Una settimana con
Ray MANTILLA
SPECIAL GUEST: Piero Odorici
di Daniele Cecchini
«Daniele, hai il registratore anche stasera? Possiamo
continuare l'intervista, così poi la intitoli "One week with Ray Mantilla"!». E
di fatti è un giovedì sera, quarto giorno di una settimana di residenza presso
il jazz club bolognese
Chet Baker della
European Space Station del
percussionista newyorchese di nascita ma dai cromosomi decisamente cubani.
L'esuberanza non fa certo difetto a Mantilla; la si può quasi misurare in
metri: quelli del nastro con le nostre conversazioni dei giorni precedenti.
Nulla di strano, per un musicista come lui abituato a considerare il
palcoscenico, oltre che come spazio dell'esecuzione musicale, come vero e
proprio luogo di teatro. Quando prende un assolo o quando incita i suoi
musicisti, Mantilla è un grande showman, e lo stesso può dirsi dell'uomo
che ho davanti a me durante l'intervista. Anche quando non è seduto dietro le
sue congas, Mantilla è un irrefrenabile istrione, con un tocco di divertito
esibizionismo che dà ragione a quel drammaturgo inglese che sosteneva che «all
the world is a stage».
La musica e lo spettacolo, il ritmo e l'energia hanno
scandito oltre quattro decenni di carriera al fianco dei nomi più illustri sia
della scena jazzistica che di quella latin: Tito Puente, Art Blakey,
Max
Roach, Gato Barbieri, Charles Mingus e, se non bastassero questi,
Herbie Mann,
Bobby Watson,
Cedar Walton, Muhal Richard Abrams,
Ray Barretto, e qui i puntini
diventano necessari… Nonostante fosse già un percussionista di riferimento,
Mantilla ha atteso sino alla fine degli anni Settanta prima di dedicarsi con
continuità a progetti propri. La documentazione della carriera di Mantilla come
leader inizia infatti nel 1978 con la registrazione di Mantilla per la
Inner City (il disco è oggi praticamente introvabile). Ma è nella prima metà
degli anni Ottanta, con la creazione della Space Station e le registrazioni per
Red Records, che Mantilla si impone come capogruppo. Più recente è poi la
creazione della Jazz Tribe: praticamente una formazione all stars, pur
non avendone il nome, con la quale Mantilla prosegue il sodalizio discografico
con Red Records.
Ma lasciamo che sia Ray a presentarci la sua musica e
gli uomini che assieme a lui la creano. L'argomento d'avvio viene praticamente
spontaneo, vista l'occasione del nostro incontro e la presenza al nostro
fianco, durante l'intervista, di Piero Odorici, che della European Space
Station è l'inconfondibile voce sassofonistica.
DC:
Come è nata l'idea di una versione europea della
Space Station?
Ray:
In passato venivo in Europa con la mia band
statunitense. Poi, una volta, Alberto Alberti suggerì di provare una tournée
con dei musicisti italiani. Fu in quell'occasione che nacque la European Space
Station. Ora, questa è la band con la quale mi sposto nel Vecchio Continente,
dovunque mi chiamino per suonare, mentre con i miei gruppi americani, sia la
Space Station che la Jazz Tribe, vengo in Europa solo di tanto in tanto.
DC:
Esistono altre edizioni 'straniere' della Space
Station?
R: A parte la European Space Station, che è
formata da musicisti italiani, c'è stata una Rumanian Space Station.
L'esperienza in Romania è stata coinvolgente, anche se i musicisti del luogo
non possono di certo essere paragonati con quelli che mi accompagnano
abitualmente. A New York, poi, c'è la nuova Space Station. Eddie Martinez
è
tornato a essere il pianista della formazione; ci sono poi Enrique Fernandez
al
sax baritono e il flauto, Willie Williams al sax tenore, Chucho Martinez
al
contrabbasso. Quanto al trombettista, non c'è n'è uno fisso. Ho provato sia
Chino Gonzalez che John Walsh. John è davvero in gamba; suona con
Eddie
Palmieri.
DC: È stato facile trovare dei musicisti italiani con
cui proporre la musica latina della Space Station?
