"C'è un nuovo mondo che ci aspetta, iniziamo una marcia lunga e difficile in questo territorio del quale ancora non esistono le mappe".
Francis Bacon
L'espressione "voce sporca" si è oramai diffusa ad indicare un modo di usare la voce che si allontana considerevolmente da quello che è sempre stato ritenuto il modello "classico" in base al quale la ricerca del cosiddetto "suono pulito" occupa una posizione privilegiata anche perché necessaria.
Nell'ambito della canzone "popolare" il rapporto con la propria voce è molto diverso. La "tecnica" è, comunque, essenziale ma assume sfumature differenti a seconda del modo in cui si decide di cantare.
La mia esperienza in ambito jazzistico mi ha insegnato che cantare facendo uso di determinate sonorità non esclude l'utilizzo della tecnica ma, come dicevo prima, richiede uno studio ed un'applicazione differente della stessa sia per quanto riguarda l'emissione e l'articolazione dei suoni sia per quanto riguarda la gestione del fiato e delle risonanze.
Nel corso dei miei
studi sulla voce la mia attenzione si è andata sempre più concentrando sul
recupero di un certo tipo di sonorità tipiche del jazz che /bigger>/color>oggigiorno/bigger>/color> si stanno via via perdendo proprio in conseguenza dell'introduzione sempre più estesa dello studio della tecnica vocale anche all'interno di questo genere artistico così particolare.
È chiaro che si può cantare il jazz in modi molto diversi.
È solo una questione di scelta.
E' indubbio, però, che, all'interno di ogni genere musicale, il tipo di sonorità utilizzate ne costituisce una componente caratteristica allo stesso modo del fraseggio e del groove.
Cantare il jazz, infatti, non significa solamente attenersi a quel modo così particolare di "stare sul tempo" o acquisire un ormai standardizzato tipo di fraseggio finalizzato unicamente alla "costruzione" di soli di ispirazione "boppistica".
Ma è anche un modo particolare di esprimere un certo tipo di emozioni per mezzo di sonorità che non necessariamente coincidono con il modello di "suono pulito" o con quello di "suono perfettamente intonato" che, come dicevo prima, costituiscono le caratteristiche principali di quella che viene comunemente definita una voce "educata". Anzi, a mio avviso, uno degli aspetti più
salienti della musica “non colta” e del jazz/bigger>/color>,/bigger>/color>
in particolare/bigger>/color>,/bigger>/color>
consiste proprio in quella sensazione di naturalezza e di spontaneità che /bigger>/color>ne/bigger>/color> caratterizza l’espressione vocale.
L'imprecisione nell'attacco di un suono che resta "traballante" finché non trova una sua giusta collocazione. Un suono preso in modo "calante" oppure in modo "crescente" e che resta tale nei suoi tentativi di rincorrere un tempo che non sempre è in grado di "afferrare". La caduta del fiato proprio su quelle note che, invece, dovrebbero essere ben "tenute". La percezione di una voce stanca e disfonica. Soffi di aria che spesso prevalgono sulle sonorità piene.
Un senso, cioè, di "imperfezione" generale che, tuttavia, in più di un'occasione, ha dato vita a brani di inesprimibile bellezza.
Chi vuole cantare il jazz, a mio avviso, non dovrebbe puntare sull'acquisizione di una tecnica vocale perfetta ma, prevalentemente, sull'utilizzo della voce come mezzo espressivo.
Tutti sappiamo che artisti del calibro di Billie Holiday, Chet Baker o Louis Armstrong non hanno mai preso lezioni di tecnica vocale.
Non mi risulta, tra l'altro, che essi si siano mai preoccupati di curare l'emissione del suono o addirittura l'intonazione delle note che cantavano.
Ma anche se ci riferiamo a cantanti come
Ella Fitzgerald o Sarah Vaughan non possiamo
fare a meno di osservare che, per quanto sia evidente che esse abbiano una
maggiore conoscenza della tecnica vocale,/bigger>/color> ne hanno
sempre fatto un uso molto personale.
Bisogna dire, tuttavia, che le voci di molti di questi artisti, e mi riferisco, in particolare, a Billie Holiday e a Chet Baker, erano qualcosa di più di semplici "voci sporche". Erano voci letteralmente distrutte e non semplicemente a causa di un utilizzo "scorretto" della tecnica vocale.
