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Ferdinando ARGENTI: un jazzista italiano a Boston
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Volevo cominciare chiedendoti alcune cose lette
sulla tua biografia. Tu hai avuto una lunga esperienza di musicista su navi da
crociera, hotels, clubs. Cosa ti rimane di questa esperienza oggi?
Come tanti musicisti, italiani e non, che hanno iniziato
a suonare negli anni settanta , anch' io sono stato coinvolto dalla musica rock
del periodo, nonostante in casa ascoltassi e apprezzassi i dischi di mio padre:
Benny Goodman,
Glenn Miller,
Duke Ellington,
Louis Armstrong,
Ella Fitzgerald etc. e inoltre molto
presto cominciai a guadagnarmi la vita e un po' d'esperienza musicale e di vita
vissuta fuori dal mio ambiente pisano, suonando prima in sale da ballo e
discoteche toscane, e poi in night club italiani e svizzeri e infine in altri
stati d'Europa centrale e del nord in hotels e clubs. La musica che spesso
dovevo suonare non soddisfaceva i miei gusti musicali e necessità espressive,
il che mi portava ad ascoltare jazz e fusion gran parte del resto della
giornata e riprodurre poi i fraseggi che mi restavano in mente negli assoli a
me concessi durante la serata musicale. Diciamo che questo tipo di esperienza è
valida per un periodo piuttosto corto, per "farsi le ossa" in una
situazione di "mestiere", però è bene non rimanerci troppo altrimenti
si rimane un po' invischiati in un tipo di mentalità e di rapporto con la
musica che è controproducente e rischia di distoglierti dall'inseguimento degli
ideali di creatività e arte, che poi
sono quelli che contano e che portano a realizzarti come persona e come
musicista.
Fortunatamente io ne uscii in tempo - anche se avrei
potuto farlo prima - per cominciare anzi un processo di trasformazione che
spero e credo mi ha portato a trovarli.
Le navi da crociera, specialmente quelle in America e ora
anche in Giappone, sono però senz'altro una eccellente scuola
"pratica": si deve suonare di tutto, ma in diverse situazioni
musicali e spesso in "small big band", dove si fa molto swing alla
Basie e molto jazz tradizionale e le esigenze di competenza musicale da parte
dei musicisti "entertainers" sono molto più elevate che in un night
club o un hotel europeo.
Cosa mi è rimasto oggi? Un bel po' di esperienza
"pratica" , bei ricordi di viaggi tra musicisti e orchestrali di
tutto il mondo, e le due canzoni riarrangiate a mio modo del disco: "Raccontami di te" e "La più bella del mondo" due pezzi
molto suonati negli anni '70 nel night club italiano!
Quando hai deciso di andare negli Stati Uniti?
Quando ho capito che io personalmente sarei stato
motivato e facilitato da un ambiente e una scuola come la Berklee
che mi
avrebbero un po' "reggimentato" e spinto a studiare con più costanza
la musica che già praticamente amavo e suonavo, ma con poco approfondimento
tecnico e con limitata esperienza. Così un bel giorno dell'83 decisi di
sciogliere il mio trio con cui avevo lavorato quell'anno in Norvegia, Germania
e Svizzera e l'anno dopo raccolsi i miei risparmi e presi il mio primo aereo da
Stoccarda - accomiatandomi dalla mia ragazza tedesca -
per frequentare il già famoso Berklee
College of Music di Boston, di cui avevo saputo da due amici musicisti
italiani che c'erano già stati, Antonio Petrini
e Adriano Viterbo, di cui
avevo notato l'evidente salto di qualità tecnica e di "concept".
Cosa ti ha dato il Berklee?
Il primo anno moltissimo, da tutti i punti di vista: un
grande salto in avanti nella lettura a prima vista, grandi progressi nella
conoscenza delle varie tecniche pianistiche di armonizzazione jazz, e di riflesso un miglioramento anche nel mio
fraseggio basato sul bop, che però devo dire c'era già. Ovviamente però una
maggiore conoscenza delle riarmonizzazioni e delle tecniche e una esperienza
costante con un numero sempre maggiore di brani jazz non può che aprirti nuove
vie di espressione anche da quel punto di vista. Gli anni successivi (2) prima
della "graduation" furono senz'altro utili, ma l'impatto del primo
anno e soprattutto del primo semestre sono stati più forti.
Con ciò certo non voglio assolutamente dire che
l'esperienza Berklee o americana sia imperativa: ci sono talmente tanti
grandissimi musicisti jazz italiani ed europei-molto famosi che si sono
"fatti da soli"!
