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Intervista a Paolo Benedettini
di Michela Lombardi

Nel 2005 è uscito il cd di Stepko "Steve" Gut Somethin' Special (Videoradio), con Nico Menci, Paolo Benedettini e Alessandro Minetto, con guest Carlo Atti. Un lunedì sera d'aprile la ritmica che ne è protagonista fa tappa al CinemaTeatroLux di Pisa, ed io assisto a qualche brano per poi entrare nella jam che, com'è consueto, segue ai concerti del lunedì. Successivamente incontro di nuovo Paolo Benedettini, sempre a Pisa ma stavolta in un bar all'aperto vicino a Piazza dei Cavalieri. Gli studenti che forse tutto il giorno hanno studiato per prepararsi alle sessioni d'esame estive dell'Università affollano il centro storico della città, dove il fresco umido dell'Arno ancora si fa sentire. Io col mio solito tè all'inglese, lui opta per un cuba libre, iniziamo a ripercorrere le tappe che da Pisa l'hanno portato a Bologna e a New York…

M.L.: A quanti anni hai iniziato a suonare? Il basso è stato il tuo primo strumento?
P.B.: Ho cominciato con la chitarra quando avevo 11 anni, suonando prevalentemente rock. Poi a 16 anni sono passato al jazz, frequentando i seminari di Sienajazz e quelli Berklee di Perugia, ma sempre come chitarrista. A 18 anni, quando per frequentare il Dams (adesso mi manca un esame alla laurea) mi sono trasferito a Bologna, ho seguito anche quelli che l'associazione "Il Paese degli Specchi" organizzava a S.Lazzaro di Savena.

M.L.: Sì, conosco: a 21 anni ci andai per studiare con Tiziana Ghiglioni. Ma quand'è che il contrabbasso ha fatto la sua comparsa?
P.B.: Quando avevo 19 anni. Grazie alle basi di armonia che avevo acquisito sulla chitarra, col contrabbasso sono partito da autodidatta.

M.L.: …E solo 4 anni dopo, nel 2000, appena 23enne, già suonavi con personaggi come Bobby Durham! Come sei entrato in contatto con musicisti di questo calibro?
P.B.: Forse il fatto che i contrabbassisti sono sempre molto ricercati, perché non ce ne sono moltissimi e perché suonano sempre come sidemen, mi ha avvantaggiato notevolmente. Ma è stato un percorso graduale, sebbene in tempi brevi. Nonostante abitassi già a Bologna, ho iniziato prendendo parte a molte jam e suonando in gruppi di Pisa, affiancando musicisti che conoscevo da tempo, come l'armonicista Federico Bertelli, col quale, insieme a Piero Frassi al pianoforte, nel 1997 andai a suonare in Belgio al concorso Europe Jazz Contest per musicisti under 30, che si teneva a Bruxelles, dove ci qualificammo al quinto posto. Fu un'esperienza per me molto importante.

M.L.: Ne avevo già sentito parlare: sia Frassi che Bertelli hanno suonato, il primo in quanto mio stabile e fido collaboratore e il secondo in veste di ospite, nel mio cd d'esordio!
P.B.: Tra l'altro nella registrazione che mandarono al concorso c'era, al pianoforte, Riccardo Arrighini, altra nostra comune conoscenza!

M.L.: Torniamo ai tuoi esordi come bassista. Da Pisa a Bologna…
P.B.: Dopo un po' ho iniziato a suonare con musicisti bolognesi, dal chitarrista Davide Brillante a solisti come Carlo Atti, Piero Odorici, Marco Tamburini, Marco Bovi, Valerio Pontrandolfo, Andrea Olivi, Andrea Papini, Jimmy Villotti… Poi mi è stato utilissimo frequentare un chitarrista-violinista di nome Pasquale "Cocò" Tesoro, che tra poco compirà ottantacinque anni: è un grande personaggio e un musicista geniale, ma oggi – purtroppo – poco conosciuto fuori da Bologna. In questi anni ho suonato molto spesso con lui, imparando da lui moltissimi pezzi. E in particolare ho iniziato a suonare con Nico Menci, col quale collaboro tuttora: anche lui mi ha insegnato davvero molto del jazz. Mentre portavo avanti queste collaborazioni ho continuato a studiare contrabbasso con Paolo Ghetti e sono tornato a Sienajazz per studiare con Furio Di Castri, vincendo la borsa di studio per i seminari invernali, nel 1999.

