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Intervista a Sabina Manetti
di Michela Lombardi

Sono passati molti anni da quando iniziai timidamente ad avvicinarmi allo studio del canto jazz. Era il 1994 e sino ad allora la mia pratica si era limitata ad ricantare sopra i dischi di Chet Baker ed Ella Fitzgerald che avevo trovato nella discografia di mio padre. Quell'inverno seguii i corsi che Tiziana Ghiglioni teneva ogni due settimane poco fuori Bologna, e per me rappresentò un primo approccio al repertorio jazzistico ed un incoraggiamento a proseguire. Ricordo ancora l'ultima lezione. Tiziana si era lanciata assieme a me in un trade four su una versione molto bluesy di Angel Eyes e al termine della lezione, mentre nel tardo pomeriggio attraversavo il prato che mi portava alla fermata dell'autobus (e da lì alla stazione, dalla quale sarei tornata a casa intorno alla mezzanotte…) con ancora nel sangue l'ebbrezza per l'energia che aveva riempito la stanza (una delle tante aule di una scuola di San Lazzaro di Savena adibita a laboratorio jazz), sentii insinuarsi in cuore anche una punta di smarrimento perché non sapevo quale figura mi avrebbe fatto da guida dopo la conclusione di quell'esperienza. Dovette passare circa un anno prima che, nell'estate del 1996, alcuni amici jazzisti di Livorno mi parlassero di una didatta ideale, una cantante preparata ma al contempo dalla «musicalità innata e spontanea», una che spesso si esibiva accompagnandosi alla chitarra, con i lunghi capelli rossi (come i miei, e già mi pareva che la nostra complicità potesse svilupparsi grazie ad un'empatia particolare, su una qualche corsia privilegiata) che ondeggiavano ad ogni pennata. Così l'inverno seguente (e quello dopo ancora) da Viareggio salivo sul treno che stavolta portava verso Sud, verso San Vincenzo (dove tuttora Sabina abita) o un poco prima, a Cecina, nella scuola – che si chiamava profeticamente Renbukài, «disciplina» – dove grazie a Sabina Manetti ho potuto continuare ad approfondire il linguaggio jazzistico, dove ho imparato a memoria i primi temi bebop, da un'insegnante (divenuta una carissima amica) che sicuramente queste cose le aveva studiate ed apprese ma che poi un approfondito lavoro sulla musica multietnica e su se stessa hanno condotta ad andare oltre, verso altre forme musicali, pur mantenendo ciò che aveva appreso. Un percorso lungo, il suo, che a tratti ho continuato a condividere – facendo parte fino a qualche anno fa di due ensemble vocali da lei diretti, uno gospel e l'altro, la Tribù Vocale Patchworld, di world music, che ha da poco pubblicato il cd Frammenti Dal Mondo (Materiali Sonori, 2007) – e che è sfociato nella creazione di un disco maturo, toccante, terapeutico, a metà tra il jazz (perché tale è la formazione dei musicisti coinvolti e del jazz è forte l'aspetto improvvisativo e polifonico, quello che in origine affluì con molte altre correnti in quella musica multiforme che per molto tempo ha brillato – senza un nome – di riflessi multiformi e indefinibili fino ad assumere, semplificandosi per poi potersi in seguito di nuovo innalzare a nuove perfezioni e altezze di splendore, il nome di jazz) e la canzone francese, che qui gioca un ruolo preponderante, e di cui Sabina è autorevole portavoce perché madrelingua (sua madre viene infatti da un piccolo paese della Normandia). Sto parlando di Liberté Creativité Feminité (Materiali Sonori, 2006), realizzato da Sabina Manetti insieme a Sergio Corbini, Emanuele Parrini, Franco Ceccanti, Nino Pellegrini, Franco Nesti, Riccardo Jenna, Mario Manetti e la Tribù Vocale Patchworld.

Sabina, da quale percorso artistico ed umano scaturisce questo disco?

…da una vita!! Perché è il mio primo disco, e quindi mi son trovata anche in difficoltà quando mi sono messa a scrivere la pagina dei ringraziamenti, dove c'èra un mondo di persone da omaggiare per il loro contributo alla mia crescita. Son partita dal rock-pop italiano attraversando il belcanto e il jazz. Ho fatto per tanti anni gospel e poi ho messo su un progetto worl-music che è diventato la Tribù Vocale Patchworld. Partendo dalla ricerca delle radici tribali della musica ho avuto voglia e necessita di esplorare le mie radici attraverso una lunga terapia Gestalt per capire e portare fuori me stessa, nella mia integrità. Quest'esperienza ha determinato veramente un grande cambiamento in me anche a livello di suono della voce. Più pieno, più vero. dopodichè ho deciso di creare un progetto da solista (visto che da più di 15 anni facevo concerti di Chansons e Standards) di valore sociale oltrechè musicale.