L'importante è ascoltare tanto jazz e studiare e se si ha
un po' di talento innato e determinazione, si raggiunge ugualmente il fine
desiderato. La musica e' come la vita: non si smette mai di imparare comunque!
Hai suonato con Chet Baker, Lee Konitz e Kenny
Wheeler. Un ricordo per ognuno di essi.
Chet, nell'87, incontrandomi per la prima volta a cena,
un'ora prima di suonare - senza prove - in prima serata, sostituivo il grande Luca Flores, mi chiede in italiano:
"Conosci My funny Valentine?".
Io rispondo "sì", un po'
intimidito perchè sapevo di non avere neanche un millesimo della sua esperienza
jazzistica - e lui semplicemente: "Allora
va bene", dopodichè si appisola tra la pasta e il secondo, poi si
sveglia, la cena è quasi finita, suoniamo poi in quartetto e naturalmente lui
suona come sempre: da Dio.
Lee Konitz, in una pausa tra un set e l'altro in
una serata in duo, mi dice due parole di approvazione e poi mi fa: "ehi, io ti ho offerto già due
"validations" e tu non mi hai detto ancora niente!". Io in
realtà ero ancora frastornato dalla poesia che era riuscito a creare da solo in
duo con me al Fender Rhodes - e il mio accompagnamento dell'epoca certo gli
sarà sembrato molto
"standard" per le sue abitudini già più moderne (Andrew Hill, Martial
Solal, Pieranunzi) - e io gli rispondo "Ma tu non ne hai bisogno: sei Lee Konitz!". Lui ride: "Certo che ne ho bisogno!". Qualche
volta nell'idealizzare queste figure, ci si dimentica che sono esseri umani
anche loro! Dovevi vederlo quando lo portai a visitare il Battistero di Pisa:
cominciò a emettere fischi vari perchè gli avevan detto che c'era
un'incredibile eco, e un prete subito lo zittì con un "shhhh!"
Kenny Wheeler, provando una sua composizione: "Non amo particolarmente il hi-hat in 2 e 4".
Il batterista, un seguace di Buddy Rich e Max Roach, si adattò però bene per la
serata, in cui comunque suonammo prevalentemente standards. L'originale di
Kenny "Smatter", è uno dei
miei preferiti.
Parlaci un po' delle tue influenze pianistiche sia
dal punto di vista tecnico che espressivo.
Non ho mai avuto un unico "idolo" pianista,
come può succedere naturalmente ad altri.
Nell'improvvisazione ho sempre cercato istintivamente di
riprodurre il fraseggio degli strumenti a fiato, il che mi ha fatto spesso pensare, data la mia facilità
naturale più melodica che armonica, che forse avrei dovuto continuare a
studiare il clarinetto, il cui studio abbandonai quando cominciai a viaggiare.
Però bisogna ricordare Horace Silver
e un altro grande - recentemente scomparso in
tragiche circostanze - Jaki Byard,
che ambedue suonavano anche il sax. Horace cominciò col sax, poi passò al piano
e c'è chi dice che questo gli abbia dato la sua impronta personale al
pianoforte. Di Jaki Byard forse ho anch'io la peculiarità (o vizio? non da
tutti è apprezzata) - di inserire occasionalmente frammenti di stili
provenienti da ere diverse del jazz in uno stesso brano o assolo, ma non è
un'abitudine costante.
Citerò altre influenze di diversi periodi del jazz,
alcune più udibili nel mio modo di suonare, altre meno: Teddy Wilson,
Count Basie,
Oscar Peterson,
Bill Evans,
Wynton Kelly,
Herbie Hancock,
Chick Corea.
Vorrei aggiungere Ray
Charles, da pochissimi conosciuto come pianista bop, e il pianista, più
famoso poi come organista rock-jazz, l'inglese Brian Auger.
Tra i non-pianisti, Charlie
Parker, Chet Baker,
Gerry Mulligan.
Che approccio segui nell'improvvisazione?
Ho già in parte involontariamente risposto nella domanda
precedente, ma posso aggiungere qualcosa dal punto di vista stilistico:
nonostante io abbia studiato abbastanza anche gli stili più moderni e riesca a
suonare un pezzo di Miles del periodo Shorter-Hancock o uno del quartetto di
Coltrane con McCoy Tyner
senza risultare troppo "fuori stile", e
possa anche occasionalmente, come si dice in gergo, "uscire" un po',
mi sento tuttavia sempre maggiormente legato al bop e la tradizione come
approccio tecnico e stilistico all'improvvisazione e quindi sono più a mio agio
in tale contesto. Dal punto di vista estetico - gusto personale - preferisco
rimanere melodico per la maggior parte del mio assolo e - dove il brano me lo
permetta - persino lirico, cercando però di non perdere di energia e
"groove". Nonostante non scelga o componga spesso brani blues, il
blues fa parte della mia esperienza musicale e ciò è avvertibile qua e là nei
miei assoli.
