Peter Cincotti
Metropolis
HEAD UP 2012, dist. EGEA HUI-33862
1. Metropolis
2. My Religion
3. Do or Die
4. Take A Good Look
5. Nothing's Enough
6. Magnetic
7. Graffiti Wall
8. Fit You Better
9. Madeline
10. World Gone Crazy
11. Forever and Always
12. Before I Go
Peter Cincotti - voce, piano, tastiere
John Fields - chitarre, basso elettrico, tastiere, programming
Peter Thorn - chitarre
C. Todd Nielsen - programming, spoken word
Dorian Crozier - batteria
Ken Chastain - percussioni
Stephen Lu - violino, tastiere
Michael Bland - batteria
Jason Scheff - voce
David Ryan Harris - voce
Peter Cincotti
si cambia d'abito: dismette la grisaglia affumicata e lisa di crooner per indossare
dolcevita, pantaloni e giacche slim da pseudo-rocker. In pratica, inverte il processo
anagrafico, perché appena ventenne cantava sulle note di Ain't Misbehavin
e a dieci anni di distanza abbraccia le sonorità tardo-bryanadamsiane (si perdoni
il poco corretto neologismo) recuperando sonorità che si sperava fossero state sepolte
con il tramonto degli anni Ottanta.
"Metropolis" non vede il jazz neanche con il binocolo: dodici brani
lineari e vigorosi, sintonizzati sulla stessa frequenza. Il brano eponimo, che apre
l'album, è il biglietto da visita di un lavoro che si contraddistingue per essere
pannellato di lastre di monotonia, di sonorità già ascoltate nel sound targato U.S.A.
da auto in corsa sulle freeway. "My Religion" evoca le musiche degli anni
Ottanta, quelle con un po' di elettronica, tanto per sgambettare e scuotere la testa
o mostrare alte le corna in segno di approvazione. E' così che si dipana il nuovo
e sbandierato album del bel ex crooner di New York City, che ha calcato anche lo
sberluccicante palco di Sanremo (come poteva essere altrimenti?) e sparso il suo
nuovo seme musicale in mezza Italia. Tra programming, chitarre belle cariche dalle
corde vintage, batteria in quattro, linee di basso che tengono su una bella voce chiara e limpida, che avrebbe potuto occupare altri spartiti.
Il rock di Cincotti è parecchio vicino al country di nuova generazione in ogni
sua declinazione; un'eccezione la fa "Nothing's Enough", che passa per le
trame della New Wave castigata, che un tempo aveva parecchio senso.
Alceste Ayroldi per Jazzitalia
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Data pubblicazione: 09/06/2013
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