Il Jazz italiano dai sorrisi alle lacrime?
di Alceste Ayroldi
Editor Manager Jazzitalia
Più o meno tre anni fa, sulle pagine della webzine Andy Magazine, partì la mia inchiesta
(ricerca?) sull'universo jazzistico italiano; indagine che da qualche anno continua
su queste pagine attraverso interviste a direttori artistici e casa discografiche
italiane che si occupano di jazz. Il prologo per una pubblicazione che, per vari
motivi a me addebitabili, tarda a concludersi. In verità, visti i continui sviluppi
e coupe de théâtre governativi, la conclusione sarebbe da psicodramma: imprevedibile.
Tanto è cambiato rispetto al 2012: i musicisti
si sono radunati sotto un'associazione – il Midj - che sgomita (per quanto
può) a destra e sinistra e si da un gran daffare, grazie all'abilità e tenacia della
presidente
Ada Montellanico. Gli impresari, organizzatori di festival
e rassegne partecipano sempre più numerosi alle attività dell'I-Jazz. Tanti,
però, sono i maverick che vanno dritti per una strada sempre più impervia
e nebbiosa. Poi, c'è un ministro del governo che pronuncia la parola jazz, ascrivendola
nel patrimonio culturale italiano: giubilo e tripudio di speranza che si associa
all'elargizione di 500.000 euro raschiati dal fondo di una padella, che hanno
ingolosito molti e, soprattutto, hanno acceso un lumino di speranza.
Ma…chi di speranza vive, disperato muore! E, così, nell'imminenza del ferragosto
italiano (si chiude tutto: anche il cervello), fioccano notizie di guerra: tagli
a tutte le attività culturali. In pratica il FUS, già mai prodigo a sentire
tutti, si assottiglia drammaticamente, mandando in fumo le aspettative di tanti
(tutti?).
Il talk-show universale rappresentato dai social network e dai blog s'inferocisce
e sputa veleno, emette sentenze, crea nuovi soloni pronti a dispensare le ricette
della felicità. Senza contare che nulla di nuovo si legge e si apprende, se non
aver (mal)riposto le speranze e aver creduto che il jazz, al pari della musica classica,
dell'opera, del teatro, avesse conquistato un posto nell'Olimpo. Il problema non
è il jazz o le altre musiche, ma la cultura che non va in Italia: non se ne sente
il bisogno. Altrimenti, perché mettere mano all'istruzione a casaccio (peraltro,
alcune cose sarebbero eccellenti se si fosse previsto un adeguato funzionamento
e, soprattutto, se vi fosse una copertura finanziaria)? Obiettivo distruttivo
che non sta a cuore solo al governo in carica, ma fa parte delle strategie militari
di parecchi governi: non dimentichiamolo.
C'è un'altra novità rispetto al 2012: la chiamata
alle armi per L'Aquila alla quale il mondo jazzistico ha risposto con il consueto
cuore ed entusiasmo e che ora – alla luce dei feroci tagli – viene messa in discussione;
anzi si vorrebbe usarla come arma di ricatto per poter manifestare l'orrore, il
disappunto di fronte a certe scelte.
Ecco il perno di tutto: il denaro. Le provvidenze economiche e i criteri per assegnare
le stesse. Criteri di quantità e di qualità: FUS che ha destinato, progressivamente,
più soldi al jazz e che nel 2015, a quanto pare,
ha fatto vittime illustri, dando credito ad altre realtà più piccole ma non
imbolsite. La levata di scudi c'è stata e ci sarà. A rincarare la dose di tale eccidio,
ci sono i festival e le rassegne triturate dalle provvidenze degli enti territoriali.
E gli organizzatori si leccano le ferite sanguinolente lanciando messaggi di guerra
all'indirizzo di chi governa. Ma se Atene piange, Sparta ride: perché tra
tante lacrime, vi è anche chi si sbellica dalle risate, per aver ricevuto (o riceverà)
parecchi più denari rispetto al passato. E questo fa infuriare (giustamente o meno,
non si sta qui a discutere) chi si era abituato a un certo tenore di vita festivaliera:
soldi pubblici (governo centrale ed enti territoriali), sponsor privati e vendita
dei biglietti. Un trinomio parecchio anomalo: ricevere denaro pubblico e far pure
pagare a prezzo pieno il biglietto è un ossimoro.
Festival e rassegne: sembra proprio che il punto G della signora del jazz
italiano sia tutto lì. Mentre, dall'esame dei dati emersi dalle interviste,
si rileva che il fattore "x" del jazz è dato dal pubblico: in calo e piuttosto âgée.
E, a dire degli organizzatori, solo i concerti con i big (i soliti noti, tanto per
intenderci) sono affollati e mettono il buon umore ai cassieri. Ciò significa che
i soldi erariali vanno a finanziare i concerti dei "soliti noti" che, a sentir bene,
potrebbero finanziarsi autonomamente con le vendite dei biglietti. Ha senso tutto
ciò?
Forse, un criterio opportuno da inserire nei parametri di valutazione del FUS (e
delle provvidenze pubbliche in generale) sarebbe quello già in atto in altri Paesi
europei: obbligare i soggetti finanziati a inserire nel cartellone progetti artistici
italiani e – aggiungerei – di giovani jazzisti.
Il festival, la rassegna dovrebbe essere la vetta della piramide e non il
punto di partenza. Il principio è l'educazione del pubblico all'ascolto di jazz
non trionfalmente sbandierato in tv, o proveniente da oltreoceano, o frutto di callide
operazioni di marketing. Obiettivo principale e comune a tutti dovrebbe essere quello
di incrementare l'afflusso di pubblico, di avvicinare i giovani (purtroppo
ancora lontani dal jazz) e abituare il pubblico del jazz a pagare, anche poco, per
vedere un concerto: perché l'eccesso di gratuità, soprattutto d'estate, massifica
le scelte del pubblico-consumatore che, di fronte all'alternativa, preferisce un
concerto gratuito a uno a pagamento. Quasi sempre senza farsi troppe domande e senza
troppe distinzioni artistiche.
Per tutto questo sarebbe auspicabile unire le forze e tracciare un piano comune.
Di una lobby del jazz non se ne sente il bisogno.
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Data pubblicazione: 12/08/2015
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