Come è organizzato il tuo studio oggi sia col
piano che con la voce?
Beh, senz'altro mi sento ancora molto più pianista e
compositore che cantante, ma il mio obbiettivo è di portare i vari livelli ad
un maggiore bilanciamento tecnico ed espressivo. Tecnicamente, col piano sto
cercando di migliorare ulteriormente la precisione ritmica, e di affinare
l'interazione melodica e armonica con lo strumento solista durante
l'accompagnamento. Per l'improvvisazione, sto gradualmente rilassandomi e
cercando di suonare meno fraseggi "noti" o standard, in favore di un
orientamento melodico e più "risparmiatore", spostando però la
posizione delle frasi sulle progressioni armoniche in maniera più inusuale, per
ottenere un effetto che è sempre melodico, data la scelta delle note, ma più
moderno e spero più personale.
Con la voce studio un po' di tecnica vocale tradizionale,
ma soprattutto lavoro nel curare l'efficacia interpretativa della frase e la
pronuncia inglese: anche se credo di avere una buona pronuncia, quaggiù è dura
se non si è di madrelingua!
Ancora sulla voce: influenze da Chet Baker e Frank
Sinatra. Ascoltando il tuo CD si avverte anche un forte legame con la
tradizione. Quanto è importante per te?
Per me è senz'altro importante, perchè a me piace una
melodia esposta sempre in maniera che il pubblico possa riconoscere il brano,
poi mi piace anche fare scat, ma come se fosse un chorus strumentale, per poi
ritornare ad una melodia interpretata e variata ma rimanendo entro certi
confini. Questo senza togliere di validità ai grandi interpreti del jazz vocale
moderno come Betty Carter, è semplicemente una sensibilità
personale mia. Se poi questo, o l'ecletticità del mio disco in quanto a
diversità di generi o stili, mi facesse uscire un po' dai canoni accettati
dalla critica per definire "jazz" un CD o un interpretazione vocale ,
la cosa non mi preoccupa - la musica in genere si sta facendo sempre più
"globale" e l'etichettare generi o stili non ha mai completamente
funzionato per nessuno.
C'e' ancora il dibattito, per esempio, se Frank Sinatra fosse un cantante jazz o pop.
Io penso che dovrebbe essere considerato tutt'e due, perchè cominciò con l'orchestra di
Harry James, per passare poi
a quella di Tommy Dorsey, in un era in cui le big bands e lo
swing erano ambedue swing e pop. Ma poi , che importa? Era un grande e basta!
Chet Baker è considerato un cantante jazz per il tipo di gruppi, il periodo
e gli ambienti in cui cantava, inoltre è vero che faceva anche un grande "scat", ma se ascolti come
espone la melodia con la voce, non c'erano poi molte più variazioni di quante
ne facesse Sinatra, di cui vocalmente era fra l'altro un ammiratore.
Tutt'e due esponevano la melodia in maniera chiara e in
apparenza relativamente semplice, sempre però interpretandola, come Billie Holiday
(che ambedue avevano
ascoltato) e
imprimendovi ognuno la loro impronta personalissima.
Spesso, a torto o a ragione, anche la
critica è…criticata. Come vivi tu il rapporto con la critica e come pensi debba
essere? Inoltre, qual è la situazione americana?
Beh, io sono solo agli inizi nel mio rapporto
con la critica, ma osservando il mondo musicale ti posso dire questo: ci sono
critici che sanno di cosa parlano, altri meno, e altri
"improvvisano" di più. Alcuni sono puristi, altri no. Cosa
significherà poi "purista"? Lo stesso jazz in assoluto è nato come una forma di "fusion"!
Senz'altro sono capaci di trovare un numero incredibile di aggettivi per
definire e descrivere la musica e lo stile di un musicista. Ricordo una volta di aver visto forse 10 aggettivi solo
per descrivere la qualità della voce di un cantante - era in un libro di un mio
amico di Viareggio che adesso scrive per Musica Jazz - Luciano
Federighi. Strabiliante
abilità!