M.L.: E l'incontro con Massimo Faraò, col quale hai inciso molti cd, a quando risale?
P.B.: Per due anni consecutivi, nel 1999 e 2000, Massimo venne a Bologna a suonare alla Cantina Bentivoglio con Buster Williams e, alla batteria, Jimmy Cobb il primo anno e Ben Riley l'anno dopo. Entrambi i concerti erano preceduti da seminari pomeridiani che seguii tutti e due gli anni. Il secondo anno Buster rimase molto soddisfatto dei progressi che avevo fatto. Nei primi mesi del 2000 mi chiamò per un tour da fare in primavera insieme a Bobby Durham. Non me l'aspettavo, ne fui molto felice, si creò un'intesa musicale ed umana e iniziammo così a registrare le prime cose insieme. Partecipai anche ai seminari estivi We Love Jazz (che allora si tenevano non ancora Ronciglione bensì a Genova) organizzati da Faraò, dove Buster insegnava. Inoltre in quel periodo iniziai a seguire i seminari di Barry Harris, prima in Olanda e poi in Italia. Tuttora, quando viene, se posso ci vado.

M.L.: Anch'io vado sempre a seguire i suoi corsi quando viene a Roma, al Link Campus dell'Università di Malta. Assidui frequentatori sono anche i giovanissimi fratelli Luigi e Pasquale Grasso, rispettivamente sax e chitarra. Bravissimi, tra l'altro.
P.B.: Li conosco anch'io, sì, sono davvero molto bravi! Luigi si è appena trasferito a Bologna e spesso si fa vedere alle jam. Tutte le volte che lo sento suonare rimango sbalordito!

M.L.: Ho qui tre cd: We Three Plus Friends col Bobby Durham Trio (Azzurra Music, 2001), con guest Carlo Atti, Cobb Is Back In Italy! col Jimmy Cobb Trio (Azzurra Music, 2002) e Jazz In The House con Irio De Paula, Massimo Faraò e Jimmy Cobb (Azzurra Music, 2002).
P.B.: Con Irio abbiamo inciso anche un Live In Pisa, e poi c'è quello con Hal Singer, We're Still Buddies (Azzurra Music, 2001). Infine abbiamo suonato anche con Archie Shepp.

M.L.: Quali sono state invece le tue collaborazioni con i musicisti dell'area bolognese?
P.B.: Sempre in quegli anni, con Piero Odorici, ho suonato prima con Eddie Henderson ed Eliot Zigmund, successivamente con il pianista George Cables e il batterista Keith Copeland. Con questa formazione, dopo un tour di due settimane, registrammo anche una session che stiamo ancora cercando di far uscire su disco.

M.L.: Come sei arrivato all'incisione con Gut, Somethin' Special?
P.B.: Ho un trio stabile con Nico Menci e Gianni Cazzola, e spesso abbiamo registrato dal vivo, un brano è uscito sul libro autobiografico che Gianni ha pubblicato da poco, Una Vita In Swing, (Tagete Editore, 2005), con foto e interventi di musicisti con cui ha lavorato, e in allegato un cd. Vorremmo registrare anche in studio, con un quintetto formato, oltre che da questo trio di base, dal sassofonista Michele Vignali e da Marco Bovi alla chitarra (che, tra l'altro, suonano entrambi con Vinicio Capossela). Nico aveva già suonato con Steve Gut qualche anno addietro. Poi tre anni fa, alla Festa dell'Unità a Bologna, dove si trova uno spazio – un vero e proprio jazz club – che per tutto il mese di settembre organizza concerti jazz, l'organizzazione aveva contattato Gut per dei concerti, e la ritmica locale scelta per accompagnarlo fu la nostra, anche in conseguenza delle precedenti collaborazioni che c'erano state. Con Alessandro Minetto alla batteria abbiamo poi fatto questi concerti e abbiamo continuato anche in seguito a suonare insieme. L'anno dopo, ovvero nel 2003, Steve è tornato ed abbiamo registrato questo disco. Che è finalmente uscito nel 2004. Steve è serbo e insegna al Conservatorio di Graz, è allievo di Clark Terry e molto vicino al suo maestro.

M.L.: Qual è il musicista americano col quale hai suonato che ti ha lasciato in qualche modo più arricchito in termini di stimoli musicali e personali?
P.B.: Direi innanzitutto Bobby Durham, che fin dall'inizio mi ha seguito e incoraggiato; per due anni ho lavorato con lui praticamente ogni mese e ogni concerto è sempre stato una grande lezione. Anche Tom Kirkpatrick, anche se da tempo ormai è italiano d'adozione, e vive a Ferrara, mi ha insegnato molto. Con lui, Nico Menci al piano e Fabio Grandi alla batteria e Marco Bovi alla chitarra abbiamo un quartetto con cui suoniamo tutte musiche di Kenny Dorham, ed è una situazione musicale stabile, che mi ispira molto e che mi ha fatto capire tante cose su questo particolare stile di musica. Quanto ai musicisti americani con cui ho avuto l'opportunità di suonare, quello che ha lasciato un segno più profondo è stato sicuramente Jimmy Cobb. Senz'altro. Prima di tutto perché è un batterista, che è il musicista con cui il bassista lavora principalmente per costruire il tessuto ritmico su cui il solista suona. E poi perché è uno dei più grandi musicisti jazz di tutti i tempi, che ha inventato uno stile con cui è impossibile non confrontarsi.

