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Intervista a BOBBY WATSON
di Daniele Cecchini

Una ventina d'anni fa, prima di porsi alla guida di numerose formazioni da lui create o di partecipare a gruppi all-leaders, Bobby Watson militò in una formazione che non necessita di presentazioni, i Jazz Messengers di Art Blakey ("Fu lui a insegnarmi che non dovevo cercare di esprimere tutto me stesso in un unico assolo").

photo by Giordano MinoraCoi Jazz Messengers, Watson affinò la tecnica e le capacità solistiche. Le prime possibilità di presentarsi come leader gli furono invece date da una delle più importanti etichette indipendenti italiane, in ambito jazz, la Red Records di Milano. "La Red mi ha dato la possibilità di registrare e suonare a Milano ma, soprattutto, di esprimermi finalmente come leader". Al 1985 risalgono i primi dischi dell'altosassofonista di Kansas City per la Red: Appointment in Milano (che rimane a tutt'oggi uno dei migliori esiti discografici di Watson) e Round Trip, registrati congiuntamente; a fianco del sassofonista si trova un trio ritmico italiano, l'Open Form Trio, composto da Piero Bassini (pianoforte), Attilio Zanchi (contrabbasso) e Giampiero Prina (batteria): si tratta delle uniche incisioni di Watson al fianco di musicisti italiani. "Non c'è un contratto formale tra me e la Red, ma per me si tratta di un impegno per la vita, di una rapporto di fiducia con Sergio (Veschi, proprietario e producer della Red; N.d.R.). Ho inciso, e continuerò a farlo, per delle major come la Blue Note e la Sony/Columbia. In futuro potrei anche lavorare con altre grandi labels, ma non con un'etichetta indipendente che non sia la Red, per lo meno non in Europa".

Red Records vuol dire Sergio Veschi, un discografico che segue personalmente una buona parte delle sue produzioni, andando in studio coi musicisti; questo, per lo meno, quando non si tratta di produzioni realizzate all'estero, vista l'attitudine della Red a far incidere i propri artisti nei loro luoghi d'origine, senza forzarli a spostarsi in terra italiana. "Ho incontrato Sergio al club Le Scimmie, a Milano; l'ho conosciuto perché mi prestò il suo sax contralto per suonare. La proposta dei progetti per i dischi può venire da me come da Sergio. Per esempio, l'idea di un CD in completa solitudine (This Little Light of Mine, (CD Red Records 123250-2) è stata sua. Mi ci sono voluti alcuni anni per accontentarlo, ma alla fine ce l'ho fatta. Invece Quiet as It's Kept (CD Red Records 123284-2), il mio più recente CD come leader per la Red, è nato da un mio desiderio di proporre un repertorio più rilassato, più riflessivo. Ora abbiamo per la testa un progetto che prevede la creazione di una formazione all-stars completamente europea, con me alla guida. Vorremmo riunire alcuni musicisti che piacciono molto a Sergio con altri che piacciono a me, come Dado Moroni".

