Tracce di jazz, ma solo tracce. Il lavoro di Amira si muove su delle interpretazioni della musica folkloristica macedone e serba attraversando, ma solo attraversando, degli schemi vicini al jazz. Incursioni che si ascoltano quasi unicamente nei soli di violino e di sassofono e, in alcuni casi del piano.
La voce di Amira è molto interessante, la sua timbrica è avvolgente e detta i tempi, lenti e mesti, dell'etnia che rappresenta.
E' l'evoluzione dei suoni, il radicalismo del tumulto creativo che si estrinseca nella storia.
Mancano, però, quelle contaminazioni espressive che hanno reso poliformico il jazz.
La matrice popolare viene mantenuta tutta senza alcuna rielaborazione particolare.
La tecnica dei musicisti è molto valida e si possono sentire echi evansiani
in Si zaljubiv edno momce lì dove il piano e la voce s'intersecano per dar vita ad una nenia dolorosa.
Ed ancora è il piano a tracciare le melodie più belle in Zajdì, Zajdì.
"Il jazz non ha direzioni né mai le avrà" diceva il grande Miles. Sacrosanto, ma nel caso di
Amira la direzione è ben delineata ed è del tutto diversa dal jazz. Certo le sonorità che si ascoltano riconducono al gipsy o alla musica manouche e, in altri casi, la bella voce di
Amira profuma di Fado.
Ogni strumento si muove all'interno di schemi ben definiti da secoli, decisamente più antichi del jazz, o almeno dalla sua nascita codificata. Dodici tracce cariche di vita, di epoche, di tradizione.
Amira si discosta da alcuni stereotipi ed imposta il lavoro con grande personalità.
Forse lei, almeno lei, non ha pensato troppo alla commistione dei suoni ed alle diverse contaminazioni. Ha cantato, suonato e composto in piena libertà senza porsi troppi problemi e seguendo solo ed unicamente il suo istinto.
Alceste Ayroldi per Jazzitalia