Quanto c'è della tua attività didattica in tutto questo? Ovvero, in particolar modo: quanto della tua recente ed entusiastica esperienza come fondatrice e direttrice della Tribù Vocale Patchworld (della quale anch'io ho fatto parte tra il 2001 e il 2003, facendomi soprannominare "Thula" dal titolo della ninnananna di Harry Belafonte nella quale cantavo come solista)?

L'esperienza con Patchworld mi ha fatto integrare la musica alla terapia e alle altre discipline artistiche, come in una sinestesia dell'espressione olistica (che coinvolge corpo-mente-emozioni- anima). La Tribù, con le sue imperfezioni, ma anche la sua grande forza evocativa e comunicativa, mi ha dato molto. Mi ha fatto capire ogni persona è dotata, ognuno di noi potenzialmente è un artista. Magari non per fare qualcosa ed esporlo, ma per se stesso, per ricrearsi. In una tribù tutti cantano, ballano, suonano: dal guerriero all'artigiano, dall'agricoltore al cacciatore etc.. Nell'ambiente dell'arte-terapia c'è una grande figura, quella della studiosa Stefania Guerra Lisi (fondatrice dll'Università popolare della Globalità Dei Linguaggi G.D.L.) che afferma questo a gran voce!

Parlami delle voci che più ti hanno influenzato.

Non saprei da dove cominciare perché maestri lo sono stati tutti… Tracy Chapman, Annie Lennox, Joni Mitchell, Sarah, Ella, Billie, Dinah, Dee Dee, Rachelle, Les Doubles Six, la Piaf. E poi le italiane: Laura Fedele, la Ghiglioni, la Vanoni. le mille vocalist irlandesi, e le voci maschili di Bobby McFerrin, Peter Gabriel, Chet Baker, David Bowie, Jeff Buckley, Simply Red e poi ancora le voci etniche di Oumou Sangare, Zap Mama, Youssou N'dour, Cheb Khaled, Sheila Chandra...

A quali musicisti, che tu abbia conosciuto di persona o solo sui dischi, senti di dovere qualcosa, in termini di stimoli e crescita?

Bobby McFerrin, sulle cui Circles Songs ho creato un metodo didattico; Peter Gabriel, che con la sua Real World mi ha portato in un viaggio straordinario intorno al mondo; le Zap Mama, che con la loro Mupepe mi hanno fatto comprendere cosa significhi cantare col cuore (ed hanno rappresentato per me un primo approccio ai canti circolari); Sheila Chandra, che mi ha liberato dai vincoli del tempo per scoprire un modo di cantare senza l'ansia di un termine, senza l'ansia da prestazione, senza giudizi, un canto più libero…

Come vedi il canto jazz oggigiorno?

Utile a priori nella fase di apprendimento. È uno studio che dà grande consapevolezza, ma ci sono poi delle predisposizioni personali che andrebbero ascoltate, perché se si è nati per quello e lo si può fare con dedizione e coinvolgimento in modo da sapervi unire la propria emotività… Beh allora va benissimo, ma se per darle voce si giunge a capire che c'è bisogno di qualche altro strumento espressivo, di toccare certi tasti che magari fraintendendo lo spirito più vero del jazz si è preferito ignorare, aggirando l'ostacolo, concentrandosi solo sull'affermazione del proprio ego, allora bisogna andare oltre… Studiando la world music e la musico-terapia sono giunta a sentire che a molti cantanti di jazz porterebbe molto vantaggio riuscire a liberare il proprio canto dal suo aspetto più "mentale" ed "egoico", per dare più spazio a tutto il resto. È un po' come un continuo zoom fotografico sul virtuosismo, che manca di sottolineare altri aspetti, un paesaggio emotivo più ampio. Lo scat è gioco è divertimento, amore per il nuovo, lo sconosciuto... molto spesso però viene caricato di significati impropri, sterili, che secondo me danneggiano la musica.



Ho voluto con grande animosità e passione dedicare molto tempo al jazz nel mio percorso di crescita professionale, perché vedevo in esso la possibilità di improvvisazione, estemporaneità compositiva, di apertura verso nuove forme creative, come avvenne nel jazz degli anni '50-‘60, a mio parere il suo periodo migliore. All'inizio c'era anche tanto desiderio di conferme, accettazione in un mondo che non fosse quello classico così pieno di dogmi, né quello pop dove c'era tanta corruzione, allora. Volevo lavorare sodo per essere riconosciuta come artista vera e non una meteora di passaggio (come purtroppo oggi molti giovani talenti vengono invogliati e spinti a fare da una pseudocultura speculativa e priva di contenuti).

Come è stato osservato, questo disco racchiude un femminismo che, diversamente da quanto si potrebbe dedurre dall'impatto "forte" della copertina, richiama proprio alle caratteristiche tipiche della femminilità intesa come capacità di riconoscere, vivere la frammentazione usandola anzi come risorsa (attitudine contrapponibile ad una mascolinità intesa come assertività granitica)… La trovi un'osservazione appropriata?