In questo momento, gli interessi maggiori di Watson ruotano attorno a due poli: il quintetto Horizon e le formazioni di grandi dimensioni. Sono queste ultime, naturalmente, a interessarci, visto che con questo numero di "Audiophile Sound" abbiamo la possibilità di ascoltare una registrazione inedita di Watson con una big band. La prima incisione di Watson con una propria orchestra risale alla fine del 1992: si tratta di un CD edito dalla Columbia intitolato semplicemente Taylor Made, ovvero col nome dell'orchestra messa assieme da Watson. In essa il sassofonista aveva chiamato a raccolta i musicisti dei suoi piccoli ensemble, creando una specie di "famiglia allargata" ("La big band è una situazione particolare: si instaurano rapporti d'amicizia e si crea una particolare familiarità tra i componenti dell'orchestra"). Si trovavano così riuniti, tra gli altri, Terell Stafford, Stephen Scott, Essiet Essiet e Victor Lewis (ovvero gli Horizon al completo) e anche Ed Jackson, Rich Rothenberg e Jim Hartog, che, con Watson, formano il quartetto di sassofoni 29th Street, il cui Live (CD Red Records 123223-2) è un altro dei capisaldi della discografia del sassofnista statunitense. Nel primo CD con la big band, Watson sembrava ricoprire solo il ruolo di direttore, oltre a quello di compositore-arrangiatore. "Con l'orchestra mi esibisco come solista, dirigendola al tempo stesso, ma mi piace anche solo starmene a guardarla mentre suona i miei brani. Effettivamante, però, nel libretto del CD Taylor Made non sono stato indicato come solista al sax contralto. Inoltre c'è una mia foto mentre dirigo che può avallare ulteriormente l'idea che io mi limiti a dirigere l'orchestra. Ma non è così: imbraccio anche il sax come solista, anzi, sono soprattutto un solista. In quell'occasione avevo avuto la necessità di dirigere l'orchestra in maniera 'classica' perché si trattava di eseguire brani nuovi". Bobby Watson & Horizon - © 2002 Shoji Ichikawa Quel CD con la big band Taylor Made era dunque solo un primo movimento di avvicinamento a un ben preciso obiettivo da raggiungere con questo tipo di organico; Watson ha in mente un percorso da compiere con gli uomini della sua orchestra: "Il punto d'arrivo sarà quando i musicisti avranno ben memorizzato tutti i brani, in modo da poterli trattare con familiarità. Per me, l'orchestra è come una piccola formazione allargata; i suoi membri devono essere in grado di improvvisare sui materiali, fornire l'accompagnamento, 'lanciare' dei riff per gli assoli con la stessa facilità che se suonassero in un quartetto. Inoltre, vorrei vedere dei movimenti sul palco; non voglio creare un'altra di quelle orchestre i cui musicisti se ne stanno seduti dietro i loro leggii. Voglio che, se un sax duetta con un trombone, i due musicisti possano avvicinarsi tra di loro. Voglio poter camminare verso chi duetta con me. Per esempio: in una mia composizione, The Fear, la melodia è eseguita dalla tuba, sostenuta da un trio con tromba sordinata, flauto e clarinetto. Poi subentro io col sax, assieme agli altri fiati, mentre gli strumenti precedenti continuano a suonare, ma sullo sfondo. Segue quindi una serie di passaggi di testimone tra il trio più tuba e il resto dell'orchestra. Tutto ciò richiede di essere realizzato in performance, perché si possano fisicamente rendere visibili questi cambiamenti nei rapporti tra gli strumenti: il centro della scena e il background. Quando i miei musicisti sapranno eseguire le loro parti e improvvisare su di esse senza più la necessità di avere davanti a loro una figura direttoriale, nel senso tradizionale, avrò raggiunto il mio scopo. Vorrei trovarmi davanti all'orchestra e poter pensare solo ai miei assoli; è per questo che preparo gli arrangiamenti per la big band su misura ('taylor made'; N.d.R.) per me".

Tra il Taylor Made realizzato per la Columbia e il live giapponese edito ora da "Audiophile Sound" assieme a Red Records non sono state pubblicate altre registrazioni di Watson assieme a una big band: una pausa di più di sei anni. "La big band è un organico col quale mi piacerebbe poter lavorare più spesso, ma ormai da molti anni la situazione per questo tipo di formazioni non cambia. Il problema è sempre lo stesso e non c'è bisogno di spiegarlo: i soldi...".

In questi ultimi anni, pur non potendo portare in studio una big band, Watson ha comunque coltivato questo tipo di ensemble in vari modi: "Ho fatto molti arrangiamenti per big band per le formazioni di diverse organizzazioni: la BBC di Londra, alcune università statunitensi (Princeton, Indiana, University of Miami...), orchestre formate dagli studenti di master classes e altri tipi di corsi. Oltre alla preparazione dei materiali musicali, in ogni occasione ho anche avuto la possibilità di dirigere quelle orchestre, o di esibirmi come solista o entrambe le cose".

