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Amici della Musica "SummerNight" - musica jazz & dintorni
John Taylor piano solo
Palermo, Palazzo Fatta 11-06-2003
di Antonio Terzo

photo from John Taylor Official Web Site

Complice la placida serata estiva e la piccola sala con circa duecento posti, la performance in piano solo di John Taylor è risultata toccante e raccolta. Sedutosi al piano subito dopo la breve presentazione del padrone di casa Dario Oliveri, il pianista inglese comincia il proprio recital con una propria composizione, Comes rain, comes shine, con una prima parte che rifluisce come una marea sulla spiaggia di accordi arpeggiati ed una seconda più ritmica, affidata all'impetuosa mano destra, per concludere con un finale rapsodico.

Raffinato ricercatore e stilista, il suo scavare si fa sempre più profondo in Reflections in D di Duke Ellington, mantenendo comunque sempre intelligibile l'identità del tessuto melodico. Giochi di quinte a scale per una improvvisazione tonale su due accordi e trillanti ottave. Ed alla fine, con la sua aria sorniona, Taylor ringrazia simpaticamente anche il compagno della serata, il piano.
Meno individuabile invece How deep is the ocean, in una versione dagli accordi frammentati in blocchi, e tuttavia proprio per questo capace di un notevole pathos, ancora maggiore quando finalmente vengono rivelate le note del tema. In alcuni frangenti non sembra si tratti di un piano solo, ma ogni tasto è la voce di uno strumento e Taylor è come se dirigesse tutto un ensemble, orchestrando straordinarie progressioni in tre tonalità. Grande swing in Everything I Love di Porter, sottolineato dai movimenti delle braccia e soprattutto del piede destro che pigia ritmicamente sul pedale del sustain. A seguire Love Theme from Spartacus, "un brano calmo" lo definisce Taylor, dove estrinseca un intenso romanticismo che in fase improvvisativa si sofferma su due accordi minori distanti di un tono su cui svolge un inciso di grande intensità... Ma con bruschi arresti cerca anche di dominare tale feeling per non lasciarsi troppo travolgere. Quindi, prima della meritata pausa, Everybody's song but my own, brano di Kenny Wheeler espresso in una brillante e sentita esecuzione, piano robusto e potente nei gravi e molto acceso nelle coloriture melodiche, per un prezioso omaggio all'amico trombettista.

Dopo il break tocca a Pure and Simple riprendere il filo dell'esibizione, con un inizio affidato ai tasti più esterni dello strumento, echeggianti sonorità da carillon. Suggestiva la parte riservata all'estemporaneità, sottolineata da Taylor dondolando la testa sul ritmo di valzer arioso che nervosamente si sofferma mulinando su note circolari, per poi sul finale tornare all'effetto carillon d'apertura. Spunti lirici anche per Liten Visa Till Karin, composizione di un musicista finlandese dedicata alla nipote, con eloquenti pause riflessive della mano destra ad esaltare l'atmosfera creata dalla tessitura armonica della sinistra, quindi una composizione di Steve Swallow, un pezzo post-moderno molto elegante in cui il sessantunenne Taylor, come anticipato nella presentazione, prende ad utilizzare il piano come una percussione, colpendone le corde all'interno…

Poi un omaggio anche a Gershwin con I love you Porgy, ballad che l'esecuzione in solo gli consente di smontare e rimontare reinterpretandola con garbata compenetrazione, con scale che, zampillando da dentro, percorrono gran parte della tastiera. Una indiscutibile padronanza dello strumento, tocco leggero, etereo: troppo riduttivo definirlo "evansiano". Forse il pezzo più coinvolgente del concerto. Da ultimo Ambleside, brano tradizionale del nord Inghilterra, terra d'origine del nostro, rivisitato in chiave jazz, con inversione delle parti tra le mani, la destra facendosi carico del ritmo percussivo accentuato dai pedali, la sinistra recitando la traccia solista sui gravi… E Taylor, tenendo il ritmo, sembra ballare sullo sgabello, in questa corsa immaginaria nei paesaggi del Nord England.

F
inita la parte regolare del concerto, acclamatissimo Taylor viene fatto rientrare e dopo aver ringraziato ancora lo storico piano su cui con forti emozioni ha intrattenuto il pubblico di Palazzo Fatta - "Steinway costruito prima che esistesse il jazz", come lui stesso afferma - regala in bis Blue Monk: un blues dal grande ritmo, che egli potrebbe suonare anche ad occhi chiusi. Tutta l'ironia del riff viene fuori grazie alle sue progressioni in quarte e quinte, mantenendo la cantabilità del tema con indescrivibile forza trascinante. Monkiano anche l'incedere quadrato degli accordi a seguire il basso della mano sinistra… E un lungo applauso conclude la serata del grande pianista inglese, che, sempre all'altezza delle aspettative e della sua odierna fama, non smette mai di incantare, in qualunque veste si produca.






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Data pubblicazione: 18/06/2003

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