Oddio! Non è facile descrivere le sensazioni – abrasioni uditive – che emergono da questo britannico lavoro. Un lavoro marcatamente libero dagli schemi. Ognuno, in modo ordinato, cerca di dare il proprio apporto. Maggiormente il leader
Paul Dunmall.
Tre piece di musica free, veramente libera. Forse troppo.
Le tessiture si squarciano e si riempiono dei suoni – sempre e rigorosamente arbitrari – di
Dunmall. Accenni, sempre asistolici, di suoni jazz.
Quindici elementi che articolano e disarticolano foremi. Un lievitare di timbri che si sovrappongono ben sostenuti dalla sessione ritmica (soprattutto nella part two) dove la tromba di
Lennington si ritaglia uno spazio nel quale naviga intrecciandosi con gli altri fiati.
Sonorità aspre, metropolitane (ma nel senso da prova di fiati nella suburban way londinese!). Battute libere con un'orchestralità da prima prova. Sempre e comunque. Si alternano a prove – sempre molto libere – dei singoli strumenti.
La forma libera impazza in ogni parte dei tre pezzi. Gli strumenti s'intrecciano nelle loro performances senza lasciare niente al caso, ma neanche alle armonie.
In alcuni momenti sembra che il mare tempestoso dell'improvvisazione si plachi. Ma poi riprende il tumulto e, per certi versi, l'angoscia!
I fiati la fanno da padrone: urlano e strepitano come non mai. L'improvvisazione? Quella ce ne è, ed è tanta.
Al termine dell'ascolto rimane ben poco sia dal punto di vista musicale e sia dal punto di vista letterario.
Dunmall vorrà anche la pace, ma non la dona.
Alceste Ayroldi per Jazzitalia