La critica è utile all'artista della musica
come pubblicità del suo lavoro; attenzione alle recensioni negative, però...come musicisti dovremmo continuare a fare quello che ci viene dettato dal
nostro animo senza venire influenzati da critiche di qualsiasi tipo. Ammetto
che non e' facile.
Torniamo alla tradizione. Da un po' anche in
America attraverso operazioni come quella di Wynton Marsalis si sta rivalutando
la tradizione. Cosa pensi in merito?
Prima di parlare della tradizione, bisogna prima dire
che l'avanguardia nel jazz comunque non ha mai avuto vita facile negli Stati
Uniti!
Penso che tali operazioni pro-tradizione hanno senz'altro
riavvicinato molti giovani americani al jazz, che negli anni '70 era in grave
pericolo di "estinzione" e questo è il lato positivo,
insieme al fatto che i Marsalis
e i
cosiddetti "young lions",
tutti certo ottimi musicisti, hanno promosso una grande attività didattica qui
negli USA. Il lato negativo è che nell'analizzare al microscopio e riprodurre
la musica tradizionale quasi "come sul disco" spesso ci si dimentica
di ripescare anche l'anima di quella musica e queste "riproduzioni"
suonano perfette tecnicamente ma a mio avviso sono fredde, "dry",
mancano dello spirito che pervadeva le performances originali. Forse è perchè
semplicemente riflettevano lo spirito di quei tempi? E' buffo che me lo chiedi
adesso perchè ho appena cominciato una conversazione e-mail con un
cinquantacinquenne trombettista di New Orleans, Richard Robson Fleming, che ha trascorso gli ultimi 15 anni nel pianificare
un suo sistema personale per riportare "in vita" la musica jazz degli
anni '20 e '30 secondo un suo programma chiamato Original Culture Network
e un
suo "sistema non-politico per creare un business internazionale e
strutture artistiche designate a sostenere problemi mondiali" chiamato "World
Unity Project".
Forse è solo un simpatico visionario con un sogno
utopistico, ma un tipo interessante, lo potete contattare a: richflem@bellsouth.net
o andare su
www.worldunityproject.com.
Sul CD ci sono 7 brani di tua composizione, 3
standard (ottimo "You Don't Know What Love Is") e 4 brani italiani
cantati e riarrangiati: "Raccontami di te" di Bruno Martino, "In Cerca di
Te", "Bambina Innamorata" e "La più bella del mondo". Come è avvenuta la scelta dei
brani del CD?
E' senz'altro un CD eclettico, ma ho sperato che lo stile
di arrangiamento, la melodicità dei pezzi e degli assoli creasse un po' un filo
di congiunzione.
Le mie composizioni originali sono di diversi periodi
della mia vita, ma messe insieme in un CD per la prima volta.
In un disco che è il primo a mio nome non ho voluto
includere solo composizioni originali, e ho pensato di ardire cantando in
italiano negli Stati Uniti perchè è la mia lingua e se i latino-americani e gli
ispanici qui lo possono fare con lo spagnolo, non vedo perchè noi non dovremmo.
In Nord-America la lingua italiana nel canto è legata ancora all'immagine della
musica operistica e purtroppo c'è un'associazione mentale con le pubblicità
dei ristoranti e delle ricette della pasta... (raramente azzeccate comunque!).
Non fraintendermi però, amo il canto italiano "serio" tradizionale e
sono orgogliosissimo di Andrea Bocelli
-
forse il più grande cantante in assoluto della scena mondiale odierna - e
dell'incredibile successo che sta avendo qui negli Stati Uniti (per di più, è
nato in provincia di Pisa!).
Ho conosciuto Bruno
Martino personalmente, suonavamo nello stesso locale a Marina di
Pietrasanta un giorno e lui venne personalmente a complimentarsi con noi (ero
in duo con una cantante, Stefania Dal Pino)
al chè subito dissi di essere
sempre stato un suo fan. Fu uno dei pochi in Italia che componeva, cantava e
suonava pezzi jazzistici negli anni '50 e '60.
"In cerca di
te" è una delle canzoni italiane preferite di mio padre, che amava il
lavoro di Natalino Otto, un cantante
italiano degli anni '40 che andrebbe rivalutato e riascoltato in Italia e
altrove. "Bambina innamorata"
è un altro tra gli "standards" belli italiani che vorrei fossero più
suonati dai jazzisti, almeno quanto viene fatto attualmente con "Estate", la canzone di Bruno
Martino che Shirley Horn,
Chet Baker e
Joao Gilberto hanno introdotto sulla scena del jazz mondiale.
