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Intervista a Dino Betti van der Noot
ottobre 2013
di Gianni Montano


INCIPIT - 2013

Il titolo del tuo ultimo disco riprende una frase tratta dalla "Tempesta" di William Shakespare. Hai tratto ispirazione in precedenza anche da D'Annunzio. C'è quindi in te la volontà di mettere in relazione teatro e musica, oppure più semplicemente estrinsechi qualcosa che è dentro il tuo bagaglio culturale?
Ci sono frasi o versi che, nel corso degli anni, assumono una particolare importanza, perché evocano stati d'animo o situazioni e illuminano in maniera sintetica intuizioni che stanno sottotraccia ancora allo stato brado. Si ammucchiano nella mente con il passare degli anni, pronte a saltare fuori al momento opportuno per definire momenti precisi. Dato che le mie musiche hanno sempre un'origine di tipo emotivo – emozioni che ho bisogno di scambiare con gli altri – queste citazioni spesso mi vengono spontanee; non sono quindi in relazione con azioni teatrali ma, in fondo, hanno sempre a che fare con la rappresentazione di qualcosa, magari anche semplicemente di un pensiero.



Analizzando a fondo il disco si possono trovare echi bandistici piuttosto marcati. Direi che la tua stessa orchestra in determinati segmenti dell'album prende le sembianze di una banda militare, magari del nord Europa, per poi mandare all'aria tutto con un ribaltamento della situazione. Hai buone conoscenze della musica per banda o semplicemente ti servivano determinati effetti e ti sei avvicinato a questo tipo di suoni da musicista curioso e onnivoro?

Le bande mi hanno sempre emozionato; ricordo la banda che passava per le vie di Meina per festeggiare la fine della guerra: mi era venuto un groppo di emozione che ancora adesso ritorna ogni volta che sento questi suoni, magari non perfetti ma suonati con enorme passione. No, non ho un'esperienza bandistica, ma vorrei ricordare che una componente importante del jazz delle origini sono state le bande, e questo si percepisce tuttora in maniera più o meno accentuata. Il suono della banda è un materiale sonoro che posso utilizzare dal punto di vista espressivo come molti altri materiali: ad esempio il free. Il secondo brano del disco, per esempio, inizia come fosse una banda di soli ottoni che suona per strada una specie di corale post-luterano; poi tutto cambia, ma questa parte iniziale dà un senso preciso a tutta la composizione.

Si è parlato di ritmo impalpabile, nascosto, come carattere peculiare del tuo album. Ascoltando il tuo ultimo cd, colpiscono innanzitutto il lavoro solistico e la parte arrangiata per i fiati e il ritmo si coglie dopo. Invece l'elemento poliritmico è una delle carte vincenti delle composizioni.
Ma dal mio punto di vista quello che si deve percepire è l'insieme, formato da tante voci. Le batterie sono ben presenti, tuttavia i loro interventi sono talmente intrecciati con gli altri strumenti da diventare un tutto unico, un flusso di energia generale. Il basso dialoga continuamente, aggiungendo spostamenti di accenti, e lo stesso fanno pianoforte, vibrafono, violino e arpa, in un continuo contrappunto libero. Ho cercato di costruire con l'orchestra un fraseggio a blocchi relativamente semplici – utilizzando molto spesso metriche inusuali nel jazz – in modo da stimolare questi interventi da parte degli strumenti cosiddetti ritmici.

Stai sicuramente vivendo un momento magico della tua parabola artistica e sembra che tu abbia trovato la formula giusta, dopo averla tanto cercata. Tutto quello che hai fatto prima è propedeutico a questi ultimi due lavori? Quale altro disco vedi come pietra miliare della tua carriera artistica?
Finora ogni disco è stato lo sviluppo di quello che avevo fatto in precedenza, probabilmente senza grandi salti: una specie di linea continua. Tutte le volte mi sembra di avere finito di poter dire qualcosa, di non essere capace di fare altro. Anzi, mi chiedo come io sia stato in grado di fare quello che ho appena realizzato: era successo con violenza dopo "Space Blossoms", alla fine del 1989, bloccandomi per quasi quindici anni. Poi, però, il bisogno di comunicare le mie emozioni, e di trovare nuovi modi per comunicarle, prevale e ricomincio a scrivere. È comunque un dato di fatto che, dopo il completamento di un album, per qualche mese non riesco a comporre alcunché. Non saprei scegliere un mio disco in particolare, forse proprio "Space Blossoms". Certamente avrei il desiderio di riprendere in mano e risuonare qualche brano già inciso in passato, per controllarne la vitalità e per reimpostarne l'interpretazione con la mia esperienza di oggi e con i musicisti che hanno collaborato alla nascita di "The Stuff Dreams Are Made On".