R: Il primo punto di riferimento fu Piero. Lo
incontrai a Bologna, suppergiù una quindicina d'anni fa. Come mia abitudine,
per prima cosa diventammo amici, quindi provammo assieme la musica. Poi
suonammo dal vivo al
Chet Baker e, da allora, Piero è rimasto il miglior
strumentista italiano col quale mi sia capitato di lavorare. Quando suoniamo
assieme sembra quasi che proveniamo dalla stessa famiglia; Piero è come un
fratello per me. Tanto che ho voluto averlo al mio fianco anche per una tournée
negli States, in un gruppo che comprendeva anche George Cables.
Piero:
Suonare con musicisti di quel livello in
diverse importanti città degli Stati Uniti fu un'esperienza indubbiamente
formativa per la mia maturazione musicale. Tornando alla European Space
Station, nel tempo poi le cose si sono sviluppate. Prima di trovare i musicisti
giusti per completare la band ci è voluto un po' di tempo. Facciamo una musica
che è sia jazz che latin: è molto difficile da suonare per un musicista
di formazione esclusivamente jazzistica. Ora, comunque, la European Space
Station ha una sua fisionomia stabile: oltre a Ray e a me, ci sono Nico Menci
al pianoforte, Paolo Ghetti al contrabbasso e Roberto Faenzi alla batteria.
DC:
Con quale frequenza suonate assieme?
R: Ogni volta che vengo in Italia.
P: Più o meno una volta all'anno, da tredici o quattordici
anni a questa parte.
R: Sì, per lo meno. E una volta all'anno non
vuol dire un concerto. Significa un intero tour.
DC: Come trovi i musicisti italiani alle prese con le
tue composizioni e i ritmi caraibici?
R: I ragazzi della European Space Station hanno
la massima familiarità con la mia musica. Abbiamo suonato assieme così tante
volte, ormai.
DC:
E gli altri jazzisti italiani?
R: Non posso dirti molto a loro riguardo. Sono
diversi anni che non suono con altri musicisti italiani. Ricordo però i problemi
che avevo coi batteristi: ne ho provati molti prima di trovare in Roberto Faenzi
quello più congeniale per incrociare i miei ritmi.
DC: Piero, che cosa comporta a livello ritmico e
timbrico lo spostarsi dal bop al latino?
P: Il linguaggio per la mia parte da solista
rimane quello boppistico che pratico abitualmente. Ritmicamente invece le cose
cambiano parecchio e questo mi dà nuovi stimoli. I ritmi latini si integrano
comunque talmente bene nel linguaggio jazzistico da non risultare spiazzanti.
Comunque oltre ai ritmi caraibici suoniamo anche sul quattro: Ray ha suonato a
lungo con Roach e Blakey! La tendenza è quella di spostarsi dal jazz al latin,
ma non di fare della musica latina al cento per cento. È poi l'aggiunta delle
percussioni alla normale sezione ritmica che conferisce una particolarità
timbrica alla miscela strumentale.
R: Quando questo gruppo suona con me, bisogna
che i ragazzi comprendano il ritmo delle congas. Sono esse il punto focale della
situazione: sulle congas eseguo il materiale principale del brano e sviluppo il
ritmo. Poi posso spostarmi sui timbales per un assolo, ma questo capita solo in
certi brani. Nella mia musica le congas sono al centro della performance,
mentre gli assoli si sviluppano attorno al ritmo spedito che con esse produco.
La differenza risiede nel diverso modo in cui i musicisti devono sentire il
ritmo, che non si trova solo nelle loro mani, ma anche nei piedi: questa musica
ha una propensione per la ballabilità assai più spiccata di quella del jazz,
anche se non tanto quanto la musica salsa. Ma la nostra non è esattamente una
musica che si possa usare per ballarci sopra; non siamo un'orchestra da ballo.
Non suoniamo salsa, bensì temi jazzistici su ritmi latini: una musica che è
comunque in definitiva da ascoltare, ma con una propensione verso la danza.
DC: Quali sono i ritmi che pratichi maggiormente con la
Space Station?
R: La guaracha, il montuno, il mambo. Sono
ritmi tra loro nettamente distinti, ma al tempo stesso li posso sentire come
un'unica cosa: sono l'espressione ritmica di una unica cultura. Sono infatti i
ritmi tipici degli afro-cubani.
DC: Il ritmo del bop è tendenzialmente uno, ora
metronimicamente più lento, ora più veloce, mentre i ritmi latini sono effettivamente
diversi uno dall'altro, tanto da avere dei nomi specifici.
Bobby Watson,
parlando della Jazz Tribe nella quale suonate assieme, mi ha detto che proprio
questa era la più sensibile differenza ritmica con la quale doveva fare i
conti, passando dal bop al latin jazz.
