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Intervista a Matteo Brancaleoni
Gennaio 2006
di Laura Dominici

Ha debuttato poche settimane fa con il disco Just Smile, edito da Philology, insieme a grandi stelle del firmamento jazzistico italiano, che lo hanno accompagnato e presentato in un lavoro, se permettete, in un lavoro di gran gusto e stile. Ma Matteo Brancaleoni, cantante 25 anni, milanese, non è certo una new entry: alle spalle un lavoro di anni di studio, preparazione e collaborazioni importanti, ma anche teatro e giornalismo.  Complimenti ed apprezzamenti per il suo primo lavoro stanno arrivando da illustri personaggi del mondo musicale come  Renzo Arbore che, incontrato ad Umbria Jazz Winter, ci ha detto: “Matteo è un grande talento ed ha una bellissima voce, fra le migliori della sua generazione.



Il suo disco sta riscuotendo un invidiabile successo di critica tanto che alcuni quotidiani l’hanno già soprannominato “l’erede italiano di Sinatra”. Indubbiamente il paragone con The Voice sembra un po’ azzardato ed è figlio dell’ormai diffuso semplicismo dei mass media, certo Matteo, fra le pochissime voci maschili “jazzy” italiane, ben si colloca sul filone del repertorio portato in auge dai grandi crooner, del passato, di cui Sinatra rappresenta l’esponente più di spicco.

Matteo però non fa e non vuole essere una caricatura di qualcuno, e nonostante si percepiscano i suoi cantanti di riferimento, oltre al citato The Voice anche Bennett, Tormè, Nat King Cole e Chet Baker, in questo primo suo lavoro dimostra di aver iniziato a tracciare un suo percorso personale anche se rispettoso della tradizione. Ma è dal vivo che ci si può toccare con mano l’esperienza maturata in una lunga gavetta, di questo giovane che quando sale sul palco ha quel fascino che riesce a rapire ed incantare come pochissimi cantanti oggi riescono a fare. Il suo mentore Renato Sellani me l’aveva detto al telefono, anche se un po’ prevenuta mi sembrava un po’ troppo lusinghiero:  “Ho accompagnato tanti bravi cantanti, ma Matteo è diverso. Ha quella commistione di talento, umiltà, passione e determinazione che lo porteranno lontano”. Ma alla fine del concerto non potevo che essere d’accordo con lui. Così abbiamo incontrato questo giovane che sembra, con il suo disco, mettere d’accordo i più intransigenti jazzofili e  gli appassionati del vocal jazz più tradizionalisti.

Laura Dominici: Allora Matteo, ti aspettavi tutti questi apprezzamenti dalla critica e da personaggi come Arbore?
Matteo Brancaleoni:
Beh senza dubbio no. Mi hanno preso alla sprovvista come capita per le cose più belle. Dischi qua e là li avevo mandati, e già sarebbe stato tanto se qualcuno l’avesse preso in considerazione. Ma che addirittura persone come Arbore, persino il Maestro Riz Ortolani (che ha scritto il brano “More” incluso nel disco n.d.r.) e Michael Bublè, mi chiamassero per complimentarsi beh questo non me lo sarei di certo immaginato. Non può che farmi tantissimo piacere.

L.D.: Addirittura Michael Bublè! Scusa ma sono curiosa, mi puoi raccontare qualcosa?
M.B.:
L’ho conosciuto tre anni fa credo, in occasione di un suo concerto a Torino. Io lo dovevo intervistare per il suo fan club italiano gestito da Domenico Trubiani. In Italia erano in pochissimi che lo conoscevano e forse anche per questo fu più facile incontrarlo. Fu molto gentile e carino con me. L’intervista filmata fu parecchio divertente e per gioco accennammo a cantare qualcosa insieme. Da lì è poi nata una simpatia non la chiamerei proprio amicizia,  comunque, ci sentiamo di tanto in tanto e quando è in Italia, compatibilmente con i suoi impegni ci si vede, specialmente ora che è una vera star è sempre molto indaffarato. E’una persona veramente straordinaria ed un grandissimo artista sono contento del suo successo perché se lo merita tutto.

L.D.: Questo è un genere che è tornato recentemente di moda, tu da quando ti ci sei avvicinato?
M.B.: Per me non è una questione di moda. Da sempre ascolto e canto queste canzoni. Pensa che alle medie, il mio maestro di musica mi chiamava sempre “Sinatra” e mai con il mio nome. Se ti dico “ce l’ho nel sangue” fa molto “spaccone”, però è così.  Questi brani sono una parte di me. Anche se amo ascoltare un po’ di tutto, non solo jazz.

