Ultime tre giornate del festival torinese, ripreso in sicurezza, riannodando
i fili di programmi interrotti, rimandati, rimodulati, ripensati. Come hanno ricordato
i direttori artistici, per venire incontro alle esigenze imposte dalla forzata riduzione
dei posti negli spazi destinati ai concerti, tutti gli artisti intervenuti al festival
hanno accettato la proposta di raddoppiare i loro set pur mantenendo il medesimo
cachet, consentendo così a un maggior numero di persone di assistere.
In un piuttosto insolito orario pomeridiano, il quartetto del sassofonista Donny
McCaslin, con Jason Lindner alle tastiere, Nate Wood alla batteria,
Tim Lefebvre al basso e l'ospite Gail Ann Dorsey alla voce e chitarra
acustica ha invaso i suggestivi spazi delle OGR. McCaslin, Lindner e Lefebvre erano
tutti convocati sull'ultimo disco di David Bowie, «Blackstar», pubblicato
nel 2016, un capolavoro assoluto, alto e dolente.
E la Dorsey con Bowie ha collaborato per oltre un ventennio, suonando il basso e
cantando. McCaslin, classe 1966, può vantare una lunghissima esperienza musicale,
iniziata già da dodicenne con il padre vibrafonista. Tra numerose opere da leader
e svariate collaborazioni (Dave Douglas e Maria Schneider per citare le principali),
è approdato, dopo il fortunatissimo lavoro con Bowie, alla sua più recente produzione,
«Blow», del 2018. A Torino il sassofonista,
visibilmente emozionato, ha confessato che il gruppo si stava esibendo in pubblico
dopo oltre un anno di silenzio, e ha voluto presentare il concerto leggendo in italiano.
La sezione ritmica potentissima, con un Lindner scatenato, ha fatto svettare il
sax tenore del leader, intenso e comprensibilmente desideroso di suonare in pubblico.
Dopo un paio di brani, la voce di Gail Ann Dorsey ha impresso una svolta al concerto
all'insegna di una delicatezza ricercata, con la canzone Eye of the Beholder,
dal citato disco del gruppo «Blow». La voce della Dorsey forse non presentava
l'elevata drammaticità necessaria a interpretare Lazarus di Bowie, che comunque
il gruppo ha eseguito con impegno, mentre è stata davvero convincente nell'esecuzione
delle sue composizioni accompagnandosi alla chitarra acustica.
Nelle due giornate seguenti, presso il Teatro Vittoria,
si sono succeduti due concerti per sole percussioni profondamente diversi tra loro,
direi esattamente antitetici: quello di Nate Wood, batterista di McCaslin,
e quello di Roberto Dani. Wood, che al drum set ha aggiunto delle
tastiere, un basso e la voce, ha presentato il suo fOUR, una esibizione muscolare,
tonica, nella quale prevalevano un ostentato virtuosismo polistrumentale, l'uso
funambolico di più strumenti in contemporanea, tanto drum'n'bass, il canto, e una
spettacolarità epidermica. Dani ha invece utilizzato un set percussivo minimale,
quasi zen, una cetra, piccoli oggetti, i piatti suonati con degli archetti, una
gestualità sobria ed elegante, ieratica, mettendo al servizio della sua performance
una lunga e multiforme esperienza artistica, con risultati di suggestiva efficacia,
utilizzando una gamma di colori che andava dal pianissimo al fortissimo, dal lento
al frenetico, al servizio di un'espressività convincente.
A Torino Arto Lindsay è arrivato insieme a Paul Wilson alle tastiere,
Melvin Gibbs al basso, Marivaldo Paim alle percussioni e Kassa
Overall alla batteria. Lindsay è una sorta di "marinaio perduto" tra diversi
linguaggi musicali, un intellettuale che mescola il noise chitarristicodi matrice no wave, con il quale come per mettere subito le cose in chiaro
ha dato aspro avvio al concerto, alla canzone brasiliana affidata alla sua inconfondibile
flebile voce. Il concerto ha lasciato trapelare la vastità dei suoi molteplici mondi
musicali, tra i quali si muove con una forte e immediatamente riconoscibile impronta
personale. Validamente spalleggiato dai quattro partner cui ha dato ampio spazio,
ha eseguito musiche nuove e altre tratte dal suo ultimo lavoro, «Cuidado Madame»
del 2017, con sconfinamenti hip-hop grazie all'apporto
vocale di Kassa Overall.
Melvin Gibbs, nella stessa giornata, è tornato a suonare, stavolta con lo
Zig Zag Power Trio, insieme a Vernon Reid e Will Calhoun. Reid,
noto quale fondatore dei Living Colour, è un chitarrista che si muove con dimestichezza
tra un rock pregno e sanguigno e atmosfere di derivazione ornettiana. Alle OGR una
prova piuttosto monolitica data la formazione, che tuttavia teneva conto delle sue
esperienze in seno alla Decoding Society di Ronald Shannon Jackson, con omaggi a
Coleman (Lonely Woman) e una bella esecuzione della Freedom Jazz Dance
di Eddie Harris. I partner, collaboratori di lunga data, lo hanno supportato al
meglio nel lungo set, fino al trascinante bis firmato Ronald Shannon Jackson.
L'ultima serata del festival è stata interamente dedicata all'Africa. Il primo gruppo
sul palco, Korabeat, era costituito da tre senegalesi (Cheikh Fall,
kora e voce; Samba Fall, batteria; Badara Dieng, percussioni) e due
italiani (Gianni Denitto, sassofoni e Andrea Di Marco, basso), tutti
residenti in una Torino sempre più aperta e felicemente multietnica, hanno introdotto
festosamente la serata, scaldando la platea per il gruppo del grande Salif Keita
Une autre blanc. Insieme al leader, Golden Voice of Africa, classe 1949, Cisse Abou,
sequencer; Adonaide Bohui, tastiere; Mamadou Diabate, kora; Oumarou Diarra, batteria;
Djessou Mory Kante, chitarra; Molobaly Kone, percussioni; Modibo Sissoko, basso;
Onane Lydie Zamati e Bah Kouyate, voce, danza. Keita, maliano, uno del maggiori
esponenti della world music, ha offerto a Torino uno spettacolo entusiasmante, ricco
di colori, di danze, una profonda testimonianza d'amore per la propria terra, con
la sua inconfondibile voce ben supportata dalle due coriste e da una formazione
di alta qualità, per uno spettacolo coinvolgente ed emozionante. Tra le note festose
di Africa e alcune ballate di carattere politico affidate alla sola voce
e chitarra acustica del leader, uno splendido finale per un festival che ha degnamente
celebrato il ritorno alla vita sociale.
Tra gli aventi collaterali, chi scrive ha seguito l'incontro presso la prestigiosa
sede del Circolo dei lettori con il precedente direttore artistico del festival,
Stefano Zenni, che ha tenuto una interessantissima e illuminante lezione
sulle modalità improvvisative in Charlie Parker.