Credo che questo CD sia un po' la somma delle mie
svariate esperienze e gusti musicali.
Oltre te, sul CD suonano ben 16 musicisti, vuoi
presentarceli un po'?
I musicisti del CD sono tutti abitanti della zona del New
England (Massachusetts, New Hampshire, Maine, Rhode Island) eccetto Jorge Rossy,
batterista catalano che dopo aver suonato con Paquito
D'Rivera, attualmente
lavora e incide a New York con il trio di Brad
Mehldau - un grandissimo
pianista statunitense di cui senz'altro avrete già udito le "gesta". Jorge incise con me "You don't know what love is" quando
si trovava a Boston qualche anno fa, tutti gli altri brani del mio CD sono più
recenti (2000). In quel brano il bassista è l'ottimo Raetus Flisch,uno svizzero
tornato in patria, di cui ho perso le tracce. C'è nessuno che lo conosce e sa
dov'è?
I più presenti sono i bravi Todd Baker
al basso, ex diplomato Berklee e che adesso insegna all'Università del Massachusetts, e ha
suonato con Scott Hamilton, Cab Calloway, Rosemary Clooney, Steve
Allen, Hellen O'Connell, le orchestre di Woody Herman
e Artie Shaw, i Four Freshmen , ecc. e poi
Bob Savine alla
batteria, che ha suonato con Herb Pomeroy, Pat Metheny e il fratello Mike Metheny, trombettista, Fred Hersch, Tiger Okoshi, ecc.
Todd and Bob sono musicisti free-lance che fanno parte del mio trio
stabile, nonchè del mio ottetto con piano, basso, batteria, tre fiati,
fisarmonica & percussioni.
Il fisarmonicista, Roberto Cassan, è l'unico altro
italiano, di Fanna (Pordenone), anche lui un ex - Berklee - student.
Tra i non americani di origine, ci sono un francese, Lionel Girardeau,
e un argentino, Fernando
Huergo, ambedue bassisti elettrici e
ambedue ex-Berklee, il secondo attualmente vi insegna.
Riprendendo con gli americani, ecco Phil Person, grande solista della
tromba (sono specialmente compiaciuto del suo bellissimo assolo su "Bambina innamorata") e Tim McCall, con cui ho suonato in tour nell'orchestra di Artie Shaw diretta da Dick Johnson - è Tim il
sassofonista tenore dal suono corposo e l'approccio melodico e
"Gordoniano" di "Sea
sadness", una mia ballad. Ha anche lui un CD a suo nome.
Al Cron ha suonato quasi
tutti gli assoli di trombone - decisamente un hard bop player!
Un percussionista, Renato Thoms, sudamericano, è stato inserito in
alcuni brani di sapore più latino, e infine si sente un flauto, Bob Patton,
(anche al sax alto), peraltro engineer di tutte le incisioni eccetto "You don't know what love is", e poi
ci sono Mike
Peipman, australiano, alla tromba e flicorno, e, in 2 brani,
Jeff Galindo (che
ha lavorato con Phil Woods) al trombone,
anche lui insegnante del Berklee, con un CD personale. Altri batteristi
presenti sono Steve
Langone, che recentemente ha prodotto anche lui un CD a suo nome, e
Steve Hass,
un Newyorkese anch'egli ex-Berkleiano.
Oltre alla già citata "You Don't
Know What Love Is" con Jorge Rossy e Raetus Flish, sui brani del CD in cui
suoni in trio con Todd Baker e Bob Savine sembri totalmente a tuo agio e
interagite molto bene. A tal proposito mi piace citare i due brani
rispetivamente di apertura e chiusura (Easy To Love di Porter e Our Love Is
Here To Stay di Gershwin) oltre a Pisa Nova e Ferdi'sMood (con l'aggiunta di
qualche "tappeto"), tue composizioni.
Cosa pensi riguardo le possibilità
espressive offerte dalla formula del trio rispetto a formazioni più ampie e
quale è l'approccio del leader?
Ti dirò che all'inizio ero indeciso se incidere solo in
trio o no. Certo il trio lascia al pianista più possibilità di esprimersi
liberamente. Io però in questo disco ho voluto soddisfare anche le mie velleità di arrangiamento e in effetti mi piace molto
anche musica orchestrata con un numero
maggiore di strumenti. Col trio lascio liberi il bassista e il batterista di
suonare seguendo il loro feeling, naturalmente dicendo loro come sento il brano
con "l'orecchio della mente"; ovviamente quando il gruppo è più
ampio devo essere più rigido e specifico nelle richieste e istruzioni agli
altri musicisti.