La tua big band è diventata una formazione quasi stabile, dopo molti cambiamenti. Con i tuoi musicisti sembra tu abbia instaurato un rapporto quasi medianico, se così si può dire. I solisti suonano in modo personale, ma, in realtà i loro interventi sono in linea totalmente con quello che tu vorresti uscisse dai loro strumenti. Riesci a far scaturire il tuo suono attraverso il loro aiuto...
Man mano ho imparato molto (e spero di continuare a farlo) dai musicisti con cui ho lavorato. Ho imparato anche a sceglierli, perché nel jazz – anche quello orchestrale – l'apporto di ogni singola voce è importantissimo e può fare la differenza. Questo vale sia per gli improvvisatori sia per i musicisti di sezione. Poi, al momento dell'esecuzione dico delle cose che apparentemente non hanno un senso musicale, racconto delle sensazioni, dei percorsi, e in questo modo cerco di instradare l'interpretazione nella direzione corretta. È certamente un modo d'agire non precisamente ortodosso, ma incredibilmente riesco così a stabilire un'empatia immediata con i musicisti.

Hai suonato con nomi quali Paul Bley, Steve Swallow, Paul Motian, ora sei circondato da musicisti di minor fama globalmente. La presenza di jazzisti così famosi e affermati ha condizionato la riuscita delle tue opere? Ora, con un gruppo meno titolato, lavori meglio sulle tue idee e concezioni?
Ma anche Bill Evans, Donald Harrison, Mitchel Forman, John Taylor, Schiaffini, Trovesi, Egan, Humair, Gottlieb, Don Moye, tutti musicisti dai quali ho imparato molto e che hanno accettato di suonare in un contesto differente da quello cui erano abituati. In realtà avevo bisogno di loro per capire dove io volessi andare; era anche, in fondo, qualcosa legato al fatto di sentirmi inadeguato. Poi, negli Stati Uniti hanno cominciato a chiedermi come facessi a far suonare certi musicisti in maniera tanto diversa da quanto suonassero normalmente; dopo averci pensato, la mia risposta è stata che, se tu prendi un talento e lo fai tuffare in un contesto completamente differente da quello in cui nuota ogni giorno, questo talento si scatenerà su strade nuove. Poi sono passati gli anni, i musicisti italiani sono cresciuti qualitativamente in maniera straordinaria, e io ho perso un poco della mia insicurezza trovandomi con un gruppo di straordinari musicisti che aderiscono perfettamente ai miei progetti con uno slancio, una partecipazione emotiva e un senso di amicizia inimmaginabili fino a qualche tempo fa.

E poi non ci sono solo i solisti. Ci sono quelli impegnati nel lavoro di supporto, nel creare le basi su cui si possano scatenare i fuochi d'artificio, in uno spazio appena appena aperto, molto delimitato. Sono fondamentali per la costruzione delle fondamenta armoniche e ritmiche della tua musica...
In realtà, come dicevamo prima, tutti sono sempre importanti, sia i solisti in primo piano (ma non tanto in primo piano: nella musica che sto facendo il solista si integra quasi sempre col gruppo, come succedeva nelle orchestre del jazz delle origini) sia chi li supporta. La mia scrittura porta un continuo intreccio fra le parti scritte e quelle accennate per iscritto e suggerite verbalmente. Ed è importante l'interpretazione delle sfumature, nelle parti scritte, perché se mancano quelle molta parte dell'emozione va perduta. Le sezioni devono essere perfette, sia dal punto di vista ritmico sia per l'intonazione, altrimenti si perde anche quella liquidità del senso ritmico che citavamo all'inizio.

Quasi tutti hanno citato giustamente Ellington o Basie ascoltando "Just to amuse a Muse". Vuoi, forse, ammonire tutti per dire che ogni tanto bisogna far battere il piede di chi ascolta?
Non ho certo voluto fare una copia: le copie sono sempre meno belle degli originali; spero di aver dato un'interpretazione personale del recupero di elementi stilistici caratteristici in altri momenti della storia jazzistica. Il jazz è, deve essere, innovazione costante, ma anche continuità. In realtà volevo divertirmi e far divertire sia i musicisti sia gli ascoltatori. L'album, in un certo senso, era molto serio e ci voleva un momento di relax, di divertimento spensierato.

