Steve Turre si è presentato in quartetto al piccolo ma accogliente teatro Paisiello di Lecce; un quartetto formato da Nico Menci
al piano, Marco Marzola al contrabbasso e Dion Parson alla batteria, oltre al leader al trombone, alle percussioni, e alle spettacolari conchiglie marine.
Il concerto è durato più di due ore, durante le quali la band ha proposto brani di J.J.Johnson, che prima di Turre aveva innovato il linguaggio trombonistico e perciò, credo, tanto caro al nostro messicano.
Si! perché Steve Turre
è messicano d'origine, ma cresciuto negli Stati Uniti ne ha assorbito la musica, mantenendo però un sentire musicale fisico e un po' "primitivo", che tanto spesso manca nei jazzisti contemporanei, e che lo riporta alle personalità del cosiddetto jazz hot, o del periodo classico.
Non sarà un caso la grande attenzione di Turre per il suono e le sue modulazioni ottenute con le sordine che usa proprio a mo' di stile "jungle"
di Duke Ellington.
Da questo particolare "sentire", credo, scaturisca anche l'amore e l'interesse del trombonista per quello strumento così poco strumento che è la conchiglia marina. Anticamente rituale e di richiamo la conchiglia marina nelle mani di Turre assume dignità musicale e jazzistica, grazie alla tecnica "a mano" del corno.
Con questo strumento e col suo fido trombone Turre ha eseguito, come dicevamo, brani di J.J.Johnson, alternati a proprie composizioni dal sapore impressionistico e dal particolare mood, e addirittura una bella e accattivante
firmata da Marco Marzola. Ma anche la bellissima ballad di Errol Garner: Misty. E' in questo brano che Nico Menci, a parere
di chi scrive, ha dato il meglio di se, dando risalto al suo tocco lieve e raffinato.
Turre utilizzava cinque conchiglie marine di diversa taglia, che teneva adagiate su un tavolino al suo fianco, e che puntualmente ricopriva con un panno nero appena finito di suonarle, così come si nasconde un prezioso dopo averlo sfoggiato.
Da queste traeva delle vere e proprie frasi jazz, certo di poche note ma intense e precisamente intonate, oltre a suoni più selvaggi e atonali.
Spesso utilizzava poi le due conchiglie più grandi contemporaneamente, insufflando l'aria in entrambe, e ottenendo così degli estatici bicordi.
Ma il messicano dalla lunga treccia aveva in serbo un'altra sorpresa per
noi: una gigantesca e bellissima conchiglia (con tutta probabilità artificialmente ornata di vivaci tinte), che fin quasi alla fine del concerto era rimasta nascosta sotto il
tavolino e che in un finale trascendentale e particolarmente free Turre ha tirato fuori, insufflandoci dentro tanta anima da far propagare le sue vibrazioni attraverso tutte le pareti del teatro e fin alle nostre poltrone.
Un concerto di Turre può probabilmente trasformarsi in una sorta di rito estatico e catartico, se solo però trovasse i compagni giusti.
Lungi dal criticare la tecnica dei due italiani, era palese però un opposto approccio alla musica, fra questi e Turre.
Troppo freddi e precisi i nostri, troppo eccitante e hot il leader. Dion Parson, invece, da quando s'è
"svegliato" ha seguito dignitosamente la strada del trombonista-conchiglista (???) facendoci sobbalzare ad ogni percussione.
Infine altra caratteristica della musica di Turre è senz'altro la contaminazione, in particolare con i ritmi afrocubani; il quartetto s'è tuffato infatti anche in un fremente calypso in cui la batteria di Parson ha probabilmente sofferto molto sotto i colpi infertigli dal padrone.
Nonostante i soliti sbadigli degli spettatori "per caso" o "forzati", il concerto di
Steve Turre è senz'altro un'esperienza oltre che musicale anche fisica.