Chi sono secondo te i Trii di ieri ma,
soprattutto, di oggi con la T maiuscola?
Beh, ti posso citare due grandi trii anche se
diversissimi: quello di Oscar
Peterson ieri e quello di
Keith Jarrett oggi, di cui l'ultima versione
è anche più vicina alla
mia sensibilità jazzistica (in altre parole, mi diverte di più ascoltarlo).
Altri due, ancora diversi? Quello di
Benny
Goodman ieri...l'altro (1938 circa) con
Gene Krupa, batteria,
Teddy Wilson, piano, e Goodman al clarinetto
(che a volte diventava
un quartetto con l'aggiunta di Lionel
Hampton al vibrafono)
e quello abbastanza recente di Chick Corea
con Dave Weckl
e John
Patitucci, o con Eddie Gomez
e Steve Gadd
- non mi pare però questi tre abbiano mai
inciso un intero album solo in trio, vero? Nel trio con Patitucci e Weckl c'è
molto virtuosismo fine a se stesso, ma sono così precisi e "puliti"! E
Brad Mehldau l'avete
sentito? Un nuovo genio del contrappunto jazz con un grande trio.
Qualche altro trio? I trii di
McCoy Tyner con
Elvin Jones alla batteria negli anni '60, non importa quale bassista;
Herbie Hancock con
Tony Williams e
Ron Carter, anche se ora nemmeno di loro ricordo un intero disco
inciso in trio. Qualsiasi trio di Bud Powell!
Un trio di oggi un po' "latino", funky e jazz
allo stesso tempo, con un tiro "micidiale"? Quello di Michel Camilo, eccezionale pianista anche lui .
Quali pianisti italiani conosci e apprezzi?
Avevo già nominato il grande Luca Flores, purtroppo non più tra noi. Una grave perdita per il
jazz italiano, come anche quella di Massimo
Urbani, che durante una gig mi chiese se avessi studiato il suo pianismo -
(il che veramente non avevo fatto) e mi
disse quanto stimasse Luca musicalmente lui stesso.
Altri due grandissimi, anche se diversi: Enrico Pieranunzi,
Dado Moroni.
E poi ora ce ne sono talmente tanti validissimi, che non
vorrei lasciarne fuori nessuno, comunque ricorderò ovviamente il noto Franco D'Andrea, e poi
Paolo Birro,
Antonio Farao',
Salvatore
Bonafede, Renato Chicco,
Rita Marcotulli,
Danilo Rea,
Stefano Bollani,
Mauro Grossi etc .
Il CD contiene molte foto di sfondo di Pisa e
Firenze. Un po' di nostalgia? Quanto sono importanti per te queste città?
Hai ragione. Però ce ne sono anche una di Venezia, una a
Roma, una di un fiordo norvegese e una del Grand Canyon!
Certo la Toscana e specialmente Pisa, la mia città
natale, sono ovviamente importanti per me, come lo è tutta l'Italia. Penso che
molti come me che abitano all'estero sviluppino forse da un lato una sana
capacità di distacco dalla madreterra, ma contemporaneamente un amore e un
orgoglio superiore di quando vi abitavano ogni giorno, quando davano tutto per
scontato. Quando torno in Italia con
mia moglie (di Detroit, ma italo-americana) adesso apprezzo molto
di più l'architettura, i siti storici,
i paesaggi! (per non parlare
dell'abbigliamento o del vitto!...).
Il CD è prodotto dalla FERDI'S MUSIC che è la tua etichetta.
Come nasce questa idea e da quando esiste? Hai in progetto di produrre altri
musicisti?
L'etichetta è mia ed esiste da un anno. E' anche la mia
publishing company che è affiliata ad ASCAP. Per il momento non ho intenzione
di produrre altri musicisti, ma in futuro è possibile.
Un'opinione sulla scena jazzistica attuale degli
Stati Uniti.
Io avevo sempre sentito dire che negli Stati Uniti il
jazz non viene considerato abbastanza come arte, a differenza dell'Europa o il
Giappone, dove invece in confronto è portato alle stelle.
Analizziamo un po' la questione. In parte è vero, anche
se qui le cose sono un po' cambiate per il meglio nell'ultimo ventennio. Lee Konitz stesso però nell'87 mi disse
che a New York aveva poco lavoro e doveva venire in Europa e fare tourneè e,
come sappiamo, molti jazzisti famosi vivono in Europa. Il problema in America
però è non tanto la considerazione del jazz come forma d'arte, che è migliore
adesso, ma i fondi stanziati per le arti in generale, che credo siano, in
proporzione, maggiori in Europa. Mi dicono che qui in USA i democratici tendono
ad essere più generosi con le arti dei repubblicani.