R: Oh, sì. I ritmi latini hanno ognuno il
proprio nome, come delle persone, per distinguerli uno dall'altro, perché non è
soltanto una questione di accelerare o rallentare il passo. Noi suoniamo in
prevalenza su un ritmo di guaracha, ma usiamo anche ritmi più lenti come il
bolero e il montuno, che è un po' più rapido. Impieghiamo anche la guajira, un
ritmo che è come un blues latino:
Mantilla's Jam ne è un esempio.
DC: Qual è il repertorio della European Space Station?
R: Abbiamo un repertorio decisamente ricco che
ci permette di modificare il programma dei concerti da una sera all'altra.
Suoniamo sia le mie composizioni che quelle di Piero, oltre a dei meravigliosi standards.
Tra questi ci sono la gillespiana Manteca, un mambo che è un pezzo forte
del nostro repertorio, Little Sunflower, A Night in Tunisia, Perdido,
Ceora, Poinciana e, con speciale riguardo per il pubblico
italiano, Estate di Bruno Martino e Parlami d'amore Mariù, che
riscuote sempre un successone. Di Piero mi piace particolarmente Delilah,
mentre i miei pezzi forti sono Mantilla's Jam e Camino al cielo.
DC: Avete già registrato con la European Space Station?
R: Sì, abbiamo fatto un disco assieme, ma mi
piacerebbe incidere qualcosa di nuovo per documentare la maturazione del gruppo.
P: Il disco che abbiamo fatto si intitola
Head
Games. Uscì nel 1998 assieme a una rivista che oggi non esiste più: Jazz
Today. Vendette assai bene, cinque o sei mila copie, ma oggi è praticamente
introvabile.
DC: Parliamo delle tue registrazioni come leader. Quasi
tutte sono state pubblicate dall'etichetta milanese Red Records, che ha una
particolare attenzione per il jazz latino.
R: Il fatto che i miei dischi come leader siano
stati pubblicati da un'etichetta europea è un fatto abbastanza normale per me,
vista la quantità di volte che sono venuto in questo continente per fare
concerti.
DC: Il primo disco della Space Station fu
Hands of
Fire
[Red Records 123174], del 1984. Del gruppo facevano allora parte
Dick
Oatts (ance), Eddie Martinez (pianoforte), Peter Barshay (contrabbasso)
Steve
Berrios e Joe Chambers (batteria). Quali circostanze portarono alla sua genesi?
R: Conobbi Alberto Alberti a New York
attraverso Cedar Walton. In quell'occasione gli feci ascoltare alcuni nastri
con la mia musica e i miei gruppi. Gli piacquero, così ne prese alcuni per
portarli in Italia e farli ascoltare ad altre persone. E così facendo riuscì a
organizzarmi una tournée! Hands of Fire venne assieme al mio
primo tour europeo con la Space Station. Infatti, quando giunsi in
Italia, i concerti furono un tale successo che decidemmo di registrare parte di
quella musica. Fu poi Alberti a mettermi in contatto con Sergio Veschi della
Red Records
per produrre il disco.
DC: 'Mani di Fuoco' ti rimase come soprannome. Da dove viene
questa espressione?
R: Un mio amico che lavora per un quotidiano di
New York scrisse l'espressione «manos de fuego» a proposito della mia musica.
Questa fu la sua origine. Poi divenne il titolo del disco. Per me andava bene,
finché non era «manos de piedra», mani di pietra!
Alcune considerazioni su musicisti con cui Ray ha suonato...
DC:
Su Cedar Walton
R: Quella con Cedar è un'amicizia che dura
ininterrotta dai tempi in cui suonavamo con Art Blakey. Assieme siamo stati
anche in Giappone, mi pare fosse il 1964. Ma la prima volta che lo incontrai fu
nel 1962, in Francia. Eravamo entrambi lì per un'importante esibizione con
Blakey. Cedar è un tipo meraviglioso! Ogni volta che mi siedo per suonare con
lui vado su di giri: è un musicista formidabile. Mi diverto un mondo a suonare
assieme a lui.
DC:
Che impressione ti ha fatto tornare a registrare con lui
poco tempo fa?