Watson sta quindi portando avanti i suoi progetti orchestrali appoggiandosi a organizzazioni musicali delle più varie, il che vuol dire che, di volta in volta, l'orchestra cambia. "L'unica possibilità che vedo, per poter mantenere una big band stabile, è quella di dedicarmi all'insegnamento musicale: potrei così mantenere una band composta dagli studenti. Comunque, per me, una big band non dipende dalla necessaria presenza di particolari musicisti, di quelli che diventano indispensabili per eseguire la mia musica. Dovrebbero esserci due o tre strumentisti per ogni ruolo nell'orchestra: se qualcuno non può partecipare a una seduta di registrazione, a un concerto o anche soltanto a una prova, bisogna che ci sia assolutamente qualcun'altro. Basarsi solo su 17-18 musicisti in numero significa esporsi troppo al rischio di avere un'orchestra non al completo. Se manca qualcuno deve esserci un sostituto".

Veniamo quindi all'esperienza giapponese. La big band, pur comparendo ancora il nome Taylor Made, è costituita questa volta da un gruppo di giovani jazzisti nipponici attivi a Tokyo e dintorni: il nome che compare accanto a Taylor Made è Tokyo Leaders Big Band. "Con questi musicisti giapponesi mi sono trovato davvero bene. Sono molto professionali: con loro ho potuto provare i pezzi in maniera molto seria. Ormai sono finiti i tempi in cui si credeva nell'equazione jazz = Stati Uniti. Comunque, ho provato a portare a questi giovani musicisti (il più anziano di essi potrà avere avuto 35 anni) qualcosa che potesse fungere, per loro, da 'tradizione'.

"Con loro la cosa più difficile è stata imparare a pronunciarne i nomi. Per il resto sono musicisti molto disciplinati, incredibilmente seri: provano i brani da soli, così che quando arrivano a provarli insieme sanno già dominare le loro difficoltà tecniche e si deve solo creare l'interplay, senza che si debbano ripassare le singole parti. Abbiamo tra l'altro avuto abbastanza tempo per le prove (ne abbiamo fatte ben due!, non poche per dei jazzisti abituati a provare un pezzo per una decina di minuti - se si arriva a trenta minuti allora vuol dire che il pezzo è proprio difficile...), il che non è facile con una big band, oggi. Il disco è la documentazione di tre serate di concerti, durante le quali sono ritornato su alcuni brani che già erano inclusi nella precedente registrazione Columbia con la big band (Ms B.C. è presente sia sul CD Columbia che su quello Audiophile Sound/Red Records; N.d.R.), presentando, in più, materiali nuovi".

Suonare con l'orchestra vuol dunque dire, per Watson, tornare a lavorare anche sulle sue vecchie composizioni. "Posso sentire quasi tutte le mie composizioni eseguite da una big band, nella mia testa. I miei brani nascono, però, sempre come pezzi di piccole dimensioni, destinati, cioé, a pochi esecutori. Poi, è solo una questione di tempo: quello che in origine era un pezzo per un piccolo ensemble si sviluppa, il suo organico si allarga; questo processo può durare per anni. Non ho mai composto direttamente per una formazione orchestrale, a parte in alcune occasioni del tutto eccezionali: il Festival di Glasgow, in Scozia, per esempio, mi ha commissionato una suite, che è nata direttamente per la big band. Arrangiare per un organico orchestrale, alla fine, mi dà più spazio per esprimermi".

Quando si ha a che fare con formazioni jazzistiche dall'organico particolarmente sviluppato, si finisce spesso per trovarsi in presenza di materiali organizzati in forme estese; sembra che le big band richiedano un repertorio che oltrepassi i limiti della forma canzone o della ballad o del brano swingato, un'organizzazione dei brani che sfrutti al meglio le possibilità orchestrali. Che si tratti di third stream o di jazz classico, i materiali finiscono spesso per assumere l'aspetto di una suite. "Ho composto una suite, Afroisms (The Spoken Word), della quale ho inserito alcuni episodi (per esempio Unfold) nel live giapponese. Ho ascoltato con attenzione Blood on the Field di Wynton Marsalis, una suite composta da Sam Rivers e, immancabilmente, le numerose suite Duke Ellington. Ho ascoltato tutto ciò e l'ho fatto mio. Con la mia suite cerco di parlare i vari slang della lingua inglese, quelli usati dagli anglofoni di colore. Volevo che dalla suite si sentisse che sono un americano di colore, che questa musica suonasse come un dialetto che facesse immediatamente riconoscere l'origine di chi lo parla. È importante, qui, non confondere gli afro-americani con i nero-americani. Io faccio riferimento a questi ultimi, per i quali le radici africane sono ancora ovvie, ma le radici americane sono più importanti. Credo che l'improvvisazione jazzistica debba molto allo stile di vita statunitense, nel quale l'improvvisazione fa parte del modo di affrontare le cose".