Però dal punto di vista "culturale" c'è anche un
rovescio della medaglia. Avendo abitato sia qui in America che in Europa, mi sono accorto di una differenza
sostanziale nella musicalità o abitudine a certi tipi di musica da parte
dell'uomo della strada. Un assolo di jazz è sopportato o apprezzato molto meno
dall'uomo della strada europeo che da uno americano. E questo sia che il solo
sia di Michael Brecker o
Coleman Hawkins. Parlo dell'uomo comune, non
particolarmente appassionato di jazz.
Qui la musica è così parte di tutto e di tutti che la
gente ha forse un'assuefazione maggiore a più generi musicali e specialmente
all'improvvisazione (se si esclude forse l'avanguardia più estrema!).
"My funny
Valentine" qui è sì un brano jazz, ma è prevalentemente una canzone di
cui la gente ricorda le parole e collega a "Valentine's day". In
Europa, è un pezzo jazz che un elite di persone con orecchio più coltivato
conosce per l'interpretazione di Miles o Chet. Qui si può suonare jazz
tradizionale fino al be-bop incluso e la gente quando può ci balla sotto. In
Europa non succede. Capisci cosa voglio dire? Il jazz una volta qui era una musica
del popolo e ciò è rimasto nella loro cultura di tutti i giorni e nella loro
consapevolezza. In Europa non lo è mai
stato, almeno in passato. Però l'Europa ha saputo giustamente valutare il
jazz, fin quasi dagli inizi, come forma d'arte che è nata dal popolo -
afroamericano in origine e in prevalenza, ma non solo - e questo fatto ha avuto
le sue ripercussioni positive anche negli USA.
Comunque tutto nel mondo occidentale si sta uniformando,
grazie ai "media", internet, i maggiori scambi culturali e i viaggi
oltreoceanici più frequenti. Persino il "groove", l'energia e la
precisione ritmica non sono solo più totale supremazia americana o degli
afroamericani (l'ultima volta che sono stato a Pisa ho ascoltato un duo funk
con un tipo di "tiro" e un "groove" che mi aspetterei di sentire solo a New York!). In Europa
forse c'è maggiore ricerca creativa nel jazz, anche se spesso per i miei gusti
troppa intellettualizzazione.
Per me non è solo col cervello che si compone un brano,
ma con quella parte profonda e superiore di te che riesce a commuoverti quando
trovi quella melodia o quella progressione armonica che ti toccano il cuore.
Il jazz non è morto da nessuna parte, solo che a volte
l'attenzione alla precisione tecnica nell'esecuzione sta un po' prevalendo sul
feeling e l'anima della musica. Ma c'è sempre chi ci mette il cuore.
Suonare jazz e mantenersi solo suonando questo tipo di
musica però è sempre difficile, qui come in Europa. Io sono fortunato ad avere 6 "gigs" alla settimana, al
momento, in cui suono solo standards e qualche original. Nel frattempo promuovo
il disco e le mie due formazioni.
Non so se "Smooth
jazz" sia arrivato anche in Italia, ma qui esiste un surrogato commerciale così chiamato che va forte come
vendita, di cui Kenny G
è il
campione supremo sdegnato dai jazzisti più impegnati ma comprato dal pubblico,
e nel cui contesto si ascoltano un gran numero di artisti molto differenti tra
di loro - si confondono ad esempio Dave
Koz e David Benoit
(funky easy
listening pop-jazz = smooth) con George
Benson, la voce di Nat King Cole
e
la figlia Natalie Cole, e talvolta
brani tipicamente pop, solo un po' più sofisticati!
Diciamo che qualcosa arriva anche qui.
Ho seguito un po' la polemica al vetriolo tra Kenny G e Pat Metheny! Ho un bel
CD di David Benoit (Waiting For Spring) con la grande e compianta Emily Remler,
John Patitucci e Peter Erskine, ma poi il resto non mi è piaciuto molto. Tu
cosa pensi su questa tendenza?
Non ho sentito il disco a cui ti
riferisci, vedrò di ascoltarlo.
