Scriveva Bela Bartòk, negli scritti sulla musica popolare: "La musica romena è una cosa complessa, è ancora nel buio, è in fasce. E' un misto di musica araba, slava ed ungherese, eppure ha un'atmosfera tutta particolare che non si può definire con parole. Gli influssi stranieri sono troppo evidenti per poterli negare. Nel bassopiano nevoso la musica è per lo più turca, nella Moldavia per lo più ungherese. La maggior parte delle melodie da danza è russa o greca. Ma nessuno deve addolorare: da tutti questi dialetti musicale nasce un particolare carattere personale".
Di fronte a questo coacervo di colori dal sapore antico ha posto, il suo pubblico, il direttore artistico
Gaspare Di Lieto, che ha definito il penultimo appuntamento di
Jazz On The Coast, l'omaggio politico della cultura musicale afro-americana, con cui le minoranze d'America, schiavi, creoli, spagnoli, italiani, ebrei, latino-americani, hanno cantato la loro storia, la loro condizione, al popolo più bistrattato del mondo, gli zingari, alle cui tradizioni siamo stati iniziati dai
Taraf de Haidouks, i Lautari di Clejani.
I lautari di Clejani, dove
lautar sta per musicista professionista, nella tradizione rumena, si sono presentati in formazione tipo, con tre voci,
Iorga Ilie, Pasalan e Cacurica, Marin Manole e Ionitsa Manole
accordion, Ionica al Tambal, il salterio a corde percosse, corrispondente al cymbalon ungherese, i due eccezionali violinisti,
Costica, anche vocalist, specializzato in canti d'amore e Caliu,
Falcare al surla, il flauto diritto di canna, Viorel al contrabbasso e
Filip Simeonov al clarinetto, i quali sono riusciti a vincere ampiamente la sfida con una piazza, come quella di Jazz On the Coast abituata alla linea classica tracciata dal direttore artistico, andando avanti per quasi due ore senza alcun calo di energia o tensione.
Il programma è iniziato con una doina, introdotta da un preludio strumentale, il
taxim, forse la più autentica e la più caratteristica delle forme espressive della musica popolare romena, legata alla natura,
originale ed autentica, come un gemito, un grido, un canto che sgorga dall'animo del pastore e che sembra riempire tutto ciò che si trova tra la terra e il cielo. La doina è una
melopea legata a specifiche forme introduttive e conclusive, affidate alla sensibilità dell'esecutore da cui dipendono gli effetti di parlando-rubato, sfumature solo approssimativamente trasmesse con le formule ritmico melodiche tradizionali del genere, nelle quali si può ravvisare l'influenza del
maquam. Le doine sono state intercalate dalle danze che hanno origine dalle danze greche consacrate ad Apollo e Diana, chiamate Chora o hora, iniziante prima lentamente e poi sfociante in un sabba infernale e liberatorio, una danza nazionale costruita sui modi frigio e lidio, come anche sulla scala pentatonica, in particolare per le scale maggiori con finali sulla dominante. I violinisti hanno offerto l'atteso sfoggio di alto virtuosismo con "soli" particolarmente elaborati, con uso di scordature, vibrati e trilli sulle corde a vuoti, con armonici presi, però, con posizioni non oltre la III. Il flautista si è lanciato in fantasmagorici ornamenti melodici, melismi e figurazioni velocissime, dando ampia dimostrazione del flauto quale strumento dionisiaco, del linguaggio dell'eccesso, del "venire meno".
Le menti dell'uditorio non hanno potuto esimersi dal volare ad Arto Tuncboyaciyan
e alla sua Armenian Navy Band, etno-jazz di finissima trama, e al suo incontro-sintesi tra strumenti o a
Goran Bregovich, il quale, a nostro parere resta, per quanto lo si voglia elevare, un ex-rocchettaro, le cui leggi di facile comunicazione del genere musicale ben conosce, e per le quali "elettrifica" una musica etnico-tradizionale, rendendola più vicina al rock, creando un linguaggio nuovo e più comprensibile a fette sempre maggiori di pubblico. I
Taraf invece, fedeli al loro essere, nonostante l'uso di strumenti moderni, temperati, che hanno disperso molti dei caratteri modali originali, sono riusciti a coinvolgerci in pieno nel loro variopinto gioco, portandoci a smemorarci, ad ogni suono, passo e parola, in una stupefacente mescolanza, che ha dato luogo ad un profilo romanzesco, svelante la modernità di ogni luogo e di ogni tempo, con la sua debolezza e la sua forza.