungere dei fiati e delle voci.
R.C.: In "Love and lies" ti concentri
soprattutto sull'aspetto compositivo, che rapporto hai con il tuo strumento?
M.C.: Non é un cd con la chitarra sempre in
primo piano. Quando ho scritto la musica per Image non ho pensato ad un progetto
in cui dovevo fare le basi per i miei soli, come mi é spesso capitato di
ascoltare più di una volta nei dischi di qualche collega più o meno illustre.
Volevo un'opera corale dove la musica, fosse in primo piano. M'interessava come
chitarrista e compositore fare un cd in cui qualsiasi ascoltatore potesse
identificarsi. Personalmente non amo vedere la musica come per sola chitarra o
per sax o per piano; quando ascolto Bill Evans o Keith Jarrett, non penso che
sto ascoltando un trio di un pianista, ma semplicemente musica. Poi, devo
affermare che, negli ultimi anni, sono riuscito a costruirmi una più precisa
identità musicale, anche chitarristica, proprio grazie alla composizione. Trovo
molto riduttivo pensare la musica in maniera settaria per strumenti. I cantanti
ascoltano solo i cantanti, i chitarristi solo i chitarristi e così via.
Naturalmente amo tantissimo la chitarra e forse uno dei prossimi lavori avrà il
respiro più intimo del trio, vedremo. Il trio é una dimensione molto delicata,
complessa, dove con il mio strumento è difficile raccontare qualcosa di nuovo.
Vorrei trasportare nel trio alcuni dei miei concetti musicali, riducendoli
all'essenziale.
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Data pubblicazione: 01/01/2002
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