R: Abbiamo registrato
Latin Tinge
in
trio con Chucho Martinez per la High Note. Suonare con
Cedar viene di una
facilità incredibile, anche se io preferisco suonare circondato da molti più
musicisti. Ma per Cedar il trio è un format speciale, così ho accettato
di essere al suo fianco. La formazione era inedita. Come per ogni altra cosa,
la prima volta è sempre particolarmente impegnativa, ma dopo un po' di pratica
assieme le cose hanno iniziato a girare come si deve.
DC:
Il trio con Walton è Martinez è un'esperienza che si ripeterà?
R: Spero di sì. Continuando a suonare assieme
potremmo raggiungere risultati migliori del primo. Ma si tratta di un progetto
di Cedar, quindi tutto dipende da lui.
DC:
Su Bobby Watson
R:
Bobby e io stiamo collaborando nella Jazz
Tribe da molto tempo. Ora però
Bobby insegna alla University of Missouri a
Kansas City, quindi bisogna accordarsi con molto anticipo se si vuole fare
qualcosa assieme. L'insegnamento occupa molto del suo tempo; durante il periodo
universitario gli risulta poi assai difficile viaggiare per concerti. Ma
l'insegnamento è qualcosa di particolarmente importante nella carriera di un
musicista jazz, specialmente quando ha una famiglia e dei figli, com'è il caso
di
Bobby. Si tratta infatti di un lavoro che ti dà delle basi stabili.
Ho anche suonato con Tailor Made, la big band di
Bobby. Sono pure stato in un tour con l'orchestra. Tailor Made è una
band ragguardevole che purtroppo non può suonare spesso, per il problema che
affligge tutti i gruppi di quelle dimensioni: i costi.
DC:
Su Art Blakey
R: Art era meraviglioso. Con lui si trattava di
suonare per davvero: se riuscivi a suonare al suo fianco rimanevi con lui, ma
se non ce la facevi a raggiungere il suo livello non ti permetteva di rimanere
nel gruppo. Era parecchio impegnativo, ma appagante. Quanto ho sudato! Anche il
solo riuscire a tenere il tempo di Art mi bastava per essere soddisfatto di me
stesso. Aveva un'energia incredibile e tutti dovevano stargli dietro, perché
lui non si fermava di certo ad aspettarli. Non ho mai visto i membri di un
gruppo sudare tanto! Fu un'esperienza particolarmente formativa per me. Nella
band c'erano anche Cedar Walton e
Woody Shaw.
DC:
Su Max Roach
R: Anche la collaborazione con Max è durata
parecchio. Lo considero ancora il mio padrino. Max suona in modo diverso ogni
volta che lo vedi, se ne viene fuori sempre con qualcosa di nuovo, non riesce a
riproporre due volte la stessa cosa. Quando suonavamo negli M'boom, la all
percussion band, lui si esibiva con ogni strumento a percussione
immaginabile purché avesse una bacchetta! Gli M'boom sono stati un gruppo
magnifico e particolare. Quando ero circondato da tutti quei percussionisti mi
veniva spontaneo fare del mio meglio: per me era come una competizione. Non so
se questa band tornerà a suonare assieme. Max vorrebbe provare a rilanciarla,
ma sai, 78 anni diventano 79 e così via…
DC:
Su Charles Mingus
R: L'affare con Mingus fu una cosa tutta a modo
suo. All'epoca lavoravo nella big band di Sam Rivers. Paul Jeffrey
suonava
nella sezione delle ance, mentre il bassista era Dave Holland. Paul Jeffrey,
che tra l'altro abitava nel mio stesso edificio, apprezzava il mio modo di
suonare, così mi segnalò a Mingus, col quale stava collaborando. Un giorno,
Charles passò da casa mia: faceva sempre le cose nella maniera più diretta
immaginabile. Mi chiese senza preamboli se avessi voluto fare un disco con lui.
Iniziò così. Quindi mi invitò a casa sua: nessuno vi era ammesso a meno che non
fosse stato invitato personalmente da Charles. In quel periodo Charles stava
lavorando a
Cumbia & Jazz Fusion e io presi parte alla registrazione
di quel disco. Poi facemmo
Me,
Myself an Eye e
Something Like a Bird.
Di Mingus non posso dimenticare l'umore instabile: un
giorno era affabile e tranquillo, il giorno successivo era tutto fuorché
tranquillo.
DC:
Su Gato Barbieri
R: Una volta successe una cosa buffa al JVC
Jazz Festival. Io suonavo sia con Gato che con Art Blakey. Suonai con Gato nel
pomeriggio e poi mi unii a Blakey per un altro concerto più tardi lo stesso
giorno.