L.D.: Come hai iniziato?
M.B.:
A cantare? Io studiavo chitarra classica prima e gli strumenti da “musicista” sono importanti. Non mi sono mai accontentato di cantare senza sapere quello che facevo. Il primo passo per tutti credo sia quello di riprodurre, imitare qualcosa che ci piace. La consapevolezza viene dopo con molto studio ma anche con ascoltando concerti e dischi e soprattutto i consigli di musicisti più grandi. Lo studio è importantissimo, ma lo è altrettanto il confronto con altri musicisti. Ho avuto la fortuna in questi anni di aver incontrato grandi musicisti e cantanti e da ognuno di loro ho imparato tante piccole cose che mi sono tornate utili in seguito.

L.D.: Hai un cantante che particolarmente preferisci?
M.B.:
Uno in particolare sarebbe riduttivo, e mi sembra ridicolo farti un elenco di grandi del passato anche se fa’ “figo” fare tanti nomi. Fra quelli che più mi commuove è Jimmy Scott. Amo la diversità delle voci, di tutte anche di cantanti che non sono vicini a quello che mi piace. Credo sia importante il rispetto di tutti musicisti e cantanti nella loro diversità anche se magari non sono vicini al mio gusto. Ognuno trasmette qualcosa e può insegnarmi qualcosa. Detesto le invidie e malignità fra artisti, che è una prerogativa di noi italiani, perché all’estero non ho mai sentito parlare male un musicista di un suo collega.

L.D.: Senti il titolo del disco “Just Smile” da cosa nasce?
M.B.:
E’ preso dal testo della canzone di Chaplin. “Basta sorridere” è un messaggio che mi rappresenta molto, nel mio modo di fare determinato e giocoso di affrontare la vita ed ogni problema.

L.D.: Riguardo ai musicisti che ti accompagnano. Li hai scelti tu?
M.B.:
Sì. L’idea iniziale era un disco piano e voce con Renato. Ma volevo che vi prendessero parte anche quei musicisti che più o stimato e con i quali avevo già avuto occasione di lavorare.  Volevo fare qualcosa che sentivo veramente  potesse rappresentarmi. E volevo farlo con musicisti come loro che mi hanno regalato tante emozioni e che mi hanno aiutato a muovere i primi passi.   Mi sento onorato e fortunato mi hanno fatto un grande regalo ad aver accettato. Lavorare con Franco Cerri, Gianni Basso, Fabrizio Bosso, Stefano Bagnoli e Massimo Moriconi, è stato fantastico, ho imparato tantissimo. Verso tutti loro nutro un grande affetto, amicizia e riconoscenza.

L.D.: Con Sellani, ormai state diventando quasi una coppia fissa?
M.B.:
Renato è e sarà sempre il mio maestro. Non ho parole per descrivere la gratitudine che ho nei suoi confronti. Non ho mai fatto un disco fino adesso  per la mia dannata insicurezza. Non mi piace mai veramente quello che faccio a volte mi sento inadeguato. Spesso sento di non essere pronto che devo ancora imparare tanto e che devo perfezionarmi. E questo mi blocca. Se Renato non mi avesse dato fiducia ed  incoraggiato  non avrei registrato neanche questo. Mi ha insegnato che nella musica, come nella vita,  si cresce solo andando avanti senza la paura di sbagliare e che solo così si impara davvero. Insomma il “Fare o non fare, non c’è provare” che diceva Yoda, hai presente quello di Guerre Stellari? Ecco Renato è un po’ il mio maestro Jedi (ride)

L.D.: Senti riguardo il repertorio e gli arrangiamenti?
M.B.:
Li abbiamo scelti io e Renato. Avevo in testa molti degli arrangiamenti, ma arrivati in studio ho trovato molto più bello ed interessante lasciare a tutti la libertà di esprimersi al meglio con propri suggerimenti. Chi aveva da imparare ero solo io. Ho voluto registrare tutto in  diretta, 1 o 2 takes a brano, per cogliere la magia del suonare insieme, anche a scapito di piccole imperfezioni. Poi studiando le parti mi sono accorto che molto spesso conoscevo un’improvvisazione famosa non la melodia originale. Quindi ho cercato di attenermi il più possibile allo spartito, lasciando l’improvvisazione agli strumenti e concentrandomi sull’interpretazione magari facendo piccole variazioni a livello melodico o ritmico.

L.D.: Ami più definirti un crooner o un cantante di jazz?
M.B.: Non amo le etichette. Non mi definisco un jazzista perché ho troppo rispetto e venerazione per loro, per i veri musicisti intendo. Sono un appassionato questo sì. Non ho la pretesa di inventare nulla di nuovo. Sono giovane e ho tanto da imparare, ma amo questa musica da sempre e quello che ho cercato di fare è semplicemente ridare e condividere, con grande sincerità quello che mi trasmette questa musica.

L.D.: Sogni e progetti per il futuro?
M.B.: Beh il milione di copie vendute è un sogno in effetti troppo grande (ride). A breve la laurea, sono rimasto un po’ indietro per lavoro, e non so quindi se collocarla fra i sogni o i progetti (ride). Un po’ di concerti e un nuovo disco magari con brani miei.







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Data pubblicazione: 18/03/2007

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