Ben Wendel Group
Ferrara - Torrione Jazz Club - 25 febbraio 2017
di Niccolò Lucarelli
Ben Wendel - sax tenore;
Shai Maestro - pianoforte;
Harish Raghavan - contrabbasso;
Nate Wood - batteria
Sull'onda del nuovo album What We Bring, Ben Wendel
porta a Ferrara le sue note sospese fra la tradizione e l'innovazione, stante anche
la sua educazione alla musica classica che ha ricevuta nell'infanzia, per tramite
della madre. Ne scaturisce quindi un jazz elegante, capace di proporre interessanti
soluzioni melodiche e ritmiche, con incursioni nel rock e nell'indie, senza tralasciare
l'America Latina, a disegnare un salire e scendere di note che ricorda i disegni
di Keith Haring, ironia compresa. Un jazz elegante, quindi, dinamico, per lo più
d'impressione, dove la ritmica sembra sopravanzare a tratti la profondità concettuale,
rispetto ad altri autori contemporanei come Greg Burke e o Donny Mccaslin; tuttavia
anche Wendel è figlio del suo tempo, e qua e là affiorano interessanti richiami
ad, esempio, alla narrativa di Don DeLillo, ma non solo.
A Ferrara, unica tappa italiana di un minitour europeo
di soli sette concerti, Wendel si presente con la classica formazione del quartetto
bebop, con Nate Wood alla batteria (che torna al Torrione dopo il sontuoso concerto
tenuto con il Fast Future Quartet di McCaslin dello scorso aprile). Wood
suona la batteria con la consueta visceralità, aggredendo lo strumento, rischiando
più volte l'apnea mentre percuote forsennatamente i piatti, e costruendo un muro
sonoro di grande eleganza timbrica, paragonabile a una tela di Mark Rothko. È Wood
il perno di un interplay dinamico e coinvolgente, al quale il contrabbasso di Raghayan
apporta un frizzante elemento etnico, con quelle corde pizzicate quasi si trattasse
di quelle di un sitar; Maestro al pianoforte si muove invece su atmosfere più classiche,
dai toni generalmente più cupi, a costruire quella solidità urbana contemporanea
su cui s'innesta il sax di Wendel, il quale, pur essendo il leader del quartetto,
mai sopravanza i colleghi con ripetuti a solo, ma si pone al servizio del
collettivo, dialogando spesso con il pianoforte sul medesimo motivo, e svolazzando
su un cielo urbano non sempre azzurro, a tratti persino cupo, che sembra sembrare
come un macigno anche con i suoi cambi atmosferici, riecheggiati dai cambi di ritmo
di cui abbondano le composizioni di Wendel, come le riletture di brani altrui, metafore,
anche, dell'instabilità dell'esistenza contemporanea; i musicisti prendono spesso,
infatti, direzioni diverse, e il risultato è un sound composito, caldo e appassionato,
con pochi virtuosismi ma dalla coinvolgente concretezza d'insieme.
Unforeseeable si apre con una forsennata batteria in 4/4 sullo stile delle
marchin' band, che poi si sfrangia in un virtuoso a solo dal sapore indie-rock.
Suo contraltare, il sax cadenzato su un motivo di quattro note, mentre in sottofondo,
Raghayan pizzica il contrabbasso come dovesse suonare per una danza tribale. Il
brano è divertente e imprevedibile (come da titolo), e l'ascoltatore sta come incollato
con l'udito, curioso di scoprire lungo quale sentiero lo condurranno Wendel e soci.
Song song è un vivace omaggio al
Ahmad Jamal
e al suo Poinciana, ma al ritomo caraibico orinale Wendel affianca il
music hall della Broadway degli anni Trenta, con i suoi ritmi morbidi e ballabili
dal sapore di Martini. Apertura con il vivace sax, supportato dal pianoforte e dalla
batteria cadenzati, ai quali Wendel lascia ampio spazio per il loro dialogo dove
la leggerezza di Wood alle percussioni è bilanciata dalla luminosità di Maestro,
in rapida attività sul registro acuto. Un brano che lascia i quartieri alti per
avventurarsi nei club fuori mano, quelli stessi dove si andrebbe in cerca di compagnia
e di un buon bicchiere, per scrollarsi di dosso la polvere di una settimana monotona.
Eppure, nella miglior tradizione della narrativa americana contemporanea, anche
questo brano contiene un fondo di tristezza, un velato senso di perdita, magari
proprio di se stessi.
In chiave autobiografica il particolare What are you doing in the rest of your
life, che risente dell'influenza della musica classica dell'infanzia di Wendel,
cresciuto con Mozart e Puccini. Il brano è diviso in due parti ben diverse l'una
dall'altra: la prima è caratterizzata da un'atmosfera romantica d'altri tempi, apportata
dal pianoforte di Maestro sul registro grave, mentre la batteria cadenzata garantisce
un gradevole "andante moderato". Radicale cambiamento nella seconda parte, con Wood
che lascia le percussioni per il ride e i tom tom, mentre il sax si arrampica
su note acute e spigolose; è questa l'identità del brano, così come questa è l'identità
del jazz di Wendel, che ha trovato nella musica "cosa fare per il resto della vita".
Un intenso brano autobiografico, che lega atmosfere assai differenti, come un romanzo
di Rick Moody.
Incursione nell'indie-rock con la rilettura di Doubt, del duo Wye Oak, sostenuta
dalla batteria cadenzata e latineggiante di Wood suonata con le spatole, mentre
il sax e il pianoforte dialogano su un fraseggio romantico, in aperta antitesi stilistica
con la batteria. Un brano enigmatico, indeciso sulla direzione da prendere, concettualmente
vicino a Unforeseeable.
Wendel e colleghi hanno regalato al pubblico ferrarese un'esibizione coinvolgente,
dal sound variegato, che ha riscosso meritati applausi durante la serata, oltre
a un'autentica ovazione finale.
Inserisci un commento
© 2000 - 2024 Tutto il materiale pubblicato su Jazzitalia è di esclusiva proprietà dell'autore ed è coperto da Copyright internazionale, pertanto non è consentito alcun utilizzo che non sia preventivamente concordato con chi ne detiene i diritti.
|
Questa pagina è stata visitata 1.210 volte
Data pubblicazione: 14/03/2017
|
|