DC:
Una specie di double bill.
R: Sì, solo che i capigruppo non apprezzano una
cosa del genere. Dopo di allora, con Gato registrai
Yesterdays
e
Viva
Emiliano Zapata. Gato e io formavamo proprio una bella coppia. Ce ne
andavamo in giro per i fatti nostri, ma ciò non piaceva a sua moglie. Il
risultato fu che non suono più con Gato. Ora ogni volta che lo vedo lui dice a
sua moglie «Sono stato in giro con Ray Mantilla» con la stessa voce che userebbe per confessarle di essere
stato con un'altra donna. Credo proprio che la causa della mia uscita dal
gruppo di Gato fu sua moglie… | DC:
Poi hai fatto
Synergy
[Red Records 123198],
nel 1986.
R: La formazione della Space Station era la
stessa di Hands of Fire, con solo minimi cambiamenti. Steve Berrios,
Eddie Martinez, Dick Oatts e io facevamo sempre parte del gruppo. Non so il
perché, ma nei gruppi jazz è sempre il bassista che cambia! In Synergy
il bassista fu Guillermo Edgehill. In quel disco ci fu poi la presenza di
Steve
Grossman, che contribuì in maniera davvero speciale alla riuscita di Synergy.
Per quanto riguarda la scelta del programma musicale,
in questa come in tutte le altre produzioni che ho fatto per la Red, mi fu
lasciata la massima libertà. Sia Veschi che Alberti lasciano ai musicisti le
decisioni sulla musica. Durante la registrazione di Synergy, per
esempio, decisi di suonare un brano con un ritmo in sette: era una delle prime
volte che suonavo un tale ritmo e dovetti eseguirlo per renderlo familiare ai
componenti del gruppo, che si lamentavano della sua difficoltà. Figuriamoci,
era difficile anche per me! Per registrare un solo brano, si trattava di Caminos
de Macchu Picchu, ci mettemmo una quantità di tempo spropositata. Dopo di
che, il resto della registrazione sembrò procedere con una particolare
rapidità: tutto ci sembrava assai facile a confronto.
DC: L'ultimo album che hai registrato con la formazione
statunitense della Space Station è
Dark Powers
[Red Records 123221].
Risale al 1988 e si segnala per la presenza di un ospite speciale che poi è
diventato tuo partner e co-leader nella Jazz Tribe:
Bobby Watson.
R: Quella di chiamare
Bobby Watson come ospite
della Space Station nella registrazione di Dark Powers fu proprio
un'idea azzeccata. Da allora Bobby e io siamo diventati grandi amici e abbiamo
continuato a sviluppare assieme diversi progetti musicali, il più noto dei
quali è la Jazz Tribe.
DC: Quale contributo ha portato Watson nella tua
musica?
R:
Watson è stato di grande aiuto nel dare una
più definita tinta jazzistica alla mia musica. Inoltre, all'epoca Watson era
già un nome affermato, mentre la Space Station era ancora una formazione
relativamente nuova. Averlo con noi ha sicuramente giovato al gruppo in fatto
di notorietà. Una cosa simile era successa con la presenza di
Steve
Grossman in
Synergy.
DC:
Cosa ti spinse, in origine, a creare la Space
Station e, poi, la Jazz Tribe?
R: Ho suonato musica salsa con Tito Puente per
diciassette anni. Fu un'esperienza grandiosa: il gruppo di Tito è un vero
traguardo per qualsiasi musicista latino. Ma avevo anche capito perché tanti
musicisti, a un certo punto, provano il desiderio di passare dalla salsa al latin
jazz. È per via della rigidità che caratterizza la salsa: è un ambiente nel
quale vige una disciplina ferrea e in più devi sempre fare i conti col fatto
che la gente deve ballare sul ritmo che suoni. E questo è un grande ostacolo
per la libertà ritmica. Questo spiega la nascita della Space Station.
Per quanto riguarda la Jazz Tribe, l'idea di questo
specifico gruppo mi venne come risposta a una concreta necessità: quella di
mettere assieme una formazione con la quale affrontare una tournée
europea che era già stata decisa. La prima cosa che mi venne in mente fu il
nome da dare al progetto, poi l'idea che i musicisti da coinvolgere in esso
dovessero essere tutti legati da un rapporto d'amicizia precedente la
formazione della band. Ciò che distingue una formazione all stars da
un'altra è la capacità dei musicisti di mettersi in relazione uno con l'altro.