Un jazzista come Watson, impegnato nella creazione di un proprio repertorio, basato ampiamente su composizioni originali, e nel portare avanti alcune formazioni di particolare valore (il quintetto Horizon, innanzi tutto), non tralascia di curare il proprio stile sassofonistico, ormai sviluppato a sufficienza per poter essere preso a modello dai giovani praticanti del contralto. Sebbene, in passato, in Watson si potesse sentire qualche influsso di Jackie McLean, ora il sassofonista di Kansas City sembra proporre uno stile ampiamente svincolato da rimandi diretti ad altri sassofonisti. Quando si tratta di lasciare un documento del proprio stile personale e del sound delle sue formazioni, Watson pone le cose nel modo più semplice e chiaro: "Mi piace un suono il più possibile naturale. Detesto le compressioni e anche il riverbero eccessivo. Mi piace che si senta molta aria attorno alla batteria: questo strumento deve poter respirare, non suonare troppo potente. Anche i bassi devono mantenersi entro certi limiti, non devono essere caricati eccessivamente. Deve sentirsi l'atmosfera della sala. Tra le mie registrazioni, mi piacciono le sonorità ottenute in Love Remains (CD Red Reords 123212-2), in Post Motown Bop (Blue Note) e anche il sound di Present Tense, realizzato per la Columbia. Per suonare dal vivo, invece, trovo che i posti più adatti al jazz che eseguo io siano i jazz club, quelli che offrono uno spazio sufficiente, sia sul palco che in sala, per gli spettatori. Un pianoforte di buona qualità è cosa gradita. Negli States direi il Birdland di New York; in Europa, Ronnie Scott's, a Londra. In Italia, invece, mi è piaciuto suonare al Capolinea di Milano".

Questo articolo-intervista a Bobby Watson terminerebbe così se dovessi basarmi sulle due conversazioni che con lui ho avuto agli inizi dello scorso novembre a Ferrara, dalle quali provengono i suoi precedenti interventi. Ma, a volte, la vita del critico musicale si fa avventurosa: neanche dieci giorni dopo questa doppia intervista, mi sono trovato di nuovo in compagnia di Watson, questa volta a Londra. Lui era ospite della BBC Radio per registrare dal vivo una esibizione con la BBC Big Band e, sapendomi a Londra, mi ha invitato ad assistere alla registrazione. Non trattandosi di un'incisione destinata a essere pubblicata, ma semplicemente radiodiffusa in differita, i criteri tecnici osservati dallo staff della radio inglese non saranno stati dei più meticolosi, ma è ugualmente interessante avere un'idea di come oggi viene captato, in molti casi, il suono di una grande orchestra jazz (quella della BBC contava diciotto elementi più due solisti: oltre a Watson, c'era il trombettista e flicornista inglese Gerard Presencer).

L'auditorium nel quale è stata effettuata la registrazione, il Radio Theatre della BBC di Londra, è una sala rettangolare di medie dimensioni, capace di 400 posti circa. L'acustica è decisamente buona, tanto che il concerto è stato realizzato in condizioni semi-acustiche, ovvero con l'amplificazione in sala ridotta al minimo necessario, cioè al solo impianto di monitoraggio necessario ai musicisti per sentirsi meglio durante l'esecuzione. L'unica parte della sala capace di produrre riflessioni sonore che potrebbero inquinare il suono è l'area sovrastante il palcoscenico, caratterizzata da un soffitto decisamente alto, a cupola; la soluzione adottata, una tensostruttura realizzata con un telo di materiale fonoassorbente semitrasparente, si è rivelata efficace per il controllo del riverbero e accettabile a livello estetico: tale barriera lascia ‘traspirare' il suono, bloccandone il ritorno, consentendo anche di intravedere l'effettiva forma dell'auditorium. In quanto alla microfonatura, mi sarebbe servito un pallottoliere per tenere il conto dei pezzi utilizzati: quattro microfoni per il suono complessivo dell'orchestra, sistemati a coppie alle due estremità laterali sul fronte del palco, con angolo di apertura delle coppie di 150 gradi, in modo che un microfono puntasse verso il centro dell'orchestra e l'altro verso i due solisti. Tutto ciò mi ha lasciato perplesso: i tecnici della BBC hanno considerato la ripresa del suono d'ambiente secondaria rispetto alla ripresa sonora fornita dalla microfonatura autonoma di ogni singolo strumento. Dunque un notevole numero di microfoni sul palco: più di venti, visto che alcuni strumenti (il pianoforte, la batteria e il vibrafono) hanno richiesto più microfoni. Vanno aggiunti al computo un microfono a testa per i due solisti ospiti e, ciliegina finale, due microfoni al centro della sala puntati verso il pubblico, per catturarne gli applausi.