Dietro queste voci, infatti, c'erano dei corpi danneggiati dal fumo, dall'alcool o dalla droga e delle vite scalfite dalla rabbia che, in molti casi, nasceva dalle discriminazioni razziali che molti di loro hanno continuato a subire anche nei periodi in cui la loro arte aveva raggiunto il massimo del consenso.
Non possiamo, perciò, pretendere di cantare il jazz alla stregua di questi grandi interpreti.
Tuttavia, sempre a mio avviso, non possiamo neanche pretendere di farlo in maniera "troppo" pulita perché altrimenti, mi permetto di dire, non "cantiamo" più jazz.
Limitandoci, dunque, al discorso della ricerca delle sonorità, che cosa deve "insegnare", allora, un "insegnante di canto jazz"?
Personalmente ritengo che un insegnante di canto jazz, soprattutto per quanto riguarda questo aspetto della ricerca, deve educare l'allievo, prevalentemente, all'ascolto.
Le registrazioni lasciate dai grandi interpreti del passato, e non solo, sono, per noi, una fonte inesauribile di esempi dei modi più svariati di usare le sonorità nel jazz.
Il lavoro che mi propongo di fare, dunque, in questa prima serie di lezioni è quello di analizzare le varie tipologie di suono utilizzate dai più grandi interpreti di questo genere vocale.
E cercare di vedere come tali sonorità venivano da questi usate ai fini espressivi.
Provare, inoltre, a risalire al modo in cui questi suoni vengono articolati.
Non, necessariamente, con l'intenzione di riprodurli ma, anche, come semplice mezzo di indagine.
Una storia dei suoni, dunque, o, ad essere più precisi, una storia delle diverse sonorità che hanno caratterizzato un tipo specifico di vocalità quale appunto quella utilizzata nel jazz.
Durante questo lavoro di ricerca la nostra mente registrerà quanto stiamo analizzando e, quando verrà il momento, deciderà da sola, in base al gusto musicale che si è andata formando, quali tra i suoni appresi utilizzare e in quale momento farlo.
Premetto che il lavoro che sto facendo è un lavoro molto particolare su cui è scritto veramente poco. Anche se, a mio avviso, è un lavoro che meriterebbe l'attenzione non solo degli insegnanti di canto jazz ma anche dei musicologi e dei foniatri.
Per cui vi pregherei di perdonarmi se durante il cammino saranno più numerose le domande che lascerò in sospeso che quelle a cui riuscirò a dare una risposta.
Oppure se accorgendomi di aver preso una strada sbagliata tornerò indietro e ne proverò una nuova.
Sono ancora in una fase più che sperimentale e in questi momenti della ricerca, come tutti sappiamo, sono più numerosi i dubbi che le certezze.
Ma veniamo adesso al sottotitolo che ho dato a questa prima parte del lavoro e, cioè, "arte versus terapia"
[1].
Non sempre, infatti, l'arte è terapia come oggigiorno, invece, si cerca tanto di far credere.
E, senza pensare neanche minimamente di addentrarmi in ambiti che esulano dalle mie competenze, mi limiterò, semplicemente, a parlare dell'emissione e dell'articolazione dei suoni.
Come dicevo in precedenza, oggigiorno le voci nel jazz sono per la maggior parte "tecnicamente impostate" per cui determinate sonorità non vengono quasi più prese in considerazione anzi vengono spesso aborrite in quanto ritenute scorrette.
E se, invece, decidessimo di usarle?
Quali sono i vantaggi e gli svantaggi di utilizzare un certo tipo di sonorità da parte di chi ha una voce sana?
Quali, tra queste sonorità, potrebbero essere particolarmente dannose per la voce?
In altre parole, quanto queste particolari sonorità possono essere o meno "clinicamente" accettabili?
Ma, soprattutto, in che modo farle diventare parte del proprio "stile" senza, necessariamente, danneggiarsi in modo "irreparabile" la voce?
Ed è a questo punto che entrano in gioco le figure del foniatra e del logopedista ma, allo stesso tempo, sorge un nuovo problema.
Fino a che punto un logopedista possa o debba intervenire nel momento in cui si trova in presenza di modi di usare la voce che, per quanto "clinicamente" scorretti, possono essere considerati caratteristici di un determinato stile vocale?
Quali dovrebbero essere, cioè, i limiti di intervento della foniatria/logopedia all'interno di generi musicali come il rock o il blues o, appunto, il jazz?
In altre parole, come comportarsi quando l'arte si viene a scontrare con la terapia?
Se e quando utilizzare un certo tipo di sonorità è, a mio avviso, una questione di scelta personale.
Il problema, tuttavia, nasce nel momento in cui si passa dall'apprendimento all'insegnamento.
Come mi devo comportare, cioè, nei confronti di allievi che decidono, a loro volta, di cantare utilizzando suoni che io so che, a lungo andare, potrebbero provocare dei danni, anche permanenti, alle corde vocali o che, comunque, potrebbero avere ripercussioni negative su una eventuale decisione, da parte di queste persone, di fare del "cantare" la propria professione?
Quanto un insegnante abbia il dovere di intervenire sulla voce di un allievo quando si ha a che fare con stili che richiedono l'utilizzo di sonorità che potrebbero risultare "dannose" per la voce è stata, in verità, una domanda che mi sono sempre posta.
Io, personalmente, non amo intervenire
troppo sulle voci dei miei allievi e, spesso, mi limito a guidarli all'ascolto e
all'esplorazione di quei suoni che, a mio avviso, possono essere considerati
caratteristici dello stile di cui mi occupo. Tra l'altro, nel corso della mia
esperienza, ho avuto modo di osservare che più le persone vengono lasciate
libere di "cercare" personalmente il proprio modo di cantare più non soltanto
procedono rapidamente in questa loro ricerca, quanto anche apprendono ed
applicano con maggiore facilità le indicazioni che io fornisco loro. Devo riconoscere, tra l’altro, che questo
costituisce uno dei motivi principali per cui, più che un'insegnante di canto,
preferisco definirmi una "ricercatrice in campo vocale". Io
non insegno niente né tanto meno mi pongo come chi si sente in grado di
farlo. /bigger>/color>Chi
viene da me sa che ciò che mi limito a fare è trasmettere la mia esperienza. /bigger>/color>Che quello che io
posso fare per loro
è/bigger>/color>,/bigger>/color>
semplicemente/bigger>/color>,/bigger>/color> mostrare come io ho lavorato. Comunicare loro quello che io ho cercato e quello che io continuo a cercare. Come sono riuscita a trovare le cose che ho trovato. Quali sono stati gli impedimenti che ho incontrato lungo il mio cammino e come sono riuscita a superarli o quantomeno ad aggirarli.
Espongo, senza remore, tutti i miei dubbi e gli interrogativi che continuamente mi pongo.
Perché, perdonatemi il luogo comune, non si finisce mai di imparare!
Dicevo prima che io mi limito a guidare l'allievo all'ascolto e all'esplorazione di determinate sonorità.
Ma come?
Per quanto riguarda l'ascolto, come ho già scritto precedentemente, si tratta di andare a rintracciare tutte quelle sonorità che non soltanto hanno caratterizzato le grandi voci del jazz prese nella loro individualità ma che possono, addirittura, essere considerate come caratteristiche distintive di un intero stile vocale.
In che modo, invece, è possibile "esplorare" tali sonorità senza correre il rischio di danneggiarsi la voce?
Prima di tutto attraverso lo studio dell'apparato fonatorio.
Studio che, ripeto, deve essere affrontato non con fini terapeutici ma ponendosi come obiettivo semplicemente quello della conoscenza.
Da tale lavoro si passerà, quindi, allo studio degli organi articolatori e del loro funzionamento.
Anche in questo caso l'obiettivo non sarà quello di "imparare a…" ma di affinare, mediante una maggiore consapevolezza, la capacità propriocettiva nei confronti di tutte quelle parti del nostro corpo coinvolte nell'atto fonatorio.
Questo lavoro è molto importante perché non solo ci consente di "esplorare" i vari modi in cui gli organi fonatori possono interagire tra di loro dando vita ad effetti sonori differenti, quanto anche di "riconoscere", e, nel caso, "riprodurre" in modo consapevole o anche semplicemente istintivo, i suoni che ascoltiamo nelle registrazioni dei brani che decidiamo di studiare.
Riconosco che il lavoro che mi propongo di portare avanti in questo primo gruppo di lezioni non è certo dei più semplici e che, sicuramente, si tratta di un lavoro che deve essere affrontato con molta umiltà.
Ma, personalmente, ritengo che i tempi siano orami maturi per iniziare!
Con affetto Sandra Evangelisti.
NOTE:
(1) "versus" è un termine che deriva dal latino e significa "contro, in opposizione a" (Nicola Zingarelli, Il nuovo Zingarelli: vocabolario della lingua italiana, Bologna: Nicola Zanichelli,
1983, XI edizione).
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Data ultima modifica: 12/10/2010
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