Si sono sprecati i tentativi di inquadrare la tua musica con paralleli da Maria Schneider a Sun Ra a Stan Kenton a George Russell. Ti chiedo, invece, se senti di avere qualcosa in comune con Giorgio Gaslini straordinario musicista sempre aperto verso il nuovo, una vita spesa per il jazz e la musica contemporanea.
Gaslini è un musicista straordinario, coltissimo, capace di aperture compositive a tutto tondo, che ha portato avanti in maniera altrettanto straordinaria il jazz italiano e fatto volare tutti i musicisti che hanno avuto la fortuna di suonare con lui. Io non ho assolutamente questi meriti; e nei confronti di Giorgio ho una grande ammirazione fino dai tempi di "Tempo e relazione Opera 12"...beh, in un certo senso quello è stato qualcosa che mi ha spinto a cercare il nuovo...come hanno fatto certi brani kentoniani a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta, quando con il contributo essenziale di Rugolo Kenton cercava l'ibridazione con il contemporaneo. Lascerei stare Maria Schneider, bravissima continuatrice di Gil Evans, ma che proprio per questo vedo un po' lontana da me (anche se ho amato molto la musica di Evans, soprattutto quella meno recente); con Sun Ra possono esserci delle convergenze casuali, che arrivano però da posizioni molto distanti. Ci sono comunque due grandissimi compositori che vengono regolarmente dimenticati in questa lista: John Lewis e Charles Mingus, ogni opera dei quali è un esempio perfetto di musicalità e di struttura. E poi c'è Ellington, con il suo equilibrio, con la sua capacità di capire le personalità e le potenzialità inespresse dei musicisti, e di valorizzarle al massimo. Ecco, io faccio una musica diversissima da questi tre grandi, ma ho sempre presente il loro esempio, sia pure con la certezza di non essere alla loro altezza.

Con quali altri musicisti ti piacerebbe collaborare per il tuo prossimo disco?
Con gli stessi dell'ultimo album, anche perché strada facendo ho scoperto un po' di cose sul conto delle new entry e mi affascina l'idea di provare a inserirle ancora di più nel contesto. Con Mandarini, Visibelli e Cerino c'è ormai una lunga consuetudine di lavoro insieme: hanno temperamenti e modi di suonare molto differenti fra loro, ma proprio per questo perfettamente compatibili sia proprio fra loro sia con la musica nella quale si trovano a interagire. Ci capiamo al volo, ormai, e le loro improvvisazioni sono sempre perfettamente pertinenti, ma soprattutto belle, molto belle ed emozionanti. In quanto a Gusella, è stata la sua prima volta, ma si è già perfettamente calato nell'atmosfera con assoli e fill-in capaci di rendere il tessuto sonoro pienamente coerente con quello che sto cercando. Parrini...è stato il secondo disco insieme e quasi non c'è stato bisogno di parlare: capace di aggiungere sfumature imprevedibili e di interagire splendidamente sia con gli altri solisti sia con l'orchestra. Tacchini è ancora cresciuto in questi due anni, sia tecnicamente sia come compositore istantaneo: il suo assolo nel primo brano è da brivido. A Zitello chiedo sempre soltanto di suonare con il cuore e la generosità con cui suona nei suoi concerti da solo; il suo sound è diventato insostituibile nella mia musica. Niccolò Cattaneo mi ha detto: ma mi fai fare delle cose che non ho mai fatto; e questo ha portato un senso di freschezza che forse non ci sarebbe stato con qualche tastierista di lungo corso. Con Gianluca Alberti abbiamo messo a punto fin dall'inizio, e affinato negli anni, un approccio al basso elettrico che gli toglie la funzione più tradizionale, spingendolo a colloquiare costantemente con gli altri strumenti. Bertoli e Tononi: così diversi e così complementari fra loro; l'ordine e il disordine geniale che sottolineano e si oppongono allo scorrere della musica. Dove due capisezione come LoBello (grande acutista) e Begonia danno sicurezza e scioltezza a un'orchestra in cui tutti sono amici e mi sembra si ritrovino con piacere.







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Data pubblicazione: 02/11/2013

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