M.L.: Quanto agli italiani con cui suoni più assiduamente, invece?
P.B.: Nico Menci, Gianni Cazzola… Ma anche Piero Odorici, che mi ha consigliato molti ascolti.

M.L.: Domanda di rito: quali sono i contrabbassisti che ami di più?
P.B.: Quando ho iniziato mi piacevano molto Marc Johnson, Dave Holland, Miroslav Vitous… Poi, guardando alla tradizione – e in questo il fatto di abitare a Bologna, città che ha una certa tradizione jazzistica che tiene vivo l'amore per le radici del jazz, ha influito molto – ho cominciato ad avere come punti di riferimento i grandi del passato come Sam Jones, Oscar Pettiford, Paul Chambers. E poi Charles Mingus, che oltre ad esser stato un grande bassista era un compositore originale ed unico, il cui bassismo è al tempo stesso nuovo e antico, molto simile per certi versi a Jimmy Blanton. E poi ancora Scott Lafaro, Red Mitchell, Ron Carter… Negli ultimi mesi, comunque, sento anche il bisogno di andare oltre ed approfondire l'ascolto di musicisti (e non solo bassisti, ma in particolare pianisti come McCoy Tyner o Herbie Hancock) che pur partendo da quella tradizione hanno detto cose interessanti e creato stili che hanno lasciato un segno. Sto suonando spesso con Roberto Tarenzi, pianista di Milano (che ama molto Tyner e Ahmad Jamal), che mi dà ulteriori stimoli di studio. Dei bassisti della nuova generazione mi piace molto John Webber, che è anche un amico, e Peter Washington.

M.L.: I nuclei regionali (abbiamo parlato di Bologna che ha una sua tradizione, Milano un'altra, la Toscana un'altra ancora, e poi c'è il circuito romano…) si differenziano nell'approccio a questo genere di musica? Sotto quali aspetti?
P.B.: Forse, rispetto a Roma o Bologna, altrove non ci sono moltissime occasioni per approfondire le origini del jazz. Qualsiasi nuovo geniale talento d'Oltreoceano (penso a Brad Mehldau o a Mark Turner, anche se non li conosco ancora bene) che fa capo a nuove correnti musicali ha, sicuramente anche in quanto parte inscindibile e indelebile della sua cultura, una cognizione più profonda di queste origini. Forse Roma è il posto in cui si hanno più opportunità di studio, in questo senso. Ma senz'altro il cuore pulsante per il jazz è New York, dove ho soggiornato per un mese, due anni fa, registrando con Jimmy Lovelace (che suonava con Wes Montgomery negli anni '60) e dove di recente sono tornato per una settimana. è nei miei progetti futuri quello di tornare a viverci per qualche tempo. Quegli stimoli e quelle condizioni che consentono di penetrare l'essenza di questa musica, che qui si devono cercare con impegno e fortuna, lì sono semplicemente dappertutto.

M.L.: Passiamo allora a parlare di cantanti, che accompagni e che ami ascoltare…
P.B.: Ho un gruppo con Tarenzi, come ti dicevo, e con la sua compagna Alice Ricciardi, bravissima cantante, ho accompagnato diverse volte Stefania Rava, e poi ho suonato e inciso con Shawnn Monteiro, con la quale ho anche inciso tre brani sul suo disco I'm Coming Home (Azzurra Music, 2000) insieme a Massimo Faraò. Mi piace molto ascoltare i cantanti, oltre che accompagnarli, proprio per il modo di portare il tema, la melodia. È stimolante anche perché ti obbliga ad imparare i brani in tonalità diverse, ed è importante perché, come mi diceva Buster Williams, se un brano non lo conosci in tutte le tonalità non puoi dire di conoscerlo a fondo! La mia cantante preferita è Carmen Mcrae, poi Billie Holiday e Frank Sinatra. Dovrei forse approfondire la conoscenza dei testi, che (come sostenevano Lester Young e la stessa McRae) sono quasi più importanti della melodia. La grandezza della capacità improvvisativa dei cantanti non sta tanto nell'abilità nello scat bensì è proprio la capacità di interpretare la melodia mantenendola (o anche rendendola ex novo) funzionale al contenuto del testo. Il phrasing, insomma. George Cables, che ha suonato a lungo con Dexter Gordon, mi diceva che Gordon, sulla scia di Lester Young, riteneva il testo d'importanza fondamentale e prima di staccare un brano spesso si girava verso la ritmica e recitava il testo.

