Partiamo dalla fine. Non tanto per il simpatico fugace botta-e-risposta che, in calce al proprio concerto, Bobby McFerrin ha concesso al pubblico che non voleva congedarsi – fornendo dichiarazioni sui suoi tre figlioli, la tournée, la sua voce come dono quasi divino –, quanto perché qualcuno si sarebbe forse aspettato in chiusura una
Don't worry, be happy cantata dall'autore in carne ed ossa (della quale, comunque, ci sfuggono eventuali precedenti).
Ma il pluripremiato artista afroamericano – all'attivo ben dieci Grammy Awards – è molto più di un pop singer, ed anche di più di un jazz vocalist, concentratosi da sempre sull'aspetto comunicativo della propria musica, la trasmissione di interiori emozioni sonore, come un moderno "griot" [musicisti-cantastorie dell'Africa, portatori di messaggi culturali e rappresentanti delle tradizioni, n.d.r.]: di là dai virtuosismi tecnici e dalle
caratteristiche innovazioni che egli ha saputo infondere al modo di cantare e di usare il suo "strumento", nei suoi concerti si avverte un'aura di misticismo, già solo nel silenzio religioso ed intimo che si crea per l'ascolto delle sue esecuzioni "a cappella", nelle quali la sua vocalità, a volte robusta altre volte fragile, assume le fattezze di puro suono, primigenia onda sinusoidale che perde ogni connotazione di umana articolazione verbale.
Non a caso la sua ricerca musicale lo ha portato ad accostarsi fin da subito ad atmosfere acustiche recuperate dal bacino della tradizione africana, a metà fra tribalità e spiritualità, religione e sciamanesimo. E nelle sue songs e filastrocche di struggente emozionalità, sembra di assistere ad un rito, come avviene nel primo brano, Invocation (dal cd
Beyond Words), sorta di dolcissima ninna-nanna che scava dentro le più delicate sonorità, spingendosi fino alle vibrazioni ancestrali dentro ciascuno degli ascoltatori, vibrazioni universali, presenti in ogni cultura, che al di là di una trascendenza soltanto religiosa, implodono semmai verso una spiritualità prettamente umana. Densi e profondi i bassi, trasparente ed incorporeo il falsetto, antipodici vertici di una straordinaria estensione vocale – quattro ottave che percorrono tutti i registri – di etereo spessore. E si accompagna simulando la ritmica con secchi colpi della mano sul petto, a mo' di cassa di risonanza, caratterizzando anche così le sue performances. Sedutosi dopo aver ricevuto il meritato applauso, esegue l'immancabile Blackbird, una sinfonia di timbri che provengono tutti dalla stessa fonte, musicalissimi fonemi, scambi di fischiettìi con il pubblico e affascinante finale con volo d'uccello a sbatter d'ali, come dal cd
The Voice. Tocca quindi a Drive, in cui sono distinguibili le fasi del tema e dell'improvvisazione, questa volta accostando il microfono alla gola ed amplificando i versi gutturali, rombo d'autovettura compreso! L'uditorio è sempre più incantato, ed il suo incantatore a seguire avvia con rifinito sussurro un brano per il quale esorta gli astanti ad intonare una nota di supporto, una tonica, punto di riferimento per le sue evoluzioni vocali, confermandosi suggestivo interprete dello stile "a cappella", anzi un innovatore dello stesso.
Tuttavia, per chi non sia mai stato ad un suo concerto, c'è anche da sottolineare che non si va solo ad ascoltare Bobby McFerrin, ma in definitiva a cantare con lui, collaborando attivamente allo spettacolo, al rito appunto. Ed infatti il nostro propone ai convenuti di aiutarlo nell'interpretazione dell'Ave Maria (di Gounod), di cui supporta in arpeggio il tema eseguito dall'intonato teatro, per uno stupefacente risultato complessivo. Ma non ancora pago, si produce in un tipico
call-and-response in forma antifonale, assegnando a ciascun settore della platea una sezione "vocale" per sorreggerla con il proprio voice-bass prima, ed improvvisarvi ironicamente poi. Quindi emette armoniche fragilità per interpretare Smile, facendole attraversare da variazioni ritmiche che trasformano il pezzo perfino in bossanova. E gli "intermezzi" partecipativi degli spettatori non si esauriscono, perché sulla scia del suo primo album, l'omonimo
Bobby McFerrin, contenente All the feet can dance, invita qualcheduno a dar corpo al ritmo della sua musica, alternando – sempre vocalmente – accenni classicheggianti a pulsazioni
bass'n'drum, tip-tap e bossanova, per il divertimento degli intervenuti ma anche – e sommamente – il proprio!
Certamente il momento più coinvolgente si raggiunge con la richiesta da parte dell'artista di persone capaci di cantare: una dozzina il numero richiesto,
quando invece poco a poco guadagnano la scena una quarantina di "cantori", più o meno improvvisati. Ed anche se sorge il sospetto che non si tratti per tutti di estemporanei "avventori del palco", l'effetto è davvero trascinante: McFerrin allestisce su due piedi un workshop pratico, e dopo aver "provinato" ciascuno per inquadrarne il registro, distribuisce le brevi frasi a bassi, tenori, contralti e soprani, quindi vi aggiunge il proprio peculiare vocalizzo, e confeziona un policromo brano dall'articolato taglio blues.
Ormai consapevole delle provette capacità canore dei suoi compagni di viaggio per la serata, in un crescendo di emozioni McFerrin scende in sala e prova a coinvolgere, adesso singolarmente, alcuni presenti – impresa certo più ardua – inventando di volta in volta un "numero" diverso, a seconda delle abilità di chi si trovi di fronte, per duettare ora con uomini, cui espone da ripetere "contrabbassistici" disegni blues su cui stacca il proprio personale "falsetto-tromba", ora insieme a donne, insegnando alle più "dotate" suadenti – e talvolta complesse – modulazioni alle quali sovrappone pregevoli controcanti, con risposta d'accattivante e toccante intensità. Ed alla fine è lui che si complimenta con tutti i partecipanti. Quindi un altro delicato storytelling, circolare, con la tipica ripetizione quasi ipnotica della tradizione griot, come nelle composizioni del penultimo Circlesongs (con la
Voicestra) e per chiudere, il più classico dei blues, con l'iniziale attacco "I like to get up early in the morning".
E dunque, alla luce di tutto l'andamento della serata, chi si attendeva Don't worry, be happy era preda e vittima delle proprie aspettative, perché a fine concerto, al contrario, si torna a casa con la voglia di mettere sul lettore il mitico album
The Voice, o magari l'ultimo Beyond Words, ascoltare ancora i suoi vocalismi, e potere adesso pensare di avervi perfino preso parte!