Franz Falanga
Nella Terra dell'U
Storia di giovani e del jazz a Bari
Illustrazioni di Giorgio Finamore
Edizioni Menabò – 2004
Checché ne dicano alcuni, il jazz non è solo serioso. Il jazz non è solo
"maledetto" e fatto di personaggi che hanno dovuto battagliare con droghe,alcool
o carceri. Il jazz non è solo – o non sempre è stato – modaiolo, business e marchette.
Il jazz è stato – e forse,almeno un po',lo è
ancora – una passione. Una passione sanguigna e sanguinolenta che ti domina e che
devi soddisfare. Ed è una soddisfazione essere pagati – anche poco, molto poco –
per poter suonare la "tua musica".
Franz Falanga è un veneto prestato a Bari, o un barese prestato al Veneto.
E' uno dei massimi esperti del vernacolo barese. E' docente universitario, architetto,scultore
e musicista. La sua voce corre chiara e scorre come un torrente fresco, senza mai
incepparsi e senza essere mai ridondante. La storia di cui si narra è quella di
Bari e della sua cultura, della sua creatività. Ma è anche la storia del jazz italiano,
più barese, sicuramente, ma che si potrebbe intingere anche in altri contesti geografici.
L'etnia pugliese, meglio barese è trattata con il massimo rispetto degli
accadimenti sì come raccontati all'autore dal padre, jazzista e jazzofilo, co-fondatore
della prima formazione jazz barese. Quella nata nella primavera del
1946, quando i soldi erano pochi e tutto ancora
scarseggiava, anche la voglia di "vivere". Era formata da "compagni di strada, neanche
di scuola". Il combo era così composto: Francesco Falanga alla fisarmonica,
Ettore Panizzolo al banjo (bengio, secondo l'identità linguistica barese),
Vito Di Gennaro al clarinetto e Luciano Panza alla batteria. All'inizio
solo due brani in repertorio, poi quattro e come "cavallo di battaglia" il "bughi
bughi". I "terrisi" erano pochi, molto pochi e gli strumenti costavano tanto, troppo.
La batteria era formata da due tamburelli, sì quelli che si usano – meglio, si usavano
– per giocare sulla spiaggia e le bacchette erano due meravigliosi e roboanti cucchiaioni
da cucina. Il piatto era "una di quelle teglie nere con il bordo basso".
Per anni, anche dopo i primi successi – che significava riuscire a suonare
in feste e piccoli teatri – le custodie non erano nelle possibilità economiche dei
musicisti. Erano una chimera. Ma, senza tante storie e con tanta buona volontà,
si ovviava con delle coperte e degli stracci. Poca forma e tanta sostanza.
I jazzisti erano pochi all'epoca ed il comune sentire gli avvolse tutti
in una sola big band: nel 1952 nasce la New
Orleans Big Band che, dopo, diventerà la leggendaria Southern Jazz Band.
Ecco, pochi stralci di quello che viene capillarmente narrato, non descritto,
ma vissuto nel libro di Falanga. Un vissuto senza tregua, senza una battuta d'arresto.
Dalle topicità baresi (il crudo, le ciccine, il movimento, lo sciale,la focaccia,
i pigrotti…) alle spiegazioni di un lessico, una lingua che si perde nella notte
dei tempi e forma un sincretismo storico-linguistico accattivante. Ma il filo conduttore
è il jazz. La musica avvolge l'autore, ancor prima il padre, ed avviluppa il lettore.
Lo tiene stretto intorno alla Storia, lo coccola e lo erudisce. Un excursus arricchito
da un glossario jazz e da un prezioso "Indice dei musicisti baresi jazz tradizionali
non professionisti" che sono costantemente e puntualmente elencati e descritti all'interno
del volume. Le illustrazioni sono didascaliche alla narrativa. E Giorgio Finamore
ha ottimamente rappresentato l'anamnesi tracciata da Falanga. Di grande importanza
anche i corredi fotografici di: Antonelli, Falanga, Ficarelli, Fiore, Gigante, Sorrentino,
Photopress Pupilla, Foto Ramosini e Associate Booking Coop. di New York.
Alla fine, però, si affaccia un po' di amarezza. E di tristezza. Non per
colpa dell'Autore, anzi, ma per demerito dell'evoluzione socio-musicale-economica.
Non sempre il tempo è galantuomo. Mentre in passato si suonava e si parlava per
un "gaudeano" di pasta al forno, oppure per una tiella di riso-patate e cozze (entrambi
i piatti appartengono alla cultura gastronomica barese). Si suonava perché si "godeva"
nel suonare. Ora, oggi, tutto appare diverso. Troppo diverso. Si suona per i "terrisi",
per i quattrini. Si suona di tutto, ovunque e comunque ed in qualsiasi situazione.
Per lo più, ci si diverte poco e, con ogni evidenza, tale incompletezza appare all'esterno.
Dobbiamo registrare – ob torto collo – che l'evoluzione è stata demolente.
Così come la pasta al forno non è più quella di una volta, così come alcuni frutti
di mare non sono più in commercio per essere stati oggetto di depauperanti obiettivi
economici, e così come alcuni storici teatri sono andati in malora, anche il jazz,
anzi i jazzisti, hanno cambiato le regole fondamentali del " sentirsi a jazz".
Solo una considerazione, una mesta considerazione.
N.B. Quando ho saputo del libro in questione, mi sono detto: "Caspita, sarà bello!".
Dopo averlo letto, posso dire: " Tenevo ragione!" (modus dicendi tipico del
frasario barese).
Alceste Ayroldi per Jazzitalia
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Data pubblicazione: 23/02/2008
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