...è proprio vero...lo spieghi molto bene! Purtroppo o per fortuna, la copertina è stata contestata da alcuni operatori del mondo jazzistico… è probabile che il mio "grido" sia interpretabile come espressione di un'aggressività tout court poco consapevole o negatrice di dolcezza (ma così non è), però è anche vero che la prima interpretazione che dall'esterno viene da dargli è quella perché in genere manca il coraggio di fare qualcosa di diverso, anche sopra le righe. Ormai prevalgono nel mondo del jazz dei canoni stilistici classicissimi e patinati, musicalmente e anche graficamente, che esso perpetra facendo lo stesso errore (a livello musicale) dei Conservatori. Inoltre è un mondo maschile nel senso di competizione, della ricerca del virtuosismo a tutti i costi.

Quindi leggere su una copertina ‘dedicato alle donne del passato e del futuro' viene travisato automaticamente (per paura o reconditi sensi di colpa?) come disco «femminista», quando invece non lo è affatto (non in "quella" accezione di femminismo che conosciamo, almeno); anzi, si propone di conciliare i tratti caratteristici dei due sessi e, al contempo, i due mondi interiori della donna: la ribelle e la sottomessa. L'aggressività della copertina esprime l'energia necessaria per uscire da una condizione di vittimismo, di resa rassegnata, ma c'è anche un voler "andare incontro" ad un'altra parte (per questo assieme a Massimo Panicucci, mio collaboratore artistico per la grafica del book, ho scelto la bandiera bianca). La copertina è dedicata anche a me stessa.

Dentro, nel disco si trova la dolcezza, ma anche la fermezza e l'autenticità delle emozioni. Può sembrare sconnesso col fuori, ma la rivoluzione dentro è sottile, intima, e parte da me, dal mio modo di vivere, è così che qualcosa fuori può cambiare…

Dopo tanti anni di esperienza sei arrivata a proporre un tuo disco solo oggi. Perché?

Me lo sono chiesta tante volte. Probabilmente in un palcoscenico difficile come quello italiano sapevo che avrei avuto bisogno di una grande dose di energia e volontà per poter promuovere e portare avanti un disco. Non volevo farlo tanto per fare. E poi una creazione musicale non è come dipinto che uno può fare da solo... Ci ho messo tanto tempo a trovare dei buoni collaboratori che fossero sia bravi musicisti che persone umanamente ricche, compagni di percorso eclettici, affidabili e partecipi col cuore al progetto. Sono stati loro a incoraggiarmi! Se non fosse stato per Sergio, Emanuele, Franco e Riccardo non avrei mai trovato lo slancio per partire da sola in un'avventura tanto complessa.

Parlami del tuo rapporto con la musica del paese di tua madre, la Francia.

E' un rapporto che mi sono ritrovata, che non ho cercato spasmodicamente… fa parte del mio dna e quindi si manifesta con un grande amore, che talvolta è rimasto inespresso ma al quale ho imparato sempre più a dar voce. La musica francese è stato un ponte che mi ha fatto sentire più vicina ai miei affetti e ha creato una continuità evolutiva tra mia nonna, mia madre e me… e spero il mio piccolo Erik appena nato, il cui nome è ispirato a Satie, che per qualche strana coincidenza era lo strano vicino di casa di mio bisnonno a Honfleur!!

Parlami dell'esperienza con l'Iridescente Ensemble, in un disco, Things left behind (Bluesmiles, 1998), che vedeva come guest Paolo Fresu.

Uhm… preferisco non parlarne, sai? è stato uno dei momenti più difficili e tristi della mia esperienza professionale. Dopo quell'anno (il '96) non ho più voluto saperne di fare dischi, fino al gennaio 2006. Ma ricordo volentieri che in quell'occasione ho avuto la fortuna di conoscere Cristiano Calcagnile, ottimo musicista (ai tempi era ancora sconosciuto, adesso fa parte del Quintetto di Stefano Bollani) e grande persona, col quale ho in seguito collaborato.

Grazie Sabina per la generosità con cui condividi le conquiste che nel tuo percorso fin qui hai lentamente ma incessantemente perseguito… Quali sono adesso, ti chiedo infine, i tuoi progetti futuri?

Vorrei fare un cd appunto su Erik Satie... ma di idee ce ne sono tante... forse già troppe! Sto facendo un disco-raccolta di canti e ritmi dal mondo con la Tribù, e cercando di terminare il mio libro di didattica del canto iniziato nel lontano 1994! Mi piacerebbe fare un disco musico-terapeutico, poi ancora una associazione di artisti in cui si mescolino le competenze per dar vita a spettacoli e progetti interculturali… ma per ora credo proprio che pe un bel po' farò la mamma a tempo pieno, che è la cosa più importante, a cui devo dare la priorità!

Come dice il mio terapista Marco Longhi, si può dare valore alla propria arte e alla propria figura di artista in tanti modi: facendo ricerca, seguendo seminari, corsi… ma anche leggendo poesie, innamorandosi, viaggiando… o facendo un figlio. Dare valore a noi stessi è dare valore ad ogni cosa che facciamo!







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Data pubblicazione: 10/02/2008

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