Nella Jazz Tribe questo viene spontaneo, dato che tutti i membri del gruppo
sono amici di lunga data.
Nessun musicista della mia Space Station fu coinvolto
nella Jazz Tribe. Inoltre ritenevo che i membri del gruppo avrebbero potuto
cambiare di volta in volta. Oltre a me e Bobby, della prima formazione facevano
parte Jack Walrath, Walter Bishop Jr., Charles Fambrough e
Joe Chambers.
DC: Cosa distingue la Jazz Tribe dalla Space Station?
R: La Space Station newyorchese è decisamente
più latin, anche rispetto alla sua versione europea. Non c'è molto jazz
nella musica che suono con quel gruppo. Il repertorio della Space Station
statunitense è formato principalmente da mie composizioni, più qualche standard
latino. La Jazz Tribe esegue invece prevalentemente materiali nuovi scritti da
tutti i membri del gruppo: ognuno contribuisce con la propria musica. La Jazz
Tribe suona poi anche qualche standard jazzistico e alcuni materiali
provenienti dal repertorio della Space Station.
DC: Con la Jazz Tribe hai continuato a registrare per
la Red Records. Com'è nato il primo disco,
The Jazz Tribe
[Red Records 123254]?
R: L'album di debutto della Jazz Tribe fu,
ancora una volta, qualcosa di non programmato. Stavamo facendo l'ennesimo tour
europeo e, naturalmente, mentre noi suonavamo c'era sempre qualcuno col
registratore… Non c'era però nulla di pianificato: se le registrazioni non
fossero state soddisfacenti non c'era alcun obbligo di trarne un disco. Veschi
e Alberti furono però talmente convinti della validità dei materiali da
scegliere per la loro pubblicazione. Così nacque The Jazz Tribe. Il
secondo album del gruppo fu invece meticolosamente preparato.
DC: Il secondo disco della Jazz Tribe,
The Next Step
[Red Records 123285], è stato registrato in studio, nel 1999. Ciò ti ha
sicuramente permesso di curarlo maggiormente. Ma non temevi di perdere qualcosa
della spontaneità della situazione dal vivo?
R: The Jazz Tribe è un bell'album dal
vivo, ma The Next Step è grandioso, per l'energia che sa sprigionare.
Registrare dal vivo presenta numerosi inconvenienti: c'è tutta una serie di
dettagli imperfetti che, se non intaccano minimamente la qualità musicale del concerto,
non sono altrettanto compatibili col mezzo discografico. The Jazz Tribe
fu registrato dal vivo. Come ho detto, decidemmo però per la pubblicazione solo
dopo esserci assicurati del suo valore e non preventivamente.
La registrazione dal vivo è sempre un'incognita, così
per il nuovo disco ho preferito lo studio. Personalmente, poi, preferisco
registrare in studio anche perché così sono sicuro che le mie percussioni
avranno la giusta presenza sonora quando riascoltate su disco. Di più, mi sento
ancor più a mio agio se lo studio si trova a New York e l'ingegnere del suono è
pratico del sound latino delle congas. Jon Fausty è un ingegnere come
intendo io. Synergy, per esempio, fu registrato in uno studio in Italia.
Poi portai il master a Fausty perché non ero affatto contento del modo in cui
suonava. Lui lo rimise a posto a modo suo, facendo un gran bel lavoro.
DC: Quali sono i progetti discografici che vorresti
realizzare?
R:
Ho dei nuovi materiali che mi piacerebbe
mettere su disco con la European Space Station. Ma ho anche dei progetti per la
nuova Space Station newyorchese. Inoltre mi piacerebbe registrare un piccolo ensemble
col quale finora ho avuto modo di esibirmi solo pochissime volte: il progetto,
per il momento, si chiama «Tribute to Tito Puente» ma mi piacerebbe modificarlo
in «Mantilla plays Tito and Cal». Potete facilmente capire quali sono i
principali compositori in programma. Il gruppo è un quintetto con vibrafono,
pianoforte, contrabbasso, batteria e le mie congas, ma non escludo che si possa
aggiungere un flautista. Se riuscissi davvero a registrare questo progetto, mi
piacerebbe avere Mike Freeman al vibrafono.
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Data pubblicazione: 23/02/2003
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