Nel dopo-concerto, in un pub, in compagnia di tutta l'orchestra della BBC, ho avuto modo di parlare con Watson in un'atmosfera tra il rilassato e l'euforico. Ne è scaturito uno scambio di opinioni privo di professionali veli di protezione. Ed è così che il sassofonista ha rivelato uno dei piccoli peccati che ogni tanto si concede: "Quando salgo su un palco davanti a una band, mi piace iniziare a soffiare nel sassofono a mio piacimento; in quel momento mi concentro esclusivamente su quello che sto suonando, senza più avere una piena cognizione di quello che gli altri stanno eseguendo alle mie spalle; li costringo a venirmi dietro". Vi assicuro che, seppur questo possa apparire un vezzo da primadonna, funziona: la band della BBC, rispetto ai brani eseguiti senza un solista davanti a essa, ha inserito una marcia in più alla presenza di Watson. Egli, dopo il primo brano, si è rivolto al pubblico dicendo: "Grazie. Grazie. Il brano che abbiamo appena eseguito era... Era... Cos'era?". Vi assicuro che, pur non sapendo cos'avesse suonato, lui e l'orchestra si erano trovati più che in perfetto accordo e che, nel caso di Watson (che del resto non è l'unico nel jazz), l'abbandonarsi col massimo della passione e dell'autosoddisfazione all'istantaneità esecutiva, quasi inconsapevole di quello che sta succedendo, porta a risultati notevoli.

Nelle esibizioni dal vivo (ciò si nota anche in quelle documentate su disco - per esempio nel già citato Live col 29th Street Saxophone Quartet e nei due volumi del Live Session col quintetto di Steve Nelson: Live Session One  su CD Red Records 123231-2; Live Session Two su CD Red Records 123235-2), Watson e i suoi gruppi propongono un suono più aggressivo e linee melodiche più taglienti rispetto alle incisioni effettuate in studio. "Questo è un problema che riguarda le registrazioni in studio in generale. In studio, l'improvvisazione non è mai completamente sincera, né spontanea, mentre, a livello strumentale, il suono tende a essere maggiormente controllato, con contorni più puliti; si perde quell'espressiva ‘sporcizia' che sta attorno a certe note e che è il frutto dell'energia profusa in concerto. Questo riguarda il jazz in genere: anch'io, anche se adoro ascoltare le loro registrazioni, preferisco di gran lunga ascoltare i miei jazzisti preferiti (Groover Washington, per esempio) in situazioni live".

Nei pochi giorni che hanno separato i miei primi due incontri con Watson da quello presso la BBC, il sassofonista ha registrato, a Birmingham, una scelta di brani ellingtoniani. Volete sapere con chi? Con la locale orchestra sinfonica, l'eccellente City of Birmingham Symphony Orchestra, diretta da Sir Simon Rattle, da poco nominato direttore stabile dei Berliner Philharmoniker. Se l'abbinamento vi sembra poco jazzistico, provate ad ascoltare la recente incisione di Rattle per la EMI del bernsteiniano Wonderful Town e ditemi se ciò che in questo musical broadwayiano Sir Simon fa venir fuori dall'orchestra di Birmingham non sembra l'esibizione di una furente big band.
Daniele Cecchini


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Data pubblicazione: 15/11/2002





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