M.L.: E dimmi, tu potessi realizzare un sogno, con quali musicisti vorresti suonare?
P.B.: Posso proprio parlare, se di sogno si tratta, di nomi leggendari? Roy Haynes, Hank Jones, James Moody, Rollins, McLean… E poi Lewis Hayes, con cui ho suonato in jam quand'ero a New York. Tra i giovani poi mi piace molto Peter Bernstein, con cui ho avuto occasione di suonare anni fa, a Villa Celimontana. E poi, se posso far nomi anche di grandi ormai scomparsi, i classici Miles Davis, Coltrane, Monk, ma anche Bobby Timmons, pianista a mio parere molto sottovalutato. L'anno scorso ricorreva il trentennale della sua morte, e con Jimmy Cobb (che con Timmons aveva suonato) abbiamo dedicato un progetto al suo repertorio. È stato molto emozionante.

M.L.: Quali sono, tra i jazzisti che compongono (al di là dei grandi compositori del songbook americano), quelli che ami di più?
P.B.: Mi piacciono molto Horace Silver e Benny Golson. E poi Thelonious Monk. E per quanto riguarda i compositori classici, invece, Cole Porter, ma non conosco i songwriters come dovrei. Infine, quasi un trait d'union tra queste due tipologie, Duke Ellington.

M.L.: Quali dischi stai ascoltando in questo momento?
P.B.: Ma guarda che non è molto indicativo, magari tra pochi mesi te ne dico altri!

M.L.: Non importa, intanto può essere un suggerimento per chi sta scrivendo e per chi leggerà…
P.B.: Ora come ora sto ascoltando un disco di Kenny Dorham uscito su cd per la Blue Note, dal titolo Whistle Stop. Ma nel mio lettore cd non mancano mai i dischi di Miles Davis con Coltrane, Philly Joe Jones, Garland e Chambers. Philly Joe Jones è il mio batterista preferito, in assoluto.

M.L.: Per quali buone ragioni un giovane dovrebbe avvicinarsi al jazz? Che è poi come chiederti: perché sei un musicista di jazz?
P.B.: Prima di tutto, perché è una musica che si crea insieme. Poi, si crea nell'atto in cui si suona, e questo "responsabilizza" molto. È paragonabile ad una conversazione. È totalmente coinvolgente, è importante (oltre all'ascolto dei dischi) andare i concerti, condividere con chi suona tale creazione estemporanea, e conoscere i musicisti, scambiare idee e stimoli. E siccome per la creazione di questa musica, che al tempo stesso ti dà la possibilità di esprimere la tua individualità, è necessario il rispetto reciproco, questo le dà anche una certa valenza morale. È importante entrare in relazione con gli altri, e non "mettersi al di sopra" degli altri. Per questo motivo sono convinto che valga in buon vecchio assunto per cui less is more, il meno è il più, il meglio. Il silenzio, quello che non suoni, è importante quanto quello che suoni. A me poi piace molto suonare acustico, senza amplificatore, quindi amo suonare con musicisti che condividono questo approccio. In questa situazione il mio accompagnamento è parte del discorso musicale comune ed è attraverso di esso, più che negli interventi solistici, che trovo la possibilità di esprimermi. Ad esempio Israel Crosby, il bassista che suonava con Ahmad Jamal alla fine degli anni '50, suonava con questa parsimonia senza soli di cui io ricordi e dove ogni nota è lì perché deve esserci, niente di più. E il batterista che lo accompagnava, un altro genio, Vernel Fournier, glielo permetteva e lo assecondava, consentendogli di esprimersi. Quei dischi di Jamal sono davvero esemplari, un elogio dell'essenzialità. Non a caso Miles Davis vi si è molto ispirato. Credo che Jamal sia molto più "grande" di quanto la critica riconosca. Ecco, il mio amore per il jazz nasce da queste mie convinzioni. Ne deriva poi che trovarsi umanamente in sintonia con una persona sia imprescindibile per poi poterci suonare, prima ancora del suo livello tecnico, che diventa secondario. Con ciò non voglio dire, ad esempio, che un solista che si lanci in soli lunghissimi stia suonando per sé e non per la musica: pensiamo a Coltrane, i cui soli dal vivo potevano essere interminabili. Ma era tutta la band che suonava con lui. Parlare molto, comunicare, discutendo di pregi e difetti, aiuta a venirsi incontro, in questo senso.

M.L.: Bene, siamo al termine dell'intervista, vuoi parlare di altri progetti in cantiere?
P.B.: Mah, a parte registrare con Roberto e Alice, poi col quintetto bolognese, dopodiché prepararmi al tour estivo e autunnale con Dave Liebman e infine progettare un altro viaggio a New York, non saprei…

M.L.:Prendere questa benedetta laurea al Dams, visto che ti manca poco, no!?
P.B.: …Uhm… di quello magari riparliamo nella prossima intervista!







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Data pubblicazione: 12/03/2006

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