Intervista a
Giorgio Li Calzi
Il mio minimalismo elettronico
di Franco Bergoglio
Giorgio Li Calzi, torinese, è nato nel 1965. Inizia come compositore per dedicarsi alla tromba a partire dal 1990 (Suo maestro -tra gli altri- è Enrico Rava). Ha all'attivo numerosi premi vinti in qualità di compositore e 7 Cd a suo nome, tra i quali spicca l'ultimo, Tech-Set (Il Manifesto, 2004). Appassionato di cinema, ha spesso abbinato le sue musiche alle immagini e nel 2002 ha partecipato al Berlin film festival.
Jazzista poco ortodosso, che gioca con l'elettronica e i suoni "altri", anche nelle parole rivela di essere lontano dagli stereotipi e dal "facile".
F.B.:
Una curiosità: tu hai iniziato a suonare la tromba relativamente tardi; pur essendoti occupato di musica fin dalla tenera età. Come è stato l'approccio allo strumento?
Pensi di aver perduto qualcosa in termini di agilità tecnica o invece di aver acquisito in consapevolezza, o nessuna delle due ipotesi ti soddisfa?
G.L.C.:
Il fatto di avere iniziato a suonare la tromba a 25 anni, dopo 10-15 anni di lavoro-gioco sulla musica elettronica (le mie fonti sono state, alla fine degli anni 70, Brian Eno, Suicide, Kraftwerk, Throbbing Gristle, James Chance, ecc), mi è servito per approfondire il discorso sul jazz. Ho avuto dei maestri d'eccezione come Enrico Rava e Flavio Boltro, che comunque non mi hanno mai insegnato nulla di tecnico, ma molto di jazz.
Per la tecnica mi sono rivolto a
Piergiorgio Miotto e Ercole Ceretta, due grandi trombettisti classici.
Però il mio è sempre stato un approccio da autodidatta: oscillavo dallo studio di un solo di Miles Davis, a una domanda a Piergiorgio o a Enrico. Poi, dopo due anni di studio trombettistico, ho avuto la fortuna di formare un mio gruppo, composto da straordinari musicisti, tra cui Roberto Cecchetto (chitarra) e Antonio Zambrini (piano), il cui apporto musicale nella mia formazione, è stato importantissimo.
Alla fine, dopo un po' di anni, ho ripescato le mie fonti legate al minimalismo elettronico e ho mollato qualsiasi matrice legata al jazz, almeno nella forma.
F.B.: Il cinema è una costante dei tuoi lavori negli ultimi anni. Invece di chiedere a un musicista opinioni sui colleghi vorremmo da te qualche consiglio di visione...film o registi che ti ispirano in maniera particolare.
G.L.C.: Per anni ho amato i film che hanno un linguaggio surrealistico: dai registi del Teatro Panico, a
Svankmajer, a Parajanov. Uno dei miei film preferiti è stato Brazil
di Terry Gilliam: lo andai a vedere perchè pensavo di vedere
un film comico-surreale come "Il senso della vita" (il precedente film dei Monty Python), ma il finale tragico mi lasciò di stucco.
Brazil ha in sè un mix di sogno, effetti spettacolari, humor nero, e comunque un sacco di elementi, che miscelati in una maniera non americana (è un film di regia, d'autore, non di produzione, a differenza dei film successivi di Gilliam), ti sorprendono in ogni istante durante la visione.
Gli ultimi film che mi sono piaciuti sono Dogville (von Trier), Gli Incredibili,
Le conseguenze dell'amore (Sorrentino) e L'imbalsamatore
(Garrone).
F.B.: Hai lavorato molto nel commento sonoro ai film, come musicista e compositore. Cosa pensi, alla luce di questa esperienza pluriennale, del rapportomusica-immagine?
G.L.C.: Sicuramente la sostanza è la musica, ma comunque sono uno di quelli che vanno a "vedere" un concerto.
F.B.: La sensibilità musicale è anche data dalla tua carica umana. Hai suonato
per raccogliere fondi ai cassaintegrati della FIAT e so che parteciperai come ospite ad una iniziativa organizzata dal Comune di Torino che esporta in un contesto pubblico iniziative musicali che coinvolgono -musicistidisabili. La tua tromba dialogherà ed improvviserà assieme a loro. Michel Petrucciani dimostra,
forse ai massimi livelli, che oltre alla terapia con la musica si può fare arte. Può essere un nuovo traguardo per il jazz?
G.L.C.: Ho anche suonato per il Sindacato Musicisti (SIAM), aderente alla CGIL, che si sforza di trovare una collocazione socio-previdenziale al lavoro del musicista, in un paese poco sensibile come l'Italia, dove, per ottenere l'indennità di disoccupazione, devi fare più di cento concerti all'anno (!!).
Penso che il musicista si auto medichi suonando, e che la musica è la sua prima fonte di guarigione, perchè parte da un suo bisogno interiore che ha da quando (in genere) è bambino, e inizia a suonare.
Poi c'è chi ha più o meno talento, ma la cosa, ovviamente, non si ottiene dallo studio.
Non credo che un disabile sia svantaggiato come musicista, al contrario, ha un'arma espressiva in più.
E' lo stesso discorso che faccio per me: preferisco parlare attraverso la mia musica che attraverso le parole.
F.B.: Ti sei ricavato uno spazio ed una voce individuali unendo il jazz, l'elettronica, le sperimentazioni varie di luci, suoni, immagini.
Come vedi
il jazz di oggi e di domani?
G.L.C.: Il jazz oggi è un business, esattamente come la musica che va in classifica.
Non mi interessa.
Se guardo il catalogo
Blue Note (in cui ovviamente ogni musicista jazz vorrebbe stare) mi sembra di vedere il catalogo di una major.
Non c'è ricerca, solo musica di intrattenimento, anche se in forma di finto-jazz, mentre io ho sempre fatto musica d'ascolto.
F.B.: Vorrei tornare sulla tua peculiarità come compositore. Mi sembra di sentire, nel tuo recente lavoro Tech set, inquietudini e fantasmi del mondo odierno. E' una congettura da critico?
G.L.C.: Il fatto di amare Parker o Davis, non mi impedisce di amare
Peaches o gli Underworld, che sono le cose che ho apprezzato maggiormente negli ultimi 10 anni.
Posso dirti che per me è stato un onore quello di ospitare (e viceversa farmi ospitare nei loro progetti)
Wolfgang Flür, storico membro dei Kraftwerk, e Lenine, il mio musicista brasiliano preferito.
Per il resto, non mi sento di parlare del mio cd: inviterei solamente i lettori ad ascoltarlo!
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Data pubblicazione: 19/09/2005
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