Beh, in genere il Smooth Jazz è un po' monotono e suonato con
molta pulizia tecnica e d'incisione ma
poco spirito - a meno che non sia George Benson, naturalmente; anche se suonano spesso sue incisioni
più
commerciali nei programmi radio "Smooth jazz", non lo definirei mai
"Smooth"! Io non ho niente contro la musica più easy listening, se
le composizioni hanno carattere e i musicisti ci mettono l'anima, cioè se i temi sono belli e gli assoli intensi.
Sì, la polemica tra Kenny e Pat mi ha divertito, qui ci sono
stati diversi articoli sui giornali e tutti e due avevano sostenitori e
oppositori. Tutti però erano
d'accordo su un fatto: che Kenny non è il più dotato sassofonista del mondo
ma senz'altro il più ricco e il più di successo a livello di massa.
Segui un po' il jazz italiano, i festival, i
musicisti? Se sì, chi/cosa in particolare?
Seguo adesso tramite internet, gli italiani che passano
di qui, e le mie visite in Italia sempre più rare, ultimamente, ma conosco
sempre molti musicisti che ogni tanto contatto per avere notizie. Ho visto il
sito di Paolo Fresu, con cui ho suonato qualche volta in Italia dall'87 al
'90. Bello. Non lo sapevo anche un amante della poesia (al di fuori della
musica).
Un consiglio a chi dall'Italia sogna il Berklee e
l'America
Frequentare Berklee oggi è sempre più costoso, ma il
College offre molte borse di studio e poi è in Italia ogni anno per i workshops
a Perugia in concomitanza con Umbria
Jazz. E' sempre più una scuola famosa in
tutto il mondo per il jazz ma che paradossalmente, ma necessariamente per il
business, apre sempre più le porte a tutti i generi di musica rock e pop contemporanea e introduce sempre più classi di tecnologia applicata alla musica
e business della musica (il che non è affatto un male in se stesso). Si è però
ingrandita e ha insegnanti di tutti i livelli ed esperienze musicali (le buone
notizie tra i relativamente nuovi insegnanti: Joanne Brackeen
& Kennwood
Dennard.
Se i "sognatori" di Berklee amano l'avventura e
hanno un bel po' di risparmi, perchè no, magari alternando o corroborando
l'esperienza Berklee con studi privati con grandi musicisti teachers della zona
come Charlie Banacos e
Jerry Bergonzi...altrimenti, come ho detto, ci sono
molti musicisti e insegnanti bravi anche in Italia adesso!
In conclusione, Ferdinando Argenti oggi.
Un ex-nomade (...non del gruppo pop italiano degli anni 60!...) - girovago del mondo musicale che finalmente si è stabilito in un luogo
fisso e finalmente sta scoprendo se stesso in molti sensi, e specialmente in
quello musicale, cercando di proporre al mondo quello che ha dentro e non ha
mai lasciato veramente uscire.
Ogni tanto però mi viene un pò di nostalgia dei miei
viaggi: spero quindi in futuro di poter viaggiare di nuovo, ma questa volta
con la mia musica!
…e Ferdinando Argenti domani.
Il mio obbiettivo è di promuovere questa musica finchè
tutta o parte della musica contenuta nel CD ottenga più ascolto e sostegno di
tipo promozionale, per poter poi continuare a incidere su questa strada e
affinare la mie capacità compositive (scrivo anche testi , ma non ne ho inclusi
nessuno in questo album) e poter
esprimermi con un tipo di musica che scaturisce dalla parte migliore di me e che mi auguro possa arricchire un
po' spiritualmente chi la ascolta...e chi la suona!
Ti vedremo in Italia?
Lo spero molto. Sarò comunque in Italia per una visita ai
miei sempre più anziani ma sempre arzilli genitori il prossimo Febbraio 2002
(ancora non mi abituo a questi numeri!). Mille grazie e
arrivederci a tutti!
Lo speriamo anche noi, magari col tuo
trio ;-)
Certo , col trio è più facile
ottenere ingaggi!....
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COMMENTI | Inserito il 24/5/2008 alle 21.03.33 da "JAZZDRUMMER" Commento: Conosco personalmente FERDINANDO,l'ultima volta che l'ho sentito a LUCCA mi è apparso subito molto maturo ho sempre apprezzato amato il suo improvvisare cosi'romantico e delicato,ricorda un po'certi pianisti del passato razza in via d'estinzione,visto che tutti adesso seguono molto la tecnica,tralasciando la musica che propongono,tantissime note e poco contenuto!!! menomale però che ancora si può ascoltare pianisti come ARGENTI,spero tanto di vederlo presto in italia.CARLO TONINI VIAREGGIO (LUCCA) | |
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Data pubblicazione: 08/07/2001
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