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Il "Porgy and Bess" di Gil & Miles: prefazione
di Ambrogio De Palma
jazzistadannato@hotmail.com


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Innanzitutto, devo un doveroso ringraziamento a Stefano Zenni, Aldo Gianolio, Paolo Fresu, Gavino Mele per l'Orchestra Jazz della Sardegna , Andrea Angeli per l'Archivio "A. Polillo" di Siena Jazz e Pieraldo Tamburelli, per la preziosa collaborazione che mi ha portato alla stesura di quest'analisi del Porgy evansiano. Vi sono state numerose rivisitazioni del Porgy & Bess, alcune senza dubbio storiche, tra le quali ci piace ricordare quelle di Ella Fitgerald e Louis Armstrong nell'arrangiamento di Russell Garcia, oppure quella di Eddy Louis arrangiata da Ivan Jullien, o quella di Sammy Nestico, fra le tante. Ultima in ordine di tempo quella di Paolo Fresu, dove con l'Orchestra Jazz della Sardegna con la partecipazione del cantante Linx in tre brani, grazie alla ricostruzione fatta da Gunther Schuller ripropongono l'arrangiamento evansiano in una veste leggermente diversa.

Correva l'anno 1958, quando Gil Evans e Miles Davis riunirono una folta schiera di musicisti per quattro sedute di registrazione di tre ore ciascuna, tra il 22 luglio e il 18 agosto, per una nuova produzione per la Columbia Records. Questa volta era un progetto assai ambizioso, la rilettura in chiave jazzistica del Porgy & Bess di George Gershwin. Ambizioso anche perchè si doveva porre particolare attenzione a cogliere le sfumature blues e jazz che l'opera contiene, e soprattutto il far dimenticare che, seppur anomala, sempre di un'opera lirica si trattava.

Sebbene, nei ricordi di Miles, la fonte ispiratrice di questa produzione non sia tanto il valore dell'opera, quanto il fatto di essere andato a vedere ballare su queste musiche Frances Taylor (che poi divenne sua moglie). Questa volta, però, non ci troviamo di fronte alla riduttività di un arrangiamento o di una rivisitazione, ma di una vera e propria rilettura. Evans mette in discussione tutto il materiale musicale gershwiniano e lo rielabora secondo il proprio stile e secondo la continua ricerca e la fame di sperimentare, elaborare, conoscere. Una riflessione non solo sulla musica ma anche sulla parte letteraria e sulle concezioni socio-culturali che sfociarono poi nella "rivolta nera".

In questo periodo, la sua produzione orchestrale si discosta totalmente dal panorama jazzistico circostante. Egli porta avanti un'idea musicale che lo portò a compiere delle scelte importanti, quando un decennio prima si allontanò dall' orchestra di Claude Thornhill, per le continue divergenze che riguardavano il concetto di orchestra, l'evoluzione di un linguaggio che Evans cercava ad ogni costo, ma che forse era già un decennio avanti rispetto ai suoi contemporanei. Spesso con concezioni assimilabili al miglior Ellington, riferendoci soprattutto alle doti di orchestratore. La scelta fatta sul campo, la scelta fatta ad personam. Il suono basato sulle qualità dell'esecutore e non secondo una concezione che potremmo definire quasi teorica. La ricerca di un sound che sia la realizzazione della musica intesa come frutto della collaborazione del compositore con quel musicista, non con qualunque musicista suoni quello strumento. Contravvenendo, a volte, alle più elementari regole del manuale del perfetto orchestratore, creando effetti timbrico-espressivi ora espressionisti ora impressionisti(1).

L'affiatamento sempre più crescente con Miles, la perfetta sintonia sull'idea del jazz che all'epoca li vedeva promotori di una vera e propria filosofia di pensiero che andava anche oltre la musica, porta Davis ed Evans a cercare di carpire il pensiero jazzistico di Gershwin più che le note scritte nella partitura. Come Evans stesso ribadì durante una  delle sedute di registrazione: "Mi sembra che a questo album abbiamo collaborato tutti e tre".

Dicevamo, dunque che la conduzione delle parti nell'arrangiamento e la molteplicità timbrica dell'orchestrazione che Evans approntò fanno presupporre che egli pensò ad un lavoro mirato ai musicisti che collaborarono per quella produzione. Basti pensare all'introduzione di "The Buzzard Song"; se ancora oggi non sono molti i trombettisti in grado di poter iniziare una brano con un Sol sovracuto, quasi cinquant'anni fa erano senz'altro meno. E ci piace pensare che questa concezione sia stato il filo conduttore di tutta la produzione evansiana da qui in avanti: lo scrivere musica da poter adattare all'esecutore e non viceversa. La continua ricerca di collaborazione dai musicisti che lavoravano con lui per fondere esperienze diverse in un'unica concezione della musica.

Per questi motivi, Gil, nel Porgy & Bess, assume brillantemente il ruolo di mediatore tra due realtà ben diverse ed in antitesi tra loro. Da un lato si trova di fronte ad un opera classica da proporre in chiave jazzistica, composta con una scrittura orchestrale che poteva accostarsi al linguaggio jazzistico nella concezione musicale di Gershwin, ma che sarebbe sembrato assai ardito per poter essere eseguito dai musicisti della sua epoca. Dall'altro, Evans si trovava ancora in un periodo in cui la maggior parte dei jazzisti avevano notevoli difficoltà ad adattarsi a situazioni di "lettura" tipiche di una produzione sinfonica.

Notiamo infatti nella registrazione del Porgy, molteplici imperfezioni di insieme dell'orchestra (più o meno eclatanti), soprattutto nei tempi veloci (ad esempio in Gone), imputabili esclusivamente alla mancanza di pratica di lettura. Se è vero che l'imprecisione poco interessava a Gil, al punto che spesso sortiva espressioni del tipo "play what you want!", è anche vero che nell'insieme alcune di queste cose rischiano di far cadere nel ridicolo anche il lavoro più pregevole di un grande musicista.

Pensiamo ad un jazzman storico quale il contrabbassista Paul Chambers. Molto più a suo agio in situazioni di piccoli gruppi piuttosto che orchestrali. Il ricordo va subito al lavoro di ear training e a quanto tempo ci è costato cercare una giustificazione ritmica al suo imbarazzante ingresso in "It Ain't Necessarily So", sperando invano che non fosse un mero problema ritmico nelle terzine, ma che Gil avesse concepito una soluzione poli-ritmica. Probabilmente, il solo motivo plausibile è la mancanza di esperienza a seguire il gesto. Dato che un esempio analogo lo troviamo in quel "So What" che la Columbia pubblicò nel disco "Live at The Carnegie Hall" () (19 maggio 1961, Sony/Columbia), dove Chambers, dopo l'introduzione, parte probabilmente senza pensare ad un attacco del direttore, con le conseguenze che tutti possiamo ascoltare.

Qualche anno dopo, lo stesso Evans ebbe a dire: "Nella maggior parte dei casi sarebbe bastata una seduta in più per correggere gran parte delle imperfezioni. Se torno a pensarci, considero un insulto a me stesso il non essere riuscito a far valere i miei diritti".

Sia chiaro che quando parliamo di grossolanità non ci riferiamo certo ad incidenti che possono capitare a chiunque. Ad esempio, sempre nel "So What" a cui facevamo riferimento poco fa, anche Miles perde il conto nella struttura dei choruses e in un punto rimane in re dorico anzichè passare in mi bemolle. Questi sono incidenti a cui non si da peso.

In Porgy And Bess, l'orchestra è pressoché simile a quella del precedente lavoro, Miles Ahead. Cambia, e di molto, la concezione del rapporto tra il solista e l'orchestra. Nel Porgy c'è quella dinamicità che nel disco precedente tardava ad emergere. Tutto il disco è basato su una organicità e vicendevolezza tra gli assoli di Miles e le risposte orchestrali. La chiave antifonaria della proposta di Gil e di Miles rende pienamente giustizia all'opera di Gershwin. Possiamo quasi azzardare che siano andati talmente a fondo da riuscire ad far emergere quelle radici di cui forse lo stesso Gershwin non era pienamente cosciente. Un lavoro molto faticoso per i problemi di salute che attanagliavano Davis, ma che ascoltandone il risultato lo hanno portato a dire: "E' un disco che mi piace. Lo comprerei!".


(1) Stefano Zenni, Il colore strumentale di Ellington, in Omaggio a Duke Ellington. Ancona, Istituto Gramsci Marche, 1998, pp. 27-37

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Data ultima modifica: 11/02/2008





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