di Olga
Chieffi
photo by Francesco Truono
Dopo l'inaugurazione, "amichevole", vissuta sabato scorso, del terzo cartellone del
RoundMidnight Jazz Club di Gianni Penna, affidata alla formazione del pianista
Guglielmo Guglielmi, la sera del 25 ottobre, il club ha offerto al proprio affezionatissimo pubblico il primo evento internazionale, con lo start della tournée italiana del pianista
David Kikoski, in cui è affiancato dal valente tenor sax Rob Scheps, che non ha disdegnato di alternarsi anche al flauto traverso, in un retaggio polistrumentistico di chiara impronta coltraniana, dal contrabbassista
Okon Essiet e dal siciliano, conterraneo del padrone di casa e "collega",
Marcello Pellitteri alla batteria.
Il quartetto non si è risparmiato nei confronti
dell'esigente uditorio del Roundmidnight, suonando per oltre due ore e mezza,
quasi una lunghissima sessione di prove, su di una scaletta, che ha visitato
felicemente la musica di Parker ad Hancock, brani originali, sino ad una
splendida ballad, in cui
Scheps
si è esibito al flauto, ponendo in luce un timbro di estrazione classica, piacevole, libero da effetti speciali, con un solo incorniciato da brevi glissando. Il quartetto ha lavorato su forme dichiaratamente boppistiche, in continua evoluzione, con un linguaggio creativo, il cui fascino è risultato proprio quello di sbilanciarsi in avanti con una "forward intention" di accenti e fraseggi, frutto di una miscela originale di melodie accattivanti e liriche, arrangiate in modo non prevedibile. Una sorta di work in progress, in cui il jazz diventa una forma di vita attiva, dal cuore ostentamente pulsante, i cui tratti essenziali vanno espressi comunque in maniera limpida, inequivocabile e senza alcuna esitazione, con un linguaggio che, da una parte, ha sviluppato ai massimi livelli le ragioni estetiche del bop, quali quella delle divisioni ritmiche articolatissime, unitamente ad archi melodici resi spigolosi da strutture armoniche complesse, il tutto, naturalmente, eseguito, come da tradizione ad una velocità ben al di sopra delle righe, sviluppando fiorite composizioni estemporanee, attraverso valori metronomici piuttosto alti e ben calibrati, dall'altra, chiudendo i vari brani con una specie di ritorno alle linee semplici e pure.
Il pianoforte di Kikoski non ha ricorso a sotterfugi
particolari, restando fedele a una sana, schietta, onesta, moderna
tradizionalità post-boppistica, a cui si può arrivare unicamente avendo tutte le
carte in regola e giocandole con trasparente sincerità ed ironia. Abbiamo
apprezzato un pianismo agile, duttile nell'enunciazione stilistica, ora
peculiarmente ispirato ai fraseggi sassofonistici, ora aggressivamente compatto
in fitti e raccolti block chords, ora allargato a tutta la tastiera, ora
recuperando il valore comunicativo del riff che, in alcune situazioni si è
trasformato in un vero e proprio ostinato, e delle formule antifonali, tornando
alla pronuncia
"fisica" e ad un senso ritmico che sancisse il legame
indissolubile con le pulsazioni dell'esecutore, fino allo stile rarefatto e
soffuso delle ballad o nelle introduzioni riservate al piano solo.
Ne è emersa una poliedricità, anche se focalizzata in un periodo ben preciso della storia del jazz, implacabilmente personalizzata da un'originalità definita in ogni dettaglio, che tende ad evidenziarsi nella scansione del fraseggio, nella ricercata preziosità armonica del tocco, che ha pochi eguali.
Il tenore di Rob Scheps è un esempio di come si possa allargare la tavolozza sonora, proiettando in avanti il linguaggio, senza perdere di vista aspetti essenziali del campo artistico di appartenenza, nella fattispecie l'improvvisazione, l'espressività timbrica e il ritmo, in una chiara adesione ai concetti ritmici del jazz, alla cura e alla ricerca minuziosa del sound e alla sua non rinuncia, nemmeno in presenza di strutture ampie e vincolanti, alla pratica improvvisativa espressa con tecnica quasi funambolica.
Il contrabbasso di Okon Essiet si è dimostrato solido come una roccia, nel pieno delle proprie facoltà espressive, profondo e affascinante, quanto può esserlo chi si trova in stato di grazia, mentre la batteria di
Marcello Pellitteri è risultata l'ossatura sicura di ogni brano, andando a completare un insieme il cui quinto componente è risultato essere il divertimento, l'ironia che ha ammantato sia l'aspetto tematico che le fasi "libere", soprattutto quando il gioco improvvisativi si è fatto multiplo, scambievole, incrociato.
Pubblico incollato alle sedie per oltre due ore, legato da quell'invisibile filo rosso, rappresentato da quella attenzione generata dalla prepotente tensione in avanti del gruppo e il relax, unitamente a quel senso particolare di dilatazione del tempo che è dono